Le parole contano: l’inesauribile potere della poesia in un Paese di contraddizioni

La poesia ha ancora valore in un mondo caratterizzato da comunicazione veloce e da fenomeni di viralità incontrollata? In un Paese come l’Indonesia, dove i fenomeni culturali raramente oltrepassano il contesto nazionale e dove la globalizzazione sta soppiantando le culture locali, una serie di eventi nazionali ha dato un segnale positivo al potere della poesia e soprattutto ai suoi rappresentanti. Queste considerazioni derivano dal successo strepitoso che una frase indonesiana di significato alquanto banale, Om telolet om, ha ottenuto varcando i limiti nazionali per diventare un tormentone di dimensioni globali. La frase Om telolet om, ‘Suona il clacson, signore’ ha sbancato sul web nell’ultima settimana di dicembre 2016 e si riferisce a una pratica iniziata dai bambini dei villaggi al passaggio di camion lungo le strade regionali perché suonino il clacson, telolet appunto, un onomatopeico che riproduce il suono prodotto dalla tromba del camion.

Le immagini di bambini sul ciglio delle strade con cartelli portanti la scritta Om telolet om, che hanno fatto il giro del mondo sui social media, servono quasi a mostrare un’interazione tra la staticità della vita di villaggio e quella mobile degli autisti di camion sempre in viaggio e, diventando virali, ad aprire una finestra a questa pratica tutta indonesiana, al mondo. Om telolet om sembra sia stata twittata da milioni di utenti dopo essere stata avviata dai più importanti DJ del mondo (come mostra questo video) e aver fatto conoscere una parte dell’Indonesia come nemmeno politiche culturali e nazionali erano riuscite mai a fare! Nonostante il fenomeno sia scemato a livello globale, Om telolet om continua a essere usato a livello nazionale come intercalare quasi simbolico di una realtà che rende tutti – inclusi i membri dell’élite – consapevoli del potere dei media. Lo stesso presidente Jokowi, in più di un’occasione ufficiale lo ha usato per destare il sorriso nei presenti e allo stesso tempo per rendersi compartecipe di un fenomeno popolare ma che grazie alla sua semplicità ha superato le barriere nazionali. Questa frase è stata utilizzata in contesti locali seri come in incontri del parlamento, o alle celebrazioni del settimo anniversario della morte di Gus Dur, uno dei presidenti dell’Indonesia, simbolo di multiculturalismo e dialogo interreligioso, noto per il suo comportamento spesso irriverente delle formalità e spesso propenso a criticare politici e corrotti con fare canzonatorio.

Il successo mediatico di questa frase banale sembra avere, per un momento, deviato l’attenzione dal clima infuocato della politica indonesiana attuale, ma allo stesso tempo essere diventato emblematico – per la sua forza di connessione tra il centro e le periferie – di un Paese caratterizzato da molteplici contraddizioni. Quell’Indonesia che da sempre vuole dare di sé un’immagine di Paese laico e multiculturale si trova a fare oggi i conti con le regole imposte da frange di islamisti radicali. Il concetto di Bhinneka Tunggal Ika (Unità nella diversità), così sponsorizzato dal governo tanto da diventare motto nazionale, è minato da interessi partigiani di una frangia di musulmani che vuole imporre la sharia islamica in un contesto dove il pluralismo religioso è il fondamento della convivenza civile. È in questo contesto appunto che bisogna leggere l’interesse mostrato dalle nuove generazioni nei confronti di personaggi del mondo della poesia e del loro ruolo nell’affermazione di ideali di democrazia, laicità e indipendenza dimostrando di essere capaci di appassionarsi non solo ai tormentoni social del momento, come om telolet om, ma anche ai valori contenuti nelle opere dei due poeti indonesiani che hanno scardinato il generale disinteresse nei confronti della poesia e della letteratura gettando un barlume di speranza in momenti di crisi, quando la paura del fondamentalismo serpeggia nella società: Chairil Anwar e Wiji Tukul.

