L’Esercito popolare di liberazione fra mutamento della dottrina militare e riforma della struttura di comando. Un’ipotesi interpretativa

Il 26 novembre 2015 l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua annunciava il varo di un’imponente riforma militare. Approvata a conclusione dell’apposita Conferenza sul lavoro di riforma convocata dalla Commissione militare centrale, la “Riforma della difesa nazionale e delle Forze armate” (Guófáng hé jūnduì gǎigé, 国防和军队改革) delineava una radicale riorganizzazione dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) da attuare entro il 2020. Come evidenziato dagli osservatori internazionali, un aspetto cruciale dei provvedimenti attuativi adottati nei mesi seguenti sarebbe stato il sistematico ridimensionamento del ruolo delle Forze di terra, che per decenni avevano esercitato un dominio incontrastato sull’intera organizzazione militare. Se nella configurazione originaria la struttura di comando dell’Epl coincideva di fatto con quella delle sue Forze di terra, la riforma ha introdotto una struttura di comando separata per queste ultime e trasformato la struttura di comando dell’Epl in senso interforze, ponendo con ciò le premesse per relazioni più equilibrate fra i diversi Servizi armati. Come argomentato da diversi analisti, questo è un cambiamento storico, che segna per l’Epl l’abbandono del modello sovietico alla base delle riforme degli anni Cinquanta e l’avvicinamento al modello statunitense improntato al principio della cosiddetta jointness.[1]

Reparti dell’Esercito popolare di liberazione prendono parte alla cerimonia d’apertura della prima base militare della Repubblica popolare cinese all’estero, a Gibuti, il 1° agosto 2017 (immagine: STR/AFP/Getty Images).

 

Il superamento del ruolo dominante delle Forze di terra è in effetti coerente con l’evoluzione che la dottrina militare cinese ha sperimentato negli ultimi tre decenni. L’insistenza sul carattere congiunto delle operazioni militari è infatti un elemento consolidato nel panorama dottrinale cinese sin dai primi anni Novanta, quando il concetto di “operazioni congiunte integrate” (yītǐhuà liánhé zuòzhàn, 一体化联合作战) fu introdotto nei documenti ufficiali dell’Epl. Già negli anni Ottanta, del resto, la dottrina militare cinese aveva superato l’impianto rigidamente terrestre che ne aveva contraddistinto le fasi precedenti, con l’introduzione di “operazioni coordinate” (xiétóng zuòzhàn, 协同作战) che prevedevano il contestuale coinvolgimento di Marina e Aeronautica a fianco delle Forze di terra. Fino all’attuale riforma, tuttavia, questa considerevole evoluzione della dottrina non era stata seguita dalla conseguente revisione degli assetti organizzativi. Così, mentre la dottrina delineava operazioni congiunte da condurre con la partecipazione dei diversi Servizi armati, la struttura di comando dell’Epl restava di fatto dominata dalle Forze di terra.

È intorno a questo apparente paradosso che il presente contributo intende proporre una riflessione preliminare. Perché, così a lungo, l’evoluzione della dottrina militare non è stata accompagnata dalla necessaria riforma degli assetti organizzativi? E perché, dopo una lunga attesa, la riforma della struttura di comando è stata infine avviata alla fine del 2015? Le analisi sinora pubblicate tendono a concentrarsi esclusivamente sui provvedimenti recenti, trascurando con ciò una dimensione cruciale del problema: per comprendere come e perché la riforma sia stata varata solo nel 2015 è fondamentale ricostruire le ragioni che hanno impedito che essa fosse intrapresa in precedenza, pur in presenza di sviluppi dottrinali che rendevano largamente obsoleti gli assetti organizzativi vigenti. Solo collocando l’attuale riforma in una prospettiva di più lungo periodo è quindi possibile coglierne appieno la portata e le implicazioni.

Il tema sarà affrontato in tre passaggi: il primo paragrafo proporrà una sintetica presentazione dell’evoluzione dottrinale dai primi anni Ottanta, con particolare riferimento all’affermarsi del concetto di “operazioni congiunte integrate”. Il secondo paragrafo passerà quindi a esaminare la struttura di comando dell’Epl prima della riforma e i contenuti di quest’ultima. Il terzo paragrafo avanzerà, infine, un’ipotesi interpretativa che, partendo dal modello della cosiddetta “obbedienza condizionata”, individua nell’evoluzione delle relazioni fra élite civili e militari la chiave per comprendere i recenti sviluppi.

La dottrina militare cinese e le “operazioni congiunte integrate”

Sino alla fine degli anni Settanta la dottrina militare cinese si caratterizzava per l’assoluta centralità delle operazioni di terra. Sullo sfondo delle persistenti tensioni con l’Unione Sovietica, l’eventuale conflitto che l’Epl doveva prepararsi a combattere era infatti concepito come una guerra sostanzialmente terrestre, avente come principale teatro la profondità del territorio nazionale cinese. All’ipotetico attacco sovietico, l’Epl avrebbe infatti risposto “attraendo il nemico in profondità” (yòu dí shēnrù, 诱敌深入), per poi logorarlo e infine contrattaccare secondo la classica dottrina della “difesa attiva” di scuola maoista. Le necessarie operazioni sarebbero state condotte dalle Forze di terra, con un limitato coinvolgimento dell’Aeronautica e senza significativo coordinamento con la Marina. A quest’ultima sarebbe stata demandata l’autonoma gestione di eventuali scontri nei teatri marittimi, il cui ruolo nell’economia complessiva del conflitto sarebbe comunque rimasto marginale.[2]

Questo orientamento sarebbe mutato fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Già nell’autunno del 1980 la seduta della Commissione militare centrale ricordata nei testi cinesi come “Sessione 801” disponeva una sostanziale revisione della dottrina operativa, con il passaggio dalla tattica di “attrarre il nemico in profondità” al principio “difendere e fortificare i punti-chiave”. Si trattava insomma di fermare l’ipotetica offensiva sovietica senza permettere alle forze nemiche di sfondare: ciò poneva per la prima volta l’esigenza di un più stretto coordinamento tra Forze di terra e Aeronautica. Un anno più tardi le “modalità di conduzione di operazioni coordinate fra più Servizi e più Corpi armati in condizioni moderne” sarebbero state non a caso al centro di un’imponente esercitazione militare: la cosiddetta “Esercitazione 802”, che vide il coinvolgimento appunto di Forze di terra e Aeronautica.[3]

