L’ASEAN vista da Bruxelles

Intervista a Ranieri Sabatucci, capo della Divisione Sud-Est asiatico del Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS). L’intervista è stata rilasciata a titolo personale e non riflette necessariamente le posizioni del Servizio europeo per l’azione esterna (EEAS).

Quali sono stati i passaggi più complessi delle relazioni UE-ASEAN da quando è a capo della Divisione Sud-est asiatico del Servizio europeo per l’azione esterna?

 Le difficoltà più grandi sono di percezione. Io ho preso servizio tre anni e mezzo fa e la crisi economica europea ha avuto principalmente due risultati negativi sui rapporti con l’ASEAN: innanzitutto essa ha indebolito la nostra immagine esterna, riducendo la capacità d’influenza dell’UE. In secondo luogo c’era quasi un ‘sottile piacere’ di fronte alle difficoltà in Europa da parte di chi ritiene che l’UE voglia trasferire i propri principi e valori ai propri partner, anche se questi ultimi non li condividono. Un altro problema di percezione deriva dal fatto che l’UE è spesso vista erroneamente come un’entità molto più interessata alle questioni economiche che a quelle politiche.intervista_01 RISE 2 2016

L’altra questione, di forma ma anche sostanziale, è che esiste tutta una ritualità nel mondo asiatico che, se non adeguatamente presa in considerazione, può creare problemi nelle relazioni. Quando il precedente Alto Rappresentante non è potuto andare alle prime riunioni, questo è stato visto come grave mancanza d’interesse per la regione, cosa non vera. Allo stesso tempo ciò ha creato frustrazione qui a Bruxelles, tenendo conto di quanto impegno l’UE mette nei suoi rapporti con il Sud-est asiatico.

Per lungo tempo l’UE è sembrata scommettere sul regionalismo asiatico, e in particolare sull’ASEAN e sull’East Asia Summit mentre negli ultimi anni, soprattutto con la negoziazione e la conclusione di accordi di libero scambio bilaterali (penso a Singapore e al Vietnam), sembra che l’Europa confidi più nel consolidamento dei rapporti bilaterali con i singoli Stati. L’UE ha perso fiducia nella replicabilità – almeno parziale – nel Sud-est asiatico del suo modello di integrazione?

Iniziamo subito a dire quello che abbiamo ripetuto molto spesso, e cioè che a noi non interessa replicare un modello; l’UE intende sostenere l’integrazione regionale, anche se purtroppo questo è percepito regolarmente come una questione di modello. Il sostegno al regionalismo ASEAN negli ultimi tre anni è diventato addirittura la priorità del nostro lavoro. Lo strumento principale di espressione delle nostre policies sono le Comunicazioni e le Conclusioni del Consiglio Affari Esteri. Tra le prime Comunicazioni in assoluto (e prima in Asia) proposte dall’Alto Rappresentante Federica Mogherini troverete quella sull’ASEAN, adottata dalla Commissione il 18 maggio 2015, cui hanno fatto seguito le Conclusioni sulle relazioni UE-ASEAN del Consiglio Affari Esteri del 22 giugno.

Per quel che riguarda l’accordo di libero scambio regionale UE-ASEAN, malgrado le difficoltà nel progredire, esso rimane un obiettivo importante. L’Unione Europea ritiene tuttavia più efficace procedere in due fasi: innanzitutto con una serie di accordi bilaterali, il cui scopo è anche di creare una base sostanziale e ambiziosa per qualunque accordo di natura regionale. Questa fase è da condurre in parallelo con la creazione e il consolidamento della Comunità Economica dell’ASEAN (AEC). La fase successiva si concentrerà invece sull’accordo vero e proprio tra le due regioni.intervista_02 RISE 2 2016

L’aspetto dell’East Asia Summit (EAS) rappresenta invece una sfida più importante: in questo momento noi non siamo membri del vertice. Tuttavia, vista la natura strategica di quello che stiamo cercando di fare con l’ASEAN e la regione in generale, riteniamo di avere le carte in regola per poter aderire all’EAS. Alcuni partner hanno messo in questione la rilevanza dell’UE in tema di sicurezza, argomentazione alla quale noi invece ci opponiamo perché la visione dominante in ambito ASEAN della sicurezza è riduttiva ed eccessivamente basata sulla hard security di breve periodo. Le iniziative di “soft power e sicurezza non-tradizionale” in cui l’UE ha una competenza riconosciuta a livello globale sono ancora insufficientemente prese in considerazione tra i membri EAS anche se, nel lungo periodo, sono gli aspetti maggiormente in grado di contribuire alla pace e alla stabilità nella regione. Il nostro contributo principale alla sicurezza nella regione stessa è il nostro chiaro e determinato sostegno al progetto di integrazione dell’ASEAN.

