Le contraddizioni del sistema finanziario cinese

Previsioni teoriche o astratte sul sistema finanziario cinese (così come su quello politico, economico e sociale) si rivelano spesso inesatte data la sua complessità, unicità e mutevolezza. Se si guarda allo stato attuale dei diversi segmenti che compongono il sistema finanziario cinese, i dati sembrano effettivamente giustificare le preoccupazioni espresse da molti osservatori.

Il debito delle aziende cinesi, principalmente pubbliche, ha subito negli scorsi cinque anni un’impennata, passando dal 100% al 170% del prodotto interno lordo (Pil): una crescita che non sembra volersi arrestare. Il problema dei non-performing loans (con il quale la Cina ha a che fare ciclicamente, sopratutto a causa della perversa relazione tra governo e banche) si è riproposto ancora una volta: secondo le stime ufficiali, questi crediti inesigibili hanno raggiunto un picco decennale, rappresentando l’1,7% del totale (le stime non ufficiali pongono tale cifra tra il 3% e il 6%). Il mercato obbligazionario è in una situazione altrettanto delicata, con una lunga serie di mancati pagamenti e fallimenti (fino a qualche anno fa, un’eventualità inimmaginabile), alcuni dei quali a carico di imprese di Stato o parastatali. L’indebitamento dei governi locali, altro tallone d’Achille del settore finanziario cinese, ha mostrato di recente qualche segno di lieve miglioramento, ma continua a rappresentare un problema che pesa per 2,5-3 mila miliardi di dollari. Il governo centrale è intervenuto con forza per arrestare una crescita incontrollata di tale debito, ma i governi locali, incapaci di alimentare la crescita economica attraverso altre misure, escogitano sempre nuove nuove scappatoie per continuare a indebitarsi.

I mercati azionari restano un punto dolente: il 2015 è stato un annus horribilis, con una crescita impressionante nei primi due trimestri (+120% per Shanghai e +60% per Shenzhen) seguita nel mese di giugno da un crollo che, nonostante i goffi tentativi del governo di porvi rimedio, ha riportato gli indici pressoché ai livelli iniziali. La situazione da allora non è migliorata. Il divieto di nuove quotazioni introdotto come misura anti-crollo è stato revocato nel mese di dicembre 2015, ma i mercati azionari cinesi sono rimasti deboli, con la sola eccezione (fatto di per sé molto significativo) del listino delle piccole e medie imprese della borsa di Shenzhen.

Spostandosi poi dagli astratti dati macro-economici alla realtà quotidiana delle imprese operanti in Cina, le contraddizioni, i conflitti ed i paradossi del sistema finanziario appaiono in modo ancora più evidente. Chiunque abbia avuto la possibilità di osservare direttamente come le imprese cinesi (e, anche se su scala minore, le impresi straniere operanti in Cina) operano e si finanziano, può raccontare delle innumerevoli e creative strategie sviluppate per aggirare le anacronistiche normative tuttora in vigore. Si ha tuttavia l’impressione che tale “creatività” abbia raggiunto negli scorsi mesi un livello decisamente più alto. Chi scrive ha potuto osservare personalmente un numero crescente di imprese cinesi che decidono di spostare all’estero fondi, attività o la propria holding per beneficiare di opportunità di investimento e finanziamento; piccoli produttori di carbone o imprese di costruzioni di remote province dell’entroterra che rinegoziano i propri prestiti con le filiali estere di banche cinesi (in Europa o Giappone, ad esempio) per beneficiare di tassi di interesse e condizioni migliori; un riemergere e proliferare di strutture illegali o semi-legali di prestito (comunemente indicate come shadow banks); amministrazioni locali che autorizzano – e in alcuni casi invitano apertamente – gli investitori a non rispettare le normative sugli investimenti e i finanziamenti al fine di attrarre nuovi capitali. E non sono che alcuni esempi.