Il concetto dottrinale di “operazioni coordinate” – vale a dire operazioni con il contestuale coinvolgimento di Servizi armati differenti – si sarebbe consolidato nella prima metà degli anni Ottanta, sullo sfondo di una più generale revisione della dottrina. Mutava infatti in quegli anni la percezione del contesto internazionale: all’aspettativa di una guerra imminente si sostituiva la percezione di un contesto internazionale sostanzialmente stabile, al punto che – come Deng Xiaoping avrebbe affermato nel 1985 – la politica internazionale appariva ormai dominata dai due temi di “pace e sviluppo”. Così, nella primavera del 1985, la Commissione militare centrale disponeva la “transizione strategica” della politica militare cinese dallo “stato di guerra imminente” al “binario della costruzione pacifica” e approvava una nuova dottrina di base: la dottrina delle cosiddette “guerre locali” (júbù zhànzhēng, 局部战争).[4] L’Epl non era più chiamato a prepararsi a guerre combattute su vasta scala nella profondità del territorio cinese, bensì a guerre circoscritte per entità degli obiettivi politici ed intensità della violenza, da combattersi nelle periferie strategiche del paese, terrestri così come marittime. Diventava dunque cruciale un maggior coordinamento tra Forze di terra, Marina e Aeronautica. Il punto veniva ben evidenziato nel volume Scienza della strategia (Zhànlüè xué, 战略学), autorevole testo dottrinale pubblicato dall’Accademica delle scienze militari nel 1987:

Nella guerra contemporanea lo spazio del campo di battaglia si è ampliato: le operazioni si svolgono contemporaneamente sulla superficie, in aria, sui mari e persino nello spazio extra-atmosferico, gli equilibri mutano rapidamente, l’azione coordinata dei diversi Servizi e Corpi armati è complessa e ciò pone requisiti più avanzati rispetto alle guerre del passato non solo per il coordinamento a livello operativo ma anche per quello a livello strategico.[5]

L’esigenza di uno stretto coordinamento fra Servizi sarebbe apparsa ancor più evidente solo pochi anni dopo, per effetto dell’innovazione tecnologica in campo militare e delle teorie statunitensi sulla cosiddetta “Rivoluzione negli affari militari”. Particolare impatto ebbe sul dibattito dottrinale cinese la Guerra del Golfo: la straordinaria rapidità con la quale la coalizione a guida Usa era riuscita a prevalere su uno dei più moderni eserciti del Medio Oriente suscitò grande impressione fra gli osservatori cinesi. Ne derivò una nuova fase di revisione della dottrina dell’Epl che si sarebbe conclusa fra il dicembre del 1992 e il gennaio del 1993, quando la Commissione militare centrale approvò la nuova dottrina delle “guerre locali in condizioni di alta tecnologia” (gāo jìshù tiáojiàn xià júbù zhànzhēng, 高技术条件下局部战争). Si specificava così il concetto di “guerre locali” adottato nel 1985, richiedendo all’Epl di prepararsi a fronteggiare un nemico tecnologicamente avanzato. Sul piano operativo, le implicazioni erano assai significative: la compressione dei tempi di combattimento derivante dalla superiorità tecnologica del nemico e ben evidenziata dalla Guerra del Golfo imponeva, infatti, un più efficace coordinamento fra i diversi Servizi armati. Non si trattava più soltanto di condurre “operazioni coordinate” in cui i Servizi fossero in grado di combattere fianco a fianco: il mutato contesto tecnologico imponeva ora che i Servizi acquisissero la capacità di operare in modo pienamente congiunto, sotto un’unica catena di comando dalla pianificazione alla conduzione delle operazioni. Come nota Joel Wuthnow,[6] gli insegnamenti tratti dalla Guerra del Golfo sarebbero stati ben presto avvalorati da sviluppi più vicini a Pechino: la crisi nello Stretto di Taiwan del 1995-96. Dinanzi alle crescenti spinte indipendentiste nell’opinione pubblica taiwanese, alle forzature del Presidente Lee Teng-hui e alle ambiguità di Washington, Pechino optò per una risoluta strategia di deterrenza, volta a evitare strappi da parte di Taiwan sotto la minaccia di una riunificazione forzata.[7] Fra l’estate del 1995 e la primavera del 1996 vennero dunque organizzate imponenti esercitazioni con il coinvolgimento di unità di Forze di terra, Marina, Aeronautica e Seconda artiglieria (la forza missilistica e nucleare dell’Epl). Particolarmente significative furono le simulazioni di sbarco anfibio effettuate nell’autunno del 1995 presso la base di addestramento dell’isola di Dongshan, al largo della costa del Fujian.[8] Esercitazioni di questo tipo sarebbero state ripetute periodicamente negli anni successivi, con particolare attenzione al potenziamento delle capacità dei diversi Servizi armati di operare congiuntamente.

Nella seconda metà degli anni Novanta si affermava quindi nella dottrina militare dell’Epl il concetto di “operazioni congiunte integrate”. Già in precedenza il termine “congiunto” (liánhé, 联合) era stato sporadicamente utilizzato nel linguaggio dottrinale cinese: per esempio, in un simposio organizzato dalla Commissione militare centrale nell’estate del 1977, Deng Xiaoping aveva parlato di “operazioni congiunte fra diversi Servizi e Corpi armati”. A tale termine veniva ora affiancata un’ulteriore specificazione: “integrate” (yītǐhuà, 一体化), a indicare il requisito di interoperabilità fra Servizi armati diversi.[9] Il consolidamento del concetto di “operazioni congiunte integrate” nella dottrina dell’Epl pare risalire alla seconda metà degli anni Novanta: le “operazioni congiunte integrate” sono infatti ben presenti nell’edizione del 2001 di Scienza della strategia. Fra gli effetti dell’innovazione tecnologica, il volume evidenzia l’“integrazione spaziale del campo di battaglia” (zhànchǎng kōngjiān yītǐhuà, 战场空间一体化): “i campi di battaglia su terra, mare, aria, spazio extra-atmosferico, spazio elettromagnetico sono un tutt’uno; combattimenti e operazioni in ciascun campo di battaglia sono condizione per combattimenti e operazioni negli altri”.[10] Da qui l’esigenza di ripensare le operazioni militari in senso congiunto:

Anche se si tratta di operazioni di scala limitata, è necessario che abbiano natura congiunta: la natura di contrapposizione fra sistemi è sempre più evidente e ciascuna forza operativa può manifestare la propria efficacia solo se impiegata congiuntamente alle altre. Le operazioni congiunte integrate sono diventate la modalità fondamentale delle guerre locali in condizioni di alta tecnologia, la “contrapposizione fra sistemi” e l’“attacco integrale” sono diventati principi più importanti delle “operazioni indipendenti”.[11]

