Le relazioni Italia-Cina: verso il rilancio del partenariato

L’inedito dinamismo che ha caratterizzato le relazioni tra Italia e Repubblica popolare cinese nel 2014 segna un netto cambio di passo rispetto al recente passato, al punto da poter preludere – qualora fosse confermato nel 2015 – a un’effettiva inversione di tendenza rispetto alla tradizionale marginalità della Cina nel calcolo strategico italiano.

Due visite ufficiali a livello di capo di governo e otto miliardi di euro di investimenti perfezionati o programmati da parte cinese in Italia costituiscono i risultati più tangibili conseguiti nell’anno in cui ricorreva il decennale della firma del partenariato strategico tra i due paesi (2004), uno dei dieci siglati da Pechino in Europa. Si tratta della chiusura di dossier ambiziosi, la cui genesi è antecedente agli esecutivi attualmente in carica, e sui quali si è a lungo negoziato. Proprio la portata degli accordi in discussione ha richiesto la maturazione di condizioni politiche che innescassero la convergenza di interessi tra Cina e Italia – entrambe impegnate in riforme che ne accrescano la competitività sostenibile a livello globale –, consentendo di “aprire un nuovo capitolo di amicizia e cooperazione”.

Pechino riserva da tempo particolare attenzione alle dinamiche economiche e socio-politiche che interessano la Penisola, e non soltanto perché qui risiede la più ampia comunità di origine cinese d’Europa che conserva la cittadinanza della Rpc. L’Italia rimane al contempo uno snodo logistico di eccezionale potenziale nella regione euro-mediterranea, soprattutto se, come pare, il nuovo governo greco dovesse mostrarsi più esigente nei confronti degli investitori cinesi, molto esposti verso le strutture portuali elleniche. Ma è anche un attore fondamentale per la tenuta dell’area euro, dalla cui stabilità dipende la capacità dell’Unione europea di confermarsi primo mercato al mondo per il made in China, ed è un’economia ricca di asset strategici – imprese sotto-capitalizzate ma sane e spesso con posizioni chiave in filiere redditizie, marchi, know-how – tuttora appetibili per sinergie o acquisizioni.

A frenare l’approfondimento della relazione bilaterale è stata soprattutto l’Italia, sia per lo stato di incertezza contingente determinato dalla crisi economica e dalla volatilità del ciclo politico, sia per un’ambivalenza strutturale circa gli allineamenti strategici del paese. Il 2014 ha visto l’iniziale superamento di questa fase. I primi effetti delle riforme varate dai governi Monti e Letta (2011- 2014), uniti a un’interazione più strutturata con interlocutori cinesi sensibili, e – aspetto decisivo – alla definizione di un chiaro indirizzo politico da parte del nuovo presidente del Consiglio, favorevole a un “reale rilancio” del partenariato con la Cina, ha portato alla firma del “Piano d’azione per il rafforzamento della cooperazione economica tra Italia e Cina per il periodo 2014-2016” durante la visita di Matteo Renzi in Cina (10-12 giugno 2014), e a una successiva Dichiarazione congiunta in occasione della visita del premier cinese Li Keqiang a Roma il 14 ottobre.

