L’area di libero scambio Asean-Cina vista dal Sud-est asiatico

Il Sud-est asiatico è ancora una volta teatro delle rivalità strategiche in Asia, ma i paesi della regione non paiono intenzionati, questa volta, a rimanere semplici oggetti della Storia. Le rivalità strategiche in Asia non sono limitate agli Stati Uniti, la superpotenza in carica, e alla Cina, il suo sfidante in ascesa. Composta da Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam, anche l’Asean si è affermata come perno strategico emergente – per quanto talvolta poco coerente – della geopolitica asiatica. E in Asia l’ambito strategico include anche la cooperazione e l’integrazione economica.

Quando per la prima volta il premier cinese Zhu Rongji propose una più stretta integrazione economica tra la Cina e il Sud-est asiatico al vertice Asean +3 del 2000, il peso di Pechino si faceva già sentire. Sui mercati dei paesi terzi i beni cinesi stavano cominciando a soppiantare quelli del Sud-est asiatico, mentre secondo alcuni la Cina stava attraendo investimenti esteri che avrebbero potuto dirigersi nella regione. Nel 2002 – nel corso dell’ottavo vertice Asean-Cina – le due parti firmarono un accordo-quadro che aprì la strada al Trattato di libero scambio Asean-Cina (Asean-China Free Trade Agreement, Acfta). Per il Sud-est asiatico si trattava del secondo accordo di libero scambio, dopo quello interno all’Asean concluso un decennio prima.

Come nota Ariel Ko in questo numero di OrizzonteCina, il commercio tra Cina e Asean è cresciuto rapidamente dopo che nel 2010 sono entrate in vigore le disposizioni dell’accordo relative ai paesi più sviluppati del Sud-est asiatico. Con il 12% del commercio totale dell’Asean (per un valore di 2.000 miliardi di dollari Usa), la Cina è stata nel 2010 il maggiore partner commerciale dell’Asean. Nel 2011 l’Asean è diventata per la Cina il terzo maggior partner commerciale dopo Unione Europea e Stati Uniti.

Nella regione ha però continuato a serpeggiare il disagio per il successo commerciale e manifatturiero della Cina. Mentre i più sentono il fascino dell’accesso al mercato cinese, in molti sono scettici sulla capacità del Sud-est asiatico di rimanere competitivo rispetto alla Cina. Si teme in particolare la concorrenza cinese sui mercati interni. Il parlamento indonesiano, per esempio, ha chiesto al governo di rinegoziare l’Acfta, entrato in vigore nel 2010. Secondo il parlamento di Giacarta l’accordo sta infatti azzoppando il settore manifatturiero e altri settori dell’economia indonesiana, costringendo alla chiusura molte piccole e medie imprese locali. Il governo indonesiano ha quindi dichiarato l’intenzione di rinegoziare il programma di riduzione delle tariffe al fine di proteggere settori sensibili, fra cui l’agricoltura. Finora però nessun cambiamento di rilievo è stato apportato alla parte sino-indonesiana dell’Acfta.

Sia la Cina che il Sud-est asiatico riconoscono che l’Acfta vale più dei reciproci interessi commerciali di breve periodo. Come nota anche Ko, l’Acfta offre alla Cina una serie di vantaggi: offre alla regione meridionale del paese un retroterra e un mercato potenziale in linea con la strategia di sviluppo del governo; rafforza le credenziali di leader – quantomeno regionale – della Cina e le permette di coltivare buone relazioni con vicini inquieti (dalle cui vie di comunicazione marittima passa la quasi totalità delle importazioni di idrocarburi dirette in Cina); fornisce agli osservatori internazionali un’ulteriore prova che l’ascesa della Cina non deve necessariamente preoccuparli.

Per il Sud-est asiatico l’Acfta è importante non solo perché garantisce ai paesi della regione l’accesso al mercato cinese, permettendo loro di trarre beneficio dal ritorno della Cina ad un ruolo globale, ma anche perché costituisce una pietra angolare del disegno finalizzato a preservare la rilevanza dell’Asean nell’architettura politica ed economica dell’