La struttura delle Forze: aggiustamenti e riforma

Se la dottrina militare affrontava sin dai primi anni Ottanta un processo di profonda trasformazione, gli assetti organizzativi dell’Epl si caratterizzavano al contrario per l’assenza di significative discontinuità. Si andava così delineando un’evidente divergenza fra la dottrina, incentrata sul principio di un più stretto coordinamento fra Servizi armati, e la struttura di comando, ancora dominata dalle Forze di terra in continuità con il modello risalente agli anni Cinquanta.[12] Quest’ultimo prevedeva che al vertice delle Forze armate fosse collocata la Commissione militare centrale, organo politico-militare il cui controllo sull’Epl veniva esercitato attraverso i Dipartimenti generali, ad essa sottoposti benché inquadrati come autonomo livello organizzativo: il Dipartimento generale di Stato maggiore, il Dipartimento generale politico e il Dipartimento generale logistica, cui si sarebbe aggiunto nel 1998 il Dipartimento generale armamenti. Al di sotto dei Dipartimenti generali la struttura dell’Epl era improntata a un principio di rigida territorialità, con l’accentramento dell’autorità in capo a Regioni militari (jūnqū, 军区) il cui numero ha subito nel corso dei decenni ripetute variazioni, per assestarsi infine a sette nella riorganizzazione del 1985.[13] Dal punto di vista della struttura di comando, l’autorità procedeva quindi dalla Commissione militare centrale al Dipartimento generale di Stato maggiore e da questo agli organi del Dipartimento stesso istituiti presso i Comandi delle Regioni militari. La Marina e l’Aeronautica erano inquadrate come “Servizi armati” (jūnzhōng, 军中) e in quanto tali dotate di un proprio organo di comando. La Seconda artiglieria era inquadrata come “Corpo armato” (bīngzhǒng, 兵种) ed era quindi collocata un grado al di sotto di Marina e Aeronautica. Le Forze di terra, per contro, non erano formalmente inquadrate come Servizio armato e non presentavano pertanto un proprio organo di comando: al vertice dell’organizzazione militare le relative funzioni erano di fatto attribuite al Dipartimento generale di Stato maggiore dell’Epl; allo stesso modo, ai livelli inferiori dell’organizzazione militare l’organo di comando delle Forze di terra era costituito dal corrispondente organo di comando dell’Epl.

Sino alla riforma annunciata nel 2015 vi è stata quindi una perfetta sovrapposizione fra struttura di comando delle Forze di terra e struttura di comando dell’Epl, il che determinava una situazione di incontrastato dominio organizzativo delle Forze di terra sull’intero Epl. Come viene osservato nelle fonti cinesi, tale dominio organizzativo si traduceva in vero e proprio dominio culturale, con l’Epl permeato da una “mentalità da primato delle Forze di terra” (dà lùjūn guānniàn, 大陆军观念).[14] Era questa una situazione in aperta contraddizione con gli sviluppi dottrinali descritti sopra, che sin dalla metà degli anni Ottanta avevano posto l’esigenza di più equilibrate relazioni tra Forze di terra, Marina e Aeronautica. In assenza di una riforma della struttura di comando, un limitato aggiustamento degli assetti organizzativi alla nuova dottrina militare venne inizialmente perseguito per altra via, vale a dire attraverso l’attenta calibratura dei piani di smobilitazione, che sin dai primi anni Ottanta erano stati attuati con l’obiettivo di snellire un’organizzazione militare riconosciuta dalle stesse fonti cinesi come “sovradimensionata e caotica” (yōngzhǒng pángzá, 臃肿庞杂).[15] I cicli di smobilitazione che dai primi anni Ottanta all’inizio degli anni Duemila hanno ridimensionato drasticamente il numero degli effettivi dell’Epl si sono infatti concentrati prevalentemente sulle Forze di terra. Nel 1981, sui 4,75 milioni di unità che componevano il personale totale dell’Epl, 3,9 milioni erano allocati alle Forze di terra, 360.000 alla Marina e 490.000 all’Aeronautica.[16] Nel 2007, per contro, sui 2,255 milioni di unità di personale stimate in capo all’Epl, 1,6 erano allocate alle Forze di terra, 255.000 alla Marina e 400.000 all’Aeronautica. La smobilitazione aveva dunque prodotto un sensibile riequilibrio nella ripartizione del personale totale dell’Epl: se nel 1981 le Forze di terra rappresentavano oltre l’82 per cento del personale totale con la Marina e l’Aeronautica rispettivamente a poco più del 7 e del 10 per cento, nel 2007 la quota di personale allocata alle prime era scesa a circa il 71 per cento, mentre quella allocata alla seconda e alla terza era salita a oltre l’11 e il 17 per cento. Il lungo processo di smobilitazione aveva dunque perseguito non solo un obiettivo di riduzione quantitativa degli effettivi dell’Epl, ma anche un obiettivo di ristrutturazione qualitativa in accordo con le mutate esigenze derivanti dalla dottrina, come sottolineato dalle stesse fonti cinesi.[17] Si trattava tuttavia di un aggiustamento realizzato a struttura di comando invariata, dunque incapace di scalfire realmente il dominio organizzativo che le Forze di terra esercitavano sull’Epl.

Una riforma in tal senso avrebbe dovuto attendere ancora a lungo, a dispetto delle ricorrenti indiscrezioni circolate fra gli osservatori sin dalla fine degli anni Novanta. Un primo segnale sarebbe giunto nell’autunno del 2013, a conclusione della Terza sessione plenaria del XVIII Comitato centrale. La risoluzione allora adottata dal Comitato centrale per il “complessivo approfondimento della riforma” indicava infatti tra gli obiettivi prioritari l’“approfondimento della riforma della difesa nazionale e delle Forze armate”. Il documento preannunciava provvedimenti volti a “rimuovere i principali problemi e contraddizioni che ostacolano lo sviluppo e la costruzione della difesa nazionale e delle Forze armate”: in particolare, si mirava ad “approfondire l’aggiustamento e la riforma della struttura del sistema delle Forze armate”, intervenendo da un lato sul “sistema di amministrazione e direzione” (lǐngdǎo guǎnlǐ tǐzhì, 领导管理体制) e dall’altro sulle relative strutture di “comando operativo congiunto” (liánhé zuòzhàn zhǐhuī, 联合作战指挥).[18] Fino alla seconda metà del 2015, tuttavia, non venne resa nota alcuna indicazione ufficiale in merito all’effettiva attuazione di tali interventi, in un contesto in cui era peraltro l’intera spinta riformatrice della nuova leadership cinese, guidata da Xi Jinping dal 2012, a incontrare ostacoli e resistenze.