L’Europa è il primo investitore e il secondo partner commerciale dell’ASEAN. Quali sono a suo giudizio i maggiori ostacoli che le aziende europee incontrano quando investono nell’area? A tal riguardo quale crede possa essere l’impatto dell’ASEAN Economic Community?

Dal punto di vista tecnico, in effetti, il progresso sull’ASEAN Economic Community (AEC) non è particolarmente accelerato e molti problemi permangono, ma sono ostacoli comuni ai processi di integrazione che richiedono condivisione e quindi più tempo. L’AEC è stata costituita e progredirà. Il punto è sapere se è arrivata a un livello di non ritorno o meno: secondo noi è così e, pur con diversi punti interrogativi, il processo di integrazione ASEAN costituisce a nostro avviso un fenomeno positivo. Questo non è un giudizio solo nostro: la realtà mostra che anche le grandi aziende, i gruppi multinazionali, hanno iniziato da un paio d’anni a scommettere in maniera molto sostanziale sulla comunità economica ASEAN. Ne abbiamo parlato recentemente con rappresentanti di imprese europee che hanno già investito sulle varie supply chains, puntando sulle opportunità offerte dall’AEC.

Noi pensiamo che questa realtà darà una spinta positiva al processo di integrazione, un po’ come è successo in Europa dove, quando le cose andavano a rilento, sono stati anche i gruppi imprenditoriali a fare pressione sull’establishment politico per accelerare, dato che il rallentamento causava tutta una serie di difficoltà, di ritardi, di mancate opportunità. Una dinamica simile potrebbe verificarsi anche a livello di ASEAN. Le nostre imprese chiaramente si lamentano ancora e hanno ragione, in quanto esistono numerose barriere di natura burocratica diverse da paese a paese. Questo è un problema che c’era prima dell’AEC e continuerà a esistere.

Si afferma spesso che l’UE non abbia interessi strategici nel Sud-est asiatico, ma solamente evidenti interessi economici. Tuttavia, la difesa della libertà di navigazione negli stretti e le nuove minacce alla sicurezza marittima – penso alla pirateria – dovrebbero spronare l’UE a un maggiore coinvolgimento nell’area anche in questi settori. Ci sono iniziative che l’UE intende intraprendere in tal senso? Come si collocherebbero, rispetto alla crescente tensione nell’area tra Cina e Stati Uniti?

L’infondatezza dell’idea secondo cui l’UE dialoga con l’ASEAN solamente per interessi economici e commerciali è già stata chiarita, spero, nelle risposte precedenti. Come dicevo, l’UE intende essere protagonista attraverso il sostegno al processo di integrazione economica, coscienti, perché è quello che è successo in Europa, che tale integrazione genera un risultato positivo più ampio, in termini di pace e stabilità nella regione.

Il nostro sostegno all’ASEAN, però, si estende anche al settore della sicurezza, come dimostrano le iniziative insieme all’ASEAN sulla sicurezza marittima: abbiamo co-sponsorizzato delle conferenze che sono state apprezzate perché, appunto, non affrontavano direttamente i problemi immediati della contesa nel Mar Cinese Meridionale, ma guardavano ai problemi in maniera più ampia, ad esempio indagando come si possano condividere le risorse o affrontare le dispute. Anche sulla pirateria abbiamo dei programmi di sostegno alle attività anti-pirateria della regione: abbiamo offerto (e continuiamo a farlo) l’opportunità ai quadri militari dei paesi del Sud-est asiatico di partecipare all’Operazione Atalanta nell’Oceano Indiano visitando i vari headquarters in Europa da dove vengono seguite le iniziative anti-pirateria. Magari un giorno avremo anche l’interesse a poter accogliere la partecipazione di reparti militari del Sud-est asiatico in questa iniziativa, così come abbiamo fatto con altri paesi. La maggior parte delle iniziative UE in materia di sicurezza (compresa quella non-tradizionale) è discussa e implementata con i partner ASEAN nell’ambito dell’ASEAN Regional Forum (ARF), di cui l’UE è membro insieme a 26 partner – i 10 Stati Membri ASEAN più Stati Uniti, Russia, Cina, le due Coree, Australia, India e altri ancora. L’ARF è un contesto molto importante e uno dei pochi in cui è l’Unione Europea (e nessuno dei suoi Stati Membri) a rappresentare il Vecchio Continente.

L’UE è stata fortemente coinvolta nei negoziati per il cessate-il-fuoco in Myanmar. Quali sono secondo l’Europa le prospettive del processo di pace? L’esperienza maturata può essere applicata con successo in altri contesti conflittuali nell’area?