Chairil Anwar, il poeta maledetto autore della famosa poesia Aku ‘Io’, simbolo dell’individualismo e della rottura degli schemi letterari tradizionali, modello della poesia indonesiana moderna in cui l’individualismo e il realismo cedono il passo a valori più astratti di idealismo e romanticismo, è diventato modello per tanti intellettuali che vedono la letteratura come forma di espressione di libertà e sentimenti individuali. Il poeta che ha inaugurato con la sua versificazione uno stile linguistico che è arrivato fino ai nostri giorni, morto a soli 26 anni nel 1949, ha ispirato una serie di eventi culturali di successo nel 2016 e continua a essere un’icona di riferimento per le nuove generazioni. A Chairil Anwar, rappresentante della ‘Generazione del ’45’, della generazione cioè contrassegnata dal periodo della dominazione giapponese, paladino degli ideali di lotta contro ogni forma di costrizione linguistica, poetica, politica, religiosa, è stato infatti dedicato il numero speciale del settimanale più importante di Indonesia, TEMPO, per le celebrazioni dell’anniversario dell’indipendenza dell’Indonesia lo scorso agosto 2016. In quell’occasione si è verificato un fenomeno eccezionale: una decina di ministri del governo Jokowi, stelle del cinema e della televisione, amministratori locali, attivisti, avvocati di grido, e persino il capo della polizia – invitati a partecipare all’evento in nome di Chairil Anwar – , hanno fatto a gara a salire sul palco per dimostrare le proprie capacità oratorie per celebrare l’anniversario dell’indipendenza del Paese recitando poesie di Chairil Anwar. L’evento ha avuto un successo strepitoso di pubblico, stampa e critica. Improvvisamente il poeta morto in solitudine e povertà ha visto riconosciuti i suoi valori poetici, linguistici e patriottici, e visto avverarsi l’ultimo verso di una sua poesia (“voglio vivere altri mille anni”), e la sua immagine affascinante di bel tenebroso, di un uomo disinteressato alle frivolezze e al successo ma ispirato solo dai suoi ideali rivoluzionari, di individualità e umanità, con la sua sigaretta poggiata sul lato della bocca è diventata un’icona nazionale.

D’altra parte Chairil Anwar e la sua poesia avevano ispirato uno dei personaggi del fortunatissimo film Ada apa dengan Cinta? (“Che è successo a Cinta e all’amore?”), uscito nel 2002. Quest’anno il sequel dello stesso film dove il protagonista è ancora, dopo 14 anni, amante della poesia di Chairil Anwar, ha sbancato i botteghini su tutto il territorio nazionale diventando uno dei film più visti del cinema indonesiano con 3,6 milioni di spettatori. La lettura delle poesie di Chairil Anwar da parte dell’attore protagonista molto amato dal pubblico, Nicolas Saputra, ha animato le conferenze stampa e le anteprime del film e ha innescato un processo a catena, in cui le raccolte di poesie del poeta hanno animato blog e profili Facebook e dato una spinta a ristampe di libri di poesia. Chairil Anwar è diventato una icona di successo, simbolo di autodeterminazione e indipendenza da cui i giovani vogliono trarre ispirazione. È ancora al poeta Chairil Anwar, simbolo della modernità della lingua e della poesia indonesiana che artisti poliedrici si sono ispirati per eventi artistici che hanno combinato graphic design, pittura, musica e video. Un documentario è in fase di preparazione da parte di registi e produttori di fama e una produzione teatrale è in programma per la fine di quest’anno.

L’altro poeta, Wiji Tukul, anch’egli scomparso in povertà e solitudine, è il protagonista del film Istirahatlah kata-kata (“Riposatevi parole, è il momento del silenzio”), attualmente in proiezione nelle sale indonesiane dove sta riscuotendo un inaspettato successo di pubblico. Wiji Tukul era un poeta noto per le sue poesie di protesta e per il suo ruolo di attivista all’interno del partito di ispirazione marxista-leninista Partito democratico del popolo (in indonesiano Partai Rakyat Demotkrat, PRD), sostenuto da un piccolo nucleo di giovani, studenti, sindacalisti, operai, contadini. Fondato nel 1996, fu subito visto come una minaccia dal governo del presidente Suharto e per questo i suoi rappresentanti e simpatizzanti furono arrestati o catturati dalle forze speciali: spesso torturati, tredici di loro non fecero mai ritorno a casa. Tra questi tredici dispersi c’era anche Wiji Tukul, noto per le sue capacità oratorie, e per il suo potere di infiammare le masse con le sue poesie di protesta e ribellione. Ebbene, questo film racconta in maniera intimista gli ultimi mesi di solitudine del poeta Wiji Tukul, silenzioso, umile, in fuga da una città all’altra in quanto braccato dall’esercito, fino alla sua scomparsa. La sua poesia, le parole, la malinconia, la solitudine dell’uomo, del poeta, dell’attivista, del difensore dei valori di eguaglianza e democrazia sono i protagonisti di questo film che nelle sale indonesiane compete con i film di Hollywood interpretati da Matt Damon e Brad Pitt. Il film, originariamente proiettato in una quindicina di sale in dieci città sul territorio nazionale, è stato distribuito, dato il successo di pubblico, a trentotto sale – un numero eccezionale per un film indipendente, inizialmente nemmeno preso in considerazione dai cinema interessati solamente ai blockbusters americani.