Il segnale di una svolta giunse il 3 settembre 2015, in occasione dell’imponente parata militare organizzata a Pechino per la celebrazione del settantesimo anniversario della vittoria cinese nella Seconda guerra mondiale. Nel suo solenne discorso dai rostri di Piazza Tian’anmen, prima di passare in rassegna le truppe, Xi Jinping annunciò la smobilitazione di 300.000 unità dalle file dell’Epl. Come si sarebbe saputo solo successivamente, era ormai da tempo al lavoro un apposito “Gruppo direttivo ristretto della Commissione militare centrale per l’approfondimento della riforma della difesa nazionale e delle Forze armate”, presieduto dallo stesso Xi. La proposta finale elaborata dal Gruppo veniva approvata dalla citata Conferenza di lavoro tenutasi a Pechino tra il 24 e il 26 novembre: il “Parere della Commissione militare centrale sull’approfondimento della riforma della difesa nazionale e delle Forze armate” veniva infine pubblicato il primo gennaio del 2016.

Senza entrare nel merito dei diversi aspetti della riforma, è opportuno evidenziare come questa abbia ridefinito la struttura di comando.[19] A tal proposito va precisato anzitutto che obiettivo principale della riforma è la complessiva ristrutturazione dell’organizzazione militare conformemente al principio per cui “la Commissione militare centrale esercita una supervisione complessiva, le Regioni operative presiedono alle operazioni, ai Servizi armati spetta la costruzione” (Jūnwěi guǎn zǒng, zhànqū zhǔ zhàn, jūnzhǒng zhǔ jiàn, 军委管总、战区主战、军种主建). Su queste basi vengono introdotti due sistemi distinti, entrambi facenti capo alla Commissione militare centrale: il sistema di amministrazione e direzione e il sistema di comando operativo congiunto. Nel primo di questi due sistemi, relativo alla direzione amministrativa sulle Forze e alla loro modernizzazione, l’autorità procede dalla Commissione militare centrale ai Servizi armati: la prima esercita sui secondi una “direzione accentrata e unificata” (jízhōng tǒngyī lǐngdǎo, 集中统一领导). Nel secondo sistema, che costituisce la vera e propria catena di comando operativo, l’autorità fluisce dalla Commissione militare centrale alle Regioni operative, secondo un “sistema di comando operativo congiunto a due livelli” (liǎng jí liánhé zuòzhàn zhǐhuī tǐxì, 两级联合作战指挥体系).

Nel secondo di questi due sistemi – quello che maggiormente interessa in questa sede – l’autorità della Commissione militare centrale viene esercitata attraverso il Dipartimento di Stato maggiore congiunto, uno dei 15 nuovi “Dipartimenti funzionali” (zhínéng bùmén, 职能部门) che sostituiscono i pre-esistenti Dipartimenti generali. In virtù della propria posizione di filtro fra la Commissione militare centrale e i livelli inferiori dell’organizzazione, i Dipartimenti generali avevano costituito in passato uno straordinario centro di potere, in grado di ostacolare il controllo della Commissione sulle Forze. La riforma smantella i Dipartimenti generali e redistribuisce le relative competenze frammentandole fra i 15 Dipartimenti funzionali di nuova istituzione, che – come indicato appunto dal termine “funzionali” – non costituiscono un autonomo grado nell’organizzazione militare ma sono inquadrati quali organi interni alla Commissione stessa. Fra questi, il Dipartimento di Stato maggiore congiunto eredita le funzioni del pre-esistente Dipartimento generale di Stato maggiore: a differenza di quest’ultimo, ne viene tuttavia evidenziata la natura congiunta, quale organo pienamente interforze. Il secondo dei due livelli di cui si compone il sistema di comando operativo sono le cinque Regioni operative (zhànqū, 战区), che sostituiscono le preesistenti sette Regioni militari. Al di là della riduzione di numero, la novità cruciale è anche in questo caso la ristrutturazione degli organi di comando in senso interforze. Ciò è reso a sua volta possibile dalla preliminare riorganizzazione delle Forze di terra: il 31 dicembre 2015 Xi Jinping presiedeva all’inaugurazione del nuovo organo di comando delle Forze di terra. Queste ultime divenivano cioè un Servizio armato a tutti gli effetti, dotato di un proprio vertice esattamente come la Marina, l’Aeronautica e la Forza missilistica – nuova denominazione della Seconda artiglieria, elevata da Corpo armato a Servizio armato. Si realizza con ciò la separazione fra la struttura di comando delle Forze di terra e quella dell’Epl, consentendo alla seconda di assumere carattere pienamente interforze. La riforma rimuove dunque la principale ragione strutturale che aveva alimentato il predominio organizzativo delle Forze di terra, con ciò allineando la struttura di comando al principio della jointness ormai da tempo centrale nella dottrina.

Il ritardo nell’avvio della riforma: un’ipotesi interpretativa

L’adattamento della struttura di comando alla dottrina militare è dunque giunta in seguito a una lunga fase di attesa: dal consolidamento del concetto di operazioni congiunte integrate nella seconda metà degli anni Novanta all’avvio della riforma nel 2015 sono trascorsi oltre quindici anni. Benché sia tutt’altro che infrequente riscontrare lentezze nell’adeguamento degli assetti organizzativi ai mutamenti dottrinali, in questo caso è evidente che ci troviamo dinanzi a qualcosa di più di un fisiologico rallentamento: si tratta di una vera e propria divaricazione fra dottrina militare e assetti organizzativi che necessita di una spiegazione.

L’ipotesi interpretativa che si intende qui proporre è che tale divaricazione e il suo successivo superamento abbiano a che fare con l’evoluzione delle relazioni fra élite civili e alti comandi militari dai primi anni Novanta ai giorni nostri. In generale, ogni riforma dell’organizzazione militare che miri a ridefinire assetti consolidati deve essere anzitutto in grado di superare l’inerzia istituzionale che è propria di ogni burocrazia e le potenti resistenze opposte da gruppi più o meno influenti all’interno dell’organizzazione.[20] In questo quadro un elemento facilitante del processo di riforma è rappresentato dalla saldatura di interessi fra le componenti interne all’élite militare favorevoli alle riforme e i vertici politici che, agendo dall’esterno dell’organizzazione militare, sono in grado di alterarne gli equilibri interni. L’ipotesi che qui si propone è che i riformatori presenti ai vertici dell’apparato militare cinese non abbiano per lungo tempo potuto contare sul sostegno esterno della leadership politica perché lo stato delle relazioni civili-militari negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo non consentiva interventi di questo tipo. In particolare, la notevole autonomia riconosciuta in quella fase storica ai militari – con pochi precedenti nella storia della Repubblica popolare – rendeva impraticabile un intervento diretto della dirigenza politica civile nelle questioni relative all’organizzazione interna delle Forze armate, con ciò rimuovendo un decisivo elemento di pressione esterna. Di qui i limitati aggiustamenti operati attraverso il processo di smobilitazione, come tentativo di rispondere all’evoluzione dottrinale senza tuttavia mettere in discussione assetti istituzionali (e interessi corporativi) ben consolidati. È solo nella fase più recente che i cambiamenti intervenuti nelle relazioni fra civili e militari hanno sbloccato la situazione, consentendo di intraprendere infine la via di una riforma strutturale: sullo sfondo di una significativa compressione dell’autonomia delle Forze armate, l’élite civile ha infatti riacquistato margini di intervento nelle questioni militari, che sono stati impiegati per sostenere dall’esterno gli elementi riformatori presenti negli apparati dell’Esercito popolare.

Nel guardare alle relazioni fra civili e militari nella Cina contemporanea va anzitutto precisato che queste non sono riconducibili al più fortunato dei modelli elaborati dagli scienziati politici, ossia la dicotomia proposta da Samuel Huntington fra “controllo soggettivo” – vale a dire la massimizzazione del controllo esercitato sui militari da uno specifico gruppo di civili – e “controllo oggettivo”, cioè “quella distribuzione del potere politico tra gruppi militari e civili che favorisce maggiormente l’emergere di atteggiamenti e comportamenti professionali tra i componenti del corpo ufficiali”.[21] La distinzione stessa fra élite civile ed élite militare, che entrambi questi modelli presuppongono, non è infatti storicamente presente nel caso cinese, caratterizzato per contro da una considerevole sovrapposizione fra le due élite. Civili e militari sono stati cioè per lungo tempo parte di una stessa “élite duale”, forgiata nell’esperienza decisiva della lotta rivoluzionaria: così come per decenni i principali dirigenti del Partito sono stati al tempo stesso leader militari riconosciuti come tali, gli alti ufficiali dell’Epl erano dirigenti di Partito, dei cui organismi facevano parte a pieno titolo. Per questa ragione un modo più appropriato di guardare alle relazioni fra civili e militari nella Repubblica popolare almeno fino alla fine degli anni Ottanta è la classificazione delle relazioni Partito-Esercito nei regimi comunisti proposta da Amos Perlmutter e William LeoGrande.[22] Sulla base del grado di autonomia istituzionale detenuta dall’Esercito rispetto al Partito, i due studiosi identificano tre diversi modelli: coalizione, simbiosi e fusione. La Cina veniva da loro associata al modello della simbiosi, concepita come una relazione organica in cui Partito ed Esercito sono inseparabili e dipendono l’uno dall’altro per la propria sopravvivenza. Caratteristiche di questa relazione simbiotica sono la bassa differenziazione tra dirigenza civile e militare, ma anche la frequente circolazione delle élite tra incarichi dei due diversi tipi. In un simile contesto non esistono barriere nette a separare ambito civile e ambito militare: è pertanto frequente l’intervento dei più alti dirigenti del Partito in questioni militari relative alla struttura delle Forze ma anche alla dottrina e persino alla pianificazione delle operazioni.[23]

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, la relazione simbiotica fra Partito ed Esercito in Cina attraversò un processo di trasformazione, parallelo alla graduale uscita di scena dell’élite duale. Élite civile ed élite militare si andarono “biforcando”, con l’emergere, da un lato, di un corpo ufficiali altamente professionalizzato e, dall’altro, di una dirigenza di Partito composta prevalentemente da tecnocrati.[24] Mentre Mao Zedong e Deng Xiaoping avevano potuto beneficiare della lealtà incondizionata dell’Epl grazie alle proprie esperienze sul campo di battaglia e alle  relazioni personali con figure-chiave ai vertici dell’organizzazione militare, i nuovi dirigenti del Partito avevano avuto nella propria precedente carriera solo limitate occasioni di interazione con l’Epl. Le dimissioni di Deng dalla Commissione militare centrale nell’autunno del 1989 segnarono così un passaggio cruciale verso un nuovo modello di relazioni civili-militari, che si trasformarono nella direzione della cosiddetta “obbedienza condizionata”.[25] Introdotto da Ellis Joffe e poi sviluppato da James Mulvenon, il modello dell’obbedienza condizionata descrive una situazione in cui l’Epl continua a obbedire alle direttive del Partito comunista cinese (Pcc) ma – a differenza del passato – lo fa esigendo in cambio significativi margini di autonomia in aree di proprio specifico interesse istituzionale, dall’allocazione del bilancio militare alle procedure di promozione interna, dai programmi di istruzione militare professionale all’elaborazione dottrinale.[26] L’obbedienza condizionata è in ciò coerente con un altro dei modelli di relazioni Partito-Esercito proposti da Perlmutter e LeoGrande: quello della coalizione, inizialmente applicato al caso dell’Unione Sovietica. Per coalizione i due studiosi intendono “un rapporto di mutuo beneficio per le parti coinvolte, una combinazione caratterizzata da sfide interne ed esterne, ma una combinazione in cui l’autonomia di ciascuna struttura costituisce la principale preoccupazione”.[27] La caratteristica principale di questo modello è dunque la reciproca autonomia istituzionale di Partito e Forze armate, mitigata dalla reciproca dipendenza ai fini della sopravvivenza: da un lato essi funzionano da istituzioni autonome con distinti interessi istituzionali; dall’altro continuano però a dipendere dal reciproco sostegno per la rispettiva sopravvivenza. Nei due decenni che corrispondono al mandato di Jiang Zemin (1989-2002) e di Hu Jintao (2002-2012) alla guida del Pcc, il mantenimento del controllo civile sui militari è dunque passato attraverso il riconoscimento a questi ultimi di un inedito margine di autonomia. Per questo motivo, altrettanto inusitate sono state, in quegli stessi, anni le difficoltà riscontrate dall’élite civile nell’intervenire in questioni relative all’organizzazione interna delle Forze armate.

L’equilibrio raggiunto all’inizio degli anni Novanta ha però subito significativi aggiustamenti nella nuova fase che si è aperta in seguito al XVIII Congresso nazionale del Pcc nell’autunno del 2012. Va anzitutto segnalato che quel Congresso concedeva al nuovo Segretario generale del Pcc, Xi Jinping, una posizione di forza nei rapporti con l’Epl di cui né Jiang Zemin né Hu Jintao avevano potuto beneficiare.[28] Questi ultimi avevano infatti dovuto a lungo condividere l’autorità sull’Epl con il proprio predecessore. Nel caso di Hu, come noto, l’assunzione della presidenza della Commissione militare centrale era giunta solo nel settembre del 2004, ben due anni dopo l’elezione a Segretario generale del Pcc nell’autunno del 2002: due anni in cui Jiang aveva mantenuta ben salda la propria presa sull’Epl. Seppur con modalità differenti, lo stesso Jiang aveva dovuto a suo tempo attendere diversi anni prima di poter consolidare il proprio controllo sull’Epl. Benché infatti la sua ascesa alla presidenza della Commissione militare centrale (novembre 1989) seguisse solo di pochi mesi l’elezione a Segretario generale del Partito (giugno 1989), per diversi anni la subordinazione dell’Epl alla sua autorità fu in larga misura legata al benevolo sostegno di Deng da dietro le quinte. Al contrario, nell’autunno del 2012 Xi otteneva contestualmente le cariche di Segretario generale del Pcc e di Presidente della Commissione militare centrale sullo sfondo dell’immediata e definitiva uscita di scena di Hu. Facendo leva su questa più solida posizione Xi ha potuto da subito estendere all’Epl la campagna anticorruzione, una delle principali leve per il “veloce consolidamento” del suo potere sul Partito e sullo Stato nella fase immediatamente successiva al XVIII Congresso.[29] Muovendo da indagini in corso, che già all’inizio del 2012 avevano portato alla destituzione dell’allora Vicedirettore del Dipartimento generale logistica Gu Junshan, la campagna anticorruzione promossa di Xi si indirizzò risolutamente verso gli alti ufficiali che avevano ricoperto incarichi di vertice durante il precedente mandato di Hu. Nella primavera del 2013 iniziarono a circolare le prime indiscrezioni su indagini disciplinari a carico dell’ex Vicepresidente della Commissione militare centrale Xu Caihou, misteriosamente assente alla sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo di quell’anno. Le indiscrezioni, divenute via via sempre più insistenti e circostanziate, sarebbero state infine confermate nell’estate del 2014, quando Xu venne espulso dal Partito con l’accusa di gravi violazioni disciplinari, relative in particolare alla gestione di un capillare sistema di compravendita delle promozioni. Xu sarebbe morto per malattia prima di affrontare il processo, ma di lì a pochi mesi venne sottoposto a indagini anche Guo Boxiong, l’altro Vicepresidente della Commissione militare centrale durante il mandato di Hu e anzi primo per protocollo fra i due: espulso dal Pcc con accuse simili, Guo sarebbe stato condannato all’ergastolo nell’estate del 2016.

Come fu da subito evidente, la scelta di puntare ai vertici militari della precedente amministrazione non era casuale. Al contrario, essa mirava a creare un clima di vera e propria “intimidazione” ai piani alti dell’Epl:[30] l’accusa di compravendita delle promozioni rivolta alla precedente dirigenza minacciava infatti di travolgere anche la nuova, che proprio negli anni di Guo e Xu aveva compiuto la propria scalata verso i vertici della gerarchia militare. Il messaggio venne trasmesso forte e chiaro già nell’autunno del 2014, quando l’ottantacinquesimo anniversario della celebre Conferenza di Gutian del 1929 veniva celebrato con una “Nuova Conferenza di Gutian” (xīn Gǔtián huìyì, 新古田会议) convocata da Xi nell’omonimo villaggio. Svoltosi a poche settimane dalla caduta di Xu Caihou e accompagnato da una martellante propaganda, l’evento riunì nel villaggio del Fujian oltre 420 ufficiali dell’Epl – “tutti i più alti dirigenti militari ancora in grado di deambulare e di respirare”[31] – molti dei quali promossi appunto negli anni di Xu. Più tardi, una volta caduto in disgrazia anche Guo, la campagna anticorruzione si sarebbe volta a sradicare meticolosamente l’influenza residua dei due ex Vicepresidenti, determinando la caduta in disgrazia delle “tigri” più o meno direttamente legate ai due e preservando per contro gli ufficiali con differente affiliazione.[32] Né la campagna anticorruzione si sarebbe limitata ai soli ufficiali a riposo: nell’estate del 2017 l’ex Capo di Stato maggiore Fang Fenghui e l’ex Direttore del Dipartimento per il lavoro politico Zhang Yang – all’epoca entrambi ancora membri della Commissione militare centrale – sono stati sottoposti a indagine. Il secondo si è suicidato pochi mesi dopo, mentre il primo risulta tuttora sotto indagine. A sei anni dall’avvio della campagna anticorruzione, i numeri appaiono imponenti: come osservato dall’agenzia Xinhua in un commento pubblicato poche settimane dopo la conclusione del XIX Congresso nazionale del Pcc nell’autunno 2017, “dal XVIII Congresso nazionale in poi, oltre 100 quadri militari di grado pari o superiore all’Armata sono stati sottoposti a provvedimenti per gravi violazioni della disciplina e della legge, compresi due ex Vicepresidenti della Commissione militare centrale – un numero di gran lunga superiore a quello dei Generali che hanno sacrificato la loro vita nella sanguinosa lotta per la fondazione della nuova Cina”.[33]

Sul piano delle relazioni civili-militari, l’effetto della campagna anticorruzione è stato quello di alterare significativamente la dinamica dell’obbedienza condizionata. In passato il Pcc “acquistava” l’obbedienza dell’Epl riconoscendo a quest’ultimo come corrispettivo un considerevole grado di autonomia negli affari interni. La campagna anticorruzione ha ora drasticamente ridotto il “prezzo” che l’Epl è in grado di esigere in cambio della propria obbedienza. Colpendo alti ufficiali a riposo, si è infatti neutralizzata la potenziale opposizione di quanti erano stati promossi durante il loro mandato, vale a dire la quasi totalità della dirigenza attuale. Ne è derivata una considerevole riduzione del grado di autonomia di cui l’Epl gode, con la conseguenza che gli affari interni alle Forze armate sono oggi più esposti all’ingerenza della dirigenza civile di quanto lo siano mai stati nei due decenni precedenti. Questo cambiamento nel modo in cui si esprime l’obbedienza condizionata segnala una più profonda alterazione del rapporto di coalizione fra Pcc ed Epl. Essi continuano a interagire come alleati nella coalizione teorizzata da Perlmutter e LeoGrande, poiché continuano a fare affidamento l’uno sull’altro per la propria sopravvivenza. La dinamica interna a tale coalizione, tuttavia, appare profondamente mutata: da un lato, l’Epl ha perso parte consistente della propria autonomia ed è ora costretto nella posizione di “junior partner” all’interno di una coalizione alquanto sbilanciata; dall’altro, il Pcc ha consolidato il proprio controllo sull’Epl, ma molto del potere riconquistato è in realtà concentrato nelle mani del suo Segretario generale in qualità di Presidente della Commissione militare centrale. A questo proposito va infatti segnalato che la riforma riafferma il cosiddetto “sistema della responsabilità del Presidente” (jūnwěi zhǔxí fùzé zhì, 军委主席负责制), che accentra in capo a quest’ultimo l’autorità ultima sulle decisioni assunte dalla Commissione militare centrale. Il consolidamento della presa di Xi sull’Epl, verificatosi de facto sin dal XVIII Congresso nazionale, trova così una copertura de iure nel nuovo assetto istituzionale delineato dalla riforma.

Le relazioni civili-militari in Cina e la riforma dell’Epl

L’ipotesi proposta in questo contributo è dunque che il ritardo nel processo riformatore e infine il suo avvio siano spiegati rispettivamente dalla straordinaria autonomia di cui l’Epl ha goduto per vent’anni e dal suo drastico ridimensionamento nella fase successiva al XVIII Congresso nazionale. Sin dagli anni Ottanta la dottrina militare ha posto l’esigenza del superamento degli assetti organizzativi esistenti, nella direzione di una nuova struttura di comando interforze che consentisse all’Epl l’adeguata pianificazione e conduzione di operazioni “coordinate”, in un primo tempo, e poi pienamente congiunte. Le resistenze interne all’organizzazione militare hanno tuttavia impedito una riforma strutturale in tal senso. Essa sarebbe stata resa possibile da un intervento esterno da parte della dirigenza civile, che – sostenendo la componente dell’élite militare favorevole alla riforma – mutasse gli equilibri interni e consentisse di superare le inevitabili resistenze. Tuttavia, l’obbedienza condizionata che in quella fase contraddistingueva le relazioni fra civili e militari rendeva impraticabile un simile intervento: sullo sfondo della biforcazione della tradizionale élite duale, la subordinazione dell’Epl al Pcc poggiava infatti precisamente sul riconoscimento ai militari di ampi margini di autonomia. Né durante i due mandati di Jiang Zemin ai vertici del Partito-Stato, né durante quelli di Hu Jintao la dirigenza civile ha dunque avuto la forza necessaria a intervenire in sostegno dei militari riformatori. Esclusa la possibilità di una riforma della struttura di comando, un limitato adeguamento dell’organizzazione militare alla nuova dottrina è stato dunque demandato al processo di smobilitazione, che – lasciando intatta la struttura di comando – non è stato però in grado di scalfire realmente il predominio organizzativo delle Forze di terra. La situazione sarebbe tuttavia mutata in seguito al XVIII Congresso nazionale del Pcc. Da subito in posizione di forza per effetto dell’immediata uscita di scena del suo predecessore, Xi Jinping ha avviato una pervasiva campagna anticorruzione che ha notevolmente ridimensionato l’autonomia dell’élite militare. In particolare, l’attacco diretto alla precedente dirigenza dell’Epl, durante il cui mandato era avvenuta la promozione di larga parte della nuova, ha resto quest’ultima ricattabile. Neutralizzata la capacità di resistenza dell’élite militare, la dirigenza civile è quindi intervenuta con decisione a sostegno di quella componente interna alle Forze armate che da tempo attendeva la riforma.

A questo riguardo, va però evidenziato come l’intervento civile nelle dinamiche interne all’Epl e il sostegno alla riforma militare non siano stati motivati tanto – o quanto meno non siano stati motivati esclusivamente – dalla volontà della nuova dirigenza di disporre di Forze armate più efficienti. A innescare l’intervento dei civili non è stata cioè principalmente una preoccupazione di carattere tecnico-militare, vale a dire la crescente divaricazione fra dottrina e struttura delle Forze, con le potenziali implicazioni in termini di efficienza dello strumento militare. Al contrario, l’intervento ha risposto a obiettivi eminentemente politici: la riforma è stata cioè impiegata dai civili per istituzionalizzare quel nuovo equilibrio nelle relazioni Partito-Esercito che era stato imposto sotto i colpi della campagna anticorruzione. Così il consolidamento del primato della Commissione militare centrale sui due sistemi di comando operativo congiunto e di amministrazione e direzione ha risposto non solo all’obiettivo tecnico-militare di una più lineare struttura di comando, ma anche all’obiettivo politico di una più efficace supervisione del Partito su tale struttura. Ancora, l’estensione dei poteri del Presidente della Commissione militare centrale attraverso la riaffermazione del “principio della responsabilità del Presidente” ha risposto non solo all’obiettivo tecnico-militare di chiarire le responsabilità ai vertici della catena di comando, ma anche all’obiettivo politico di rafforzare il ruolo di Xi Jinping. Nell’intervenire a sostegno della riforma, la dirigenza civile ha insomma perseguito propri obiettivi politici generali, in un intreccio fra dimensione tecnico-militare e dimensione politica che merita ulteriori approfondimenti.

 

 

[1] Si vedano: Dennis J. Blasko, “Integrating the services and harnessing the military area commands”, Journal of Strategic Studies 39 (2016) 5-6: 685-708; James Mulvenon, “China’s ‘Goldwater-Nichols’? The long-awaited PLA reorganization has finally arrived”, China Leadership Monitor 49 (2016), disponibile all’Url https://www.hoover.org/research/chinas-goldwater-nichols-long-awaited-pla-reorganization-has-finally-arrived; Phillip C. Saunders e Joel Wuthnow, “China’s Goldwater-Nichols? Assessing PLA organizational reforms”, Strategic Forum 294 (2016), disponibile all’Url inss.ndu.edu/Portals/68/Documents/stratforum/SF-294.pdf.

[2] Sulla “difesa attiva” si veda Zhang Yining (a cura di), Zhōngguó xiàndài jūnshì sīxiǎng yánjiū [Il pensiero militare contemporaneo cinese] (Pechino: PLA NDU Press, 2006), 201-208.

[3] Xu Yan, Zhōngguó guófáng dǎolùn [Introduzione alla difesa nazionale cinese] (Pechino: PLA NDU Press, 2006), 221-222.

[4] Ivi, 225-230; Jūnshì kēxuéyuàn jūnshì lìshǐ yánjiūsuǒ [Istituto di ricerca sulla storia militare dell’Accademia delle scienze militari], Zhōngguó rénmín jiěfàngjūn de bāshí nián [Gli ottant’anni dell’Esercito popolare di liberazione] (Pechino: Military Science Press, 2007), 455-460.

[5] Jūnshì kēxuéyuàn [Accademia delle scienze militari], Zhànlüè xué [Scienza della strategia] (Pechino: Military Science Press, 1987), 93. Questa e le seguenti traduzioni dal cinese e dall’inglese sono a cura dell’autore.

[6] Joel Wuthnow, “«A brave new world for Chinese joint operations»”, Journal of Strategic Studies 40 (2017) 1-2: 169-195.