Il primo di questi passaggi istituzionali ha consentito di focalizzare il potenziale inespresso nell’interazione economico-commerciale tra i due paesi, impegnati a promuovere “una solida crescita dell’interscambio di beni e servizi, anche allo scopo di favorire un accelerato, seppur graduale, riequilibrio”. Nonostante nell’ultimo decennio le esportazioni italiane verso la Cina siano cresciute a una media annua di oltre l’8,5%, infatti, il disavanzo commerciale italiano ha superato i 13 miliardi di euro nel 2013 e le stime per il 2014 confermano una tendenza negativa. Si inseriscono in questo quadro sia la costituzione del Business forum Italia-Cina – nuovo strumento di dialogo tra i rappresentanti dei settori industriali e finanziari dei due paesi –, sia i molteplici investimenti cinesi in Italia conclusi nel 2014, primo tangibile segno di bilanciamento in attesa che un mercato più maturo e aperto in Cina assorba quote ben più robuste di made in Italy. I fondi sovrani della Rpc, riconducibili alla Banca popolare cinese (PBoC), sono entrati nell’azionariato di otto delle principali imprese italiane per oltre 3 miliardi di euro (valorizzazione a gennaio 2015, Tabella 1). L’ingresso dei capitali cinesi non mitiga soltanto lo squilibrio commerciale: attestandosi in tutti i casi appena al di sopra del 2% della compagine azionaria – soglia che determina una partecipazione rilevante, con conseguente obbligo di comunicazione pubblica da parte delle autorità di vigilanza – Pechino trasmette un forte segnale di fiducia nel futuro dell’economia italiana, con ricadute d’immagine a livello globale.

La logica strategica dell’approccio italiano agli investimenti cinesi è stata ribadita con la cessione del 40% di Ansaldo Energia e del 35% di Cdp reti (a sua volta primo azionista di Terna e Snam) alle imprese pubbliche cinesi Shanghai Electric e State Grid Corporation of China, per un controvalore complessivo di oltre 2,5 miliardi di euro: Roma si orienta verso la Cina puntando a investitori che siano anche credibili partner industriali. A questo criterio si ispirano i successivi accordi preliminari siglati da Cassa depositi e prestiti e China Development Bank (3 miliardi di euro per investimenti congiunti in Italia e Cina) e dal Fondo strategico italiano e China Investment Corporation (500 milioni di euro per ciascuno dei due istituti da destinarsi a operazioni di investimento comune) in occasione della visita di Li Keqiang in Italia nell’ottobre 2014.

La presenza in Italia del premier cinese, funzionale alla sua partecipazione al X vertice Asem (Asia-Europe Meeting) di Milano, ha consentito ai due capi di governo di rivendicare crescenti sinergie sull’agenda globale, con l’impegno di dare continuità agli scambi di visite istituzionali di alto livello, a partire dalla convocazione della VI sessione plenaria del Comitato governativo Italia-Cina nella primavera 2015, presieduta dai due ministri degli Esteri. Si tratterà di un’occasione importante per confrontarsi tanto su questioni d’interesse bilaterale – incluse l’opportunità di rilanciare iniziative di cooperazione tra gli enti territoriali dei due paesi sulla scorta del successo del programma Mae-Regioni-Cina, e la partecipazione di altissimo profilo della Cina all’Esposizione universale di Milano –, quanto su temi regionali, tra cui il dibattito avviato durante il semestre di Presidenza italiana dell’Ue sul superamento delle politiche di austerità nell’Unione europea, e, soprattutto, la situazione esplosiva in Medio Oriente e Africa mediterranea.

Se il Mediterraneo è determinante per l’economia italiana, non va trascurato che anche la Cina vi va assumendo un profilo assai più alto che in passato: oltre il 43% delle importazioni cinesi di risorse energetiche proviene dalla regione del Mediterraneo allargato e le esportazioni della Rpc qui dirette sono cresciute del 50% in un decennio, pesando oggi per il 9,6% sul totale dell’export cinese. Inoltre, pur se agli antipodi del continente eurasiatico, Cina e Italia condividono una comune percezione circa la minaccia posta dal fondamentalismo islamico: Pechino teme l’impatto sull’instabile provincia dello Xinjiang, mentre Roma si confronta con la porosità dei confini meridionali dell’Unione. Una più chiara articolazione dei comuni interessi di sicurezza e di un condiviso impegno per la stabilizzazione dei paesi “Wana” (West Asia and Northern Africa) gioverebbe anche a una migliore percezione della Cina presso l’opinione pubblica italiana, nel 2014 confermatasi la più negativa tra i paesi europei, secondo l’autorevole Pew Global Attitudes Project.

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