Complessivamente, l’impressione è che il divario tra l’infrastruttura legale, politica e finanziaria cinese, da un lato, e i bisogni che essa dovrebbe soddisfare, dall’altro, stia continuando ad aumentare, aggiungendo ulteriore pressione ad una situazione già critica. Quali sono i probabili sviluppi di questa situazione? Le opinioni, come sempre, divergono molto, anche se sembrano polarizzarsi attorno a due principali e opposti scenari. Quello negativo contempla un hard landing dell’economia cinese caratterizzato da un’improvvisa e profonda crisi finanziaria ed economica. Dall’altro lato c’è chi vede il modello cinese come unico ed incomparabile ad altri sistemi economici e finanziari, capace di assorbire la pressione e minimizzare le contraddizioni tra modello economico occidentale/capitalista e infrastruttura politico-amministrativa socialista, continuando ad assicurare benessere e sviluppo.

L’impressione di chi si trova ad operare “sul campo” ogni giorno, tuttavia, è che tale sintesi sia stata possibile fino ad un certo stadio del processo di sviluppo, ma si sia arrivati ad un punto nel quale le contraddizioni sono sempre più difficilmente sintetizzabili. Emblematica è la decisione presa il 14 giugno scorso da Msci Inc. (uno dei più importanti provider degli indici azionari, utilizzati da fondi comuni, hedge fund e investitori privati) di negare ai titoli azionari cinesi l’accesso ai propri indici per la terza volta consecutiva. Tale decisione comporta di fatto per la Cina la perdita della possibilità di accedere ai fondi che vengono normalmente allocati sulla base degli indici di Msci, un mercato di 1,5 mila miliardi di dollari. Tra i principali fattori che hanno contribuito a tale decisione vi sono le distorsioni ancora esistenti nel sistema finanziario cinese e le fortissime misure, quasi tutte con pesanti effetti distorsivi, prese dalle autorità cinesi successivamente al crollo delle borse nel giugno 2015: l’uso massiccio di fondi pubblici per sostenere i listini, il divieto di vendite allo scoperto e di vendita di qualsiasi titolo da parte di società di stato e forti intimidazioni e azioni penali nei confronti di dirigenti di banche e istituzioni finanziarie. La decisione presa da Msci, passata in gran parte inosservata in Occidente, rappresenta un durissimo colpo inflitto ai tentativi della leadership cinese di rendere il renminbi una valuta internazionale e porre la Cina al centro del sistema finanziario globale.

La realtà è che tale ambizioso obiettivo può essere raggiunto solo con misure radicali e permanenti, in primis un significativo allentamento dei controlli e dell’interventismo pubblico sui mercati. Molti operatori del settore ritengono, però, che le autorità cinesi procedano alle riforme annunciate con la tecnica dei tre passi in avanti e due indietro: un ritmo lento, inadeguato alle necessità delle imprese e degli investitori cinesi. Cambiamenti radicali sono più che mai necessari, come efficacemente sintetizzato dall’amministratore delegato di un fondo di private equity cinese ad una recente conferenza a Pechino: “Tutti noi siamo perfettamente coscienti che la situazione deve cambiare e tutti i segmenti del sistema finanziario cinese devono modernizzarsi ed aprirsi radicalmente ed una volta per tutte: lo so io, lo sapete tutti voi e lo sa il governo. Deve succedere e succederà: le sole incognite sono sul come, quando e iniziando da quali segmenti”.

Un’opinione diffusa, in Cina e in Occidente, è che nei prossimi mesi si assisterà ad un aumento delle turbolenze dei mercati finanziari su base globale. La Cina, anche se in parte protetta, non sarà immune da tali turbolenze e questo potrebbe turbare il processo di modernizzazione del sistema finanziario. Le autorità cinesi potrebbero però utilizzare il momento di instabilità per accelerare il ritmo delle riforme. Le autorità non ignorano quest’opzione ed è probabile che decidano di adottare anche per il settore finanziario l’approccio sperimentale che ha caratterizzato gli scorsi 35 anni di riforme. Tale approccio trial-and-error potrebbe consentire alle autorità di Pechino di trovare una soluzione che permetta di contemperare gli interessi dei probabili perdenti (es. le autorità stesse, banche, imprese di Stato) e quelli dei vincenti (es. settore privato, banche e fondi internazionali) del nuovo ordine.

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