[7] Sulla strategia di deterrenza attuata da Pechino verso Taipei a metà degli anni Novanta e sulle sue implicazioni militari si rinvia a Simone Dossi, Rotte cinesi. Teatri marittimi e dottrina militare (Milano: Università Bocconi editore, 2014), 112-133.

[8] Dennis J. Blasko, Philip T. Klapakis e John F. Corbett Jr., “Training tomorrow’s PLA: a mixed bag of tricks”, The China Quarterly 146 (1996): 488-524.

[9] Joel Wuthnow, “«A brave new world for Chinese joint operations»”, Journal of Strategic Studies 40 (2017) 1-2: 169-195.

[10] Jūnshì kēxuéyuàn zhànlüè yánjiū bù [Dipartimento di ricerca sulla strategia dell’Accademia delle scienze militari], Zhànlüè xué [Scienza della strategia] (Pechino: Military Science Press, 2001), 327.

[11] Ibidem.

[12] David Shambaugh, Modernizing China’s military. Progress, problems, and prospects (Berkeley: University of California Press, 2002), 108-124.

[13] Xu Yan, Zhōngguó guófáng dǎolùn [Introduzione alla difesa nazionale cinese] (Pechino: PLA NDU Press, 2006), 430-432.

[14] Chen Dianhong e Ouyang Zhimin, “Liánzhàn lián xùn, shǒuyào de shì ‘sīxiǎng gǎigé’” [Operazioni congiunte ed esercitazioni congiunte: l’elemento principale è la ‘riforma del pensiero’], Jiefangjun bao [Quotidiano dell’Esercito di liberazione], 31 marzo 2016, 5.

[15] Xu Yan, Zhōngguó guófáng dǎolùn [Introduzione alla difesa nazionale cinese] (Pechino: PLA NDU Press, 2006), 227. Sul processo di smobilitazione si veda Yitzhak Shichor, “Demobilization: the Dialectics of PLA Troop Reduction”, The China Quarterly 146 (1996): 336-359.

[16] Elaborazione dell’autore su stime contenute in: International Institute for Strategic Studies, The military balance (London: Routledge, annate varie). I dati sull’Aeronautica vanno però considerati con cautela, poiché fino al 1989 la stima includeva anche il personale della Seconda artiglieria, poi parzialmente scorporato nelle annate successive.

[17] Information Office of the PRC State Council, China’s National Defense in 2004, disponibile all’Url http://english.gov.cn/official/2005-07/28/content_18078.htm; Xu Yan, Zhōngguó guófáng dǎolùn [Introduzione alla difesa nazionale cinese] (Pechino: PLA NDU Press, 2006), 256.

[18] Comitato centrale del Pcc, “Zhōnggòng zhōngyāng guānyú quánmiàn shēnhuà gǎigé ruògān zhòngdà wèntí de juédìng” [Risoluzione del Comitato centrale del Pcc riguardante alcune importanti questioni relative a un pieno approfondimento della riforma], Quotidiano del popolo, 16 novembre 2013, 1-3.

[19] Per una trattazione più dettagliata della riforma mi permetto di rinviare a Simone Dossi, “«Upholding the correct political direction». The PLA reform and civil-military relations in Xi Jinping’s China”, The International Spectator 53 (2018) 3: 118-131.

[20] Sul ruolo di simili resistenze all’interno dell’Epl si vedano per esempio David Shambaugh, Modernizing China’s military. Progress, problems, and prospects (Berkeley: University of California Press, 2002), 182-183; Dennis J. Blasko, The Chinese army today. Tradition and transformation for the 21st Century (London: Routledge, 2006), 190-191.

[21] Samuel P. Huntington, The soldier and the State. The theory and politics of civil-military relations (Cambridge: Harvard University Press, 1957), 83.

[22] Amos Perlmutter e William M. LeoGrande, “The Party in uniform: toward a theory of civil-military relations in communist political systems”, The American Political Science Review 76 (1982) 4: 778-789.

[23] Per una più dettagliata trattazione dell’evoluzione delle relazioni civili-militari nella storia della Rpc si rinvia a Simone Dossi, “Sotto la «direzione assoluta» del Partito. Civili e militari nella Cina contemporanea”, in Il potere dei generali. Civili e militari nell’Asia orientale contemporanea, a cura di Simone Dossi (Roma: Carocci, 2017), 29-51.

[24] David Shambaugh, Modernizing China’s military. Progress, problems, and prospects (Berkeley: University of California Press, 2002), 13.

[25] Per un’interpretazione alternativa che vede nella fine dell’élite duale la transizione verso il modello huntingtoniano del controllo oggettivo, si vedano Nan Li, “Introduction”, in Chinese civil-military relations. The transformation of the People’s Liberation Army, a cura di Nan Li (London: Routledge, 2006), 1-7; Nan Li, “Chinese civil-military relations in the post-Deng era. Implications for crisis management and naval modernization”, China Maritime Studies 4 (2010), disponibile all’Url https://www.usnwc.edu/Research—Gaming/China-Maritime-Studies-Institute/Publications/documents/China-Maritime-Study-No-4-January-2010.aspx.

[26] James Mulvenon, “China: conditional compliance”, in Coercion and governance. The declining political role of the military in Asia, a cura di Muthiah Alagappa (Stanford: Stanford University Press, 2001), 317-335.

[27] Amos Perlmutter e William M. LeoGrande, “The Party in uniform: toward a theory of civil-military relations in communist political systems”, The American Political Science Review 76 (1982) 4: 782

[28] Marina Miranda, “Il veloce consolidamento della posizione politica di Xi Jinping all’inizio del proprio mandato”, in Cina report 2016. Politica, società e cultura di una Cina in ascesa: l’amministrazione Xi Jinping al suo primo mandato, a cura di Marina Miranda (Roma: Carocci, 2016), 27-48.

[29] Ibidem.

[30] James Char, “Reclaiming the Party’s control of the gun: bringing civilian authority cack in China’s civil-military relations”, Journal of Strategic Studies 39 (2016): 5-6, 608-636.

[31] James Mulvenon, “Hotel Gutian: we haven’t had that spirit here since 1929”, China Leadership Monitor 46 (2015), disponibile all’Url http://www.hoover.org/research/hotel-gutian-we-havent-had-spirit-here-1929.

[32] Chien-wen Kou, “Xi Jinping in command: solving the principal-agent problem in CCP-PLA relations?” The China Quarterly 232 (2017), 866–885.

[33] Meng Na, Zhang Lixin, Li Zhihui e Wu Jingcai, “Xí Jìnpíng: xīn shídài de lǐnglù rén” [Xi Jinping: colui che indica la via nella nuova era], Xinhua, 17 novembre 2017, http://www.xinhuanet.com/2017-11/17/c_1121968350.htm.

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