Il fenomeno del successo di questo film rappresenta un barlume di speranza in un Paese pieno di contraddizioni, contrassegnato negli ultimi mesi da fenomeni di intolleranza religiosa innescati da motivazioni politiche. La campagna politica in atto per l’elezione del governatore di Giacarta ha esasperato i rapporti da sempre pacifici tra le diverse religioni. Per un momento l’attenzione del pubblico non è più concentrata sulle battaglie tra le fazioni a colpi di accuse di blasfemia contro Ahok, il Governatore in carica di origini cinesi e di religione cristiana, in campagna elettorale per un secondo mandato.I maggiori oppositori di Ahok, appunto, sono le forze islamiche conservatrici che si sono polarizzate intorno all’organizzazione islamica radicale “Fronte dei difensori dell’Islam” (FPI) capeggiata da Habib Rizieq, e al Consiglio degli Ulema indonesiani (MUI). Forti del fatto di rappresentare la maggioranza religiosa del Paese, i membri dell’FPI intendono imporre la sharia islamica e regole inaccettabili per un paese da sempre laico e multiculturale. Casi eclatanti sono stati recentemente il divieto dell’uso di cappelli di babbo natale da parte di musulmani, della parola Allah per riferirsi al Dio di tradizioni religiose non musulmane, o addirittura di utilizzare immagini di studentesse col velo per sponsorizzare università cattoliche. Gli stessi islamisti radicali hanno accusato la Banca d’Indonesia di non conciliare gli interessi della maggioranza musulmana mettendo sulle nuove banconote i volti di troppi eroi non musulmani e quindi “infedeli”, e di donne che non portano il velo, hanno vietato rappresentazioni del tradizionale teatro delle ombre wayang perché non conformi alla sharia islamica e imposto di non mostrare immagini di suini anche in programmi di cucina. In risposta, organizzazioni cattoliche e cristiane hanno accusato Habib Rizieq e altri suoi seguaci per aver offeso la cristianità con frasi irriverenti.

Insomma, in questo clima infuocato dove dilagano le bufale mediatiche usate a fini politici, dove il web ha più potere dei messaggi istituzionali, dove frasi come Om telolet om hanno fatto conoscere l’Indonesia nel mondo più di quanto non abbiano fatto anni di relazioni internazionali, il fatto che il pubblico abbia mostrato una così grande attenzione per la poesia è davvero eccezionale. Forse è proprio per questo interesse per i valori di laicità, di libertà, di democrazia che il film indipendente su Wiji Tukul tradotto in inglese come “Solo, solitude”, diretto da un regista non famosissimo come Yosep Anggi Noen, ha riscosso successo di critica e di pubblico sul territorio nazionale e in festival internazionali come quello di Locarno, di Vladivostok, di Amburgo, di Busan e di Rotterdam. Questa pellicola ha trasmesso l’idea che in un Paese così grande e multiculturale c’è ancora spazio per la poesia, le parole, le emozioni, la voce silenziosa dei dimenticati. Wiji Tukul è solo uno dei dimenticati della storia, solo uno di coloro che negli anni della lotta contro la dittatura di Suharto aveva osato ribellarsi con le parole e con i fatti e, accusato di aver fomentato i moti di ribellione contro il governo, fu costretto a fuggire dalla sua casa, dalla sua città, a nascondersi di villaggio in villaggio, a fare tanti lavori umili, a stare lontano dai suoi affetti fino a scomparire senza lasciar traccia. Il film, attraverso le immagini silenziose di un Wiji Tukul impaurito, malinconico e solo, cerca di ricordare a tutti che occorre lottare e continuare a urlare contro i casi d’impunità, a richiedere giustizia per coloro che sono stati privati dei loro cari, che hanno subito violenze e perdite. Questo film ha il potente obiettivo di ricordare a tutti che sono passati diciannove anni dalla scomparsa di Wiji Tukul e degli altri dodici attivisti e che il mistero sulla loro sorte deve ancora essere risolto. Attraverso la solitudine e la malinconia di Wiji Tukul, le parole delle sue poesie restano impresse in coloro che credono nel potere del cinema e della letteratura di poter cambiare le cose. Ricordando alcuni dei versi scritti da Wiji Tukul nel 1986 capiamo tutto il potere della sua poesia:

“Quando le proteste vengono sedate, quando le parole vengono zittite, quando il popolo viene ignorato allora c’è solo una parola: Ribellarsi!”.

Le parole vanno oltre la vita, come scrive ancora nel 1997 pochi mesi prima della sua scomparsa:

“Io sono ancora integro e le parole non sono state ancora sconfitte. Le mie parole non muoiono, anche se mi cacciano gli occhi dalle orbite, nonostante mi separino da casa, mi pugnalino con la solitudine assoluta. Le parole mi ricordano che sono ancora vivo”.

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