Noi siamo implicati in quanto abbiamo finanziato e continueremo a finanziare il Myanmar Peace Centre (MPC). Il nostro approccio non è stato semplicemente in una direzione, appunto quella di favorire e di sostenere i vari processi di pace, ma è stato in generale quello di sostenere, in maniera anche piuttosto importante, la transizione in Myanmar. Cerchiamo anche di aiutare o di sostenere le iniziative del paese: lo facevamo anche col governo precedente e ancor di più lo faremo con quello nuovo, visto che è stato chiaramente eletto su basi democratiche.

Il processo di pace non è completo perché solo poco più della metà delle organizzazioni coinvolte nel conflitto hanno firmato il cessate-il-fuoco, e resta quindi ancora molto lavoro da fare affinché anche gli altri gruppi vi aderiscano. Però il nuovo governo ci permette di essere ottimisti sulla possibilità di progredire in questo senso. A causa della specificità del contesto birmano, non abbiamo mai visto quest’esperienza come esportabile, ma siamo coinvolti in altri processi anche in maniera piuttosto intensa. A parte quello storico ad Aceh, mi riferisco a quello che stiamo facendo adesso nella regione di Mindanao nelle Filippine, dove abbiamo dispiegato tutta una serie di strumenti, risorse, finanziamenti e faremo ancora di più una volta che elezioni avranno avuto luogo, ciò che ci consentirà di sostenere nuovamente il progetto di pace. Il nostro metodo preferito è sostenere un’iniziativa locale o anche regionale; nella maggior parte dei casi, la nostra esperienza ci suggerisce che è più efficace sostenere gruppi ed esponenti locali o della regione.

Mentre il Myanmar si avvia a consolidare una “democrazia disciplinata”, in Thailandia il governo militare sembra continuamente allontanare il momento della restituzione del potere ai civili. Quali sono le ripercussioni internazionali? Ritiene che l’Europa non possa svolgere alcun ruolo per favorire il ritorno e il consolidamento della democrazia a Bangkok?

Adesso è interessante vedere quale sarà il ruolo del Myanmar a livello regionale. Fino a poco tempo fa, a nostro avviso, il Myanmar era molto preso da se stesso e il suo contributo al dibattito regionale o internazionale era piuttosto ridotto. Tra l’altro stiamo preparando una Comunicazione sul Myanmar che sarà la seconda sul Sud-est asiatico (dopo quella sull’ASEAN dell’anno scorso). Uno degli elementi che vogliamo inserire in questo documento è proprio il nostro desiderio di sostenere il ruolo del Myanmar nella regione. Chiaramente il paese ha sperimentato recentemente delle esperienze positive, che in qualche misura possono costituire un esempio per altri partner nel Sud-est asiatico. Al contempo, tuttavia, occorre evitare di creare divisioni dando l’impressione di indicare il Myanmar e il livello di democrazia che ha raggiunto come esempio che altri paesi dovrebbero seguire. Non è quello l’obiettivo: l’UE mira semplicemente a favorire un maggiore scambio tra un paese trasformato come il Myanmar e gli altri nella regione.

Chiaramente la Thailandia ha preso la direzione opposta: c’è un regime militare e non si vedono grandissimi progressi verso il ritorno della democrazia. Noi abbiamo adottato un approccio pragmatico. Da una parte non firmeremo accordi internazionali con un regime che dal nostro punto di vista non è legittimato democraticamente; d’altra parte però la Thailandia è un paese importante e continuiamo ad avere relazioni su una serie di dossier. Uno dei più importanti è quello dell’Illegal Unreported Unregulated fishing (IUU), che mira fra l’altro a contrastare il fenomeno del lavoro forzato in un settore chiave per l’economia thailandese come quello della pesca, e in cui stiamo ottenendo risultati molto positivi. Qualsiasi paese torna alla democrazia perché esso stesso ha deciso di farlo e l’UE non ha l’ambizione (né sarebbe il suo ruolo) di poter cambiare le cose in Thailandia dall’esterno, ma siamo a disposizione per un dialogo. Nel caso in cui la nuova costituzione venga approvata liberamente dagli elettori thailandesi, l’UE è disposta ad accompagnare il processo fino allo svolgimento di elezioni vere e proprie. Con la Thailandia, inoltre, stiamo collaborando in maniera assidua in ambito ASEAN, in quanto Bangkok al momento coordina le relazioni dell’ASEAN con l’UE. In tale contesto multilaterale abbiamo una serie di obiettivi importanti, compresa una riunione Ministeriale EU-ASEAN da tenersi in Thailandia prima della fine dell’anno in corso. In quest’ambito stiamo discutendo obiettivi ambiziosi quali la possibilità di stabilire un partenariato strategico tra le due regioni, sulla base di una direttiva di massima adottata dai ministri degli esteri UE e ASEAN all’ultima riunione ministeriale, svoltasi a Bruxelles il 23 luglio 2014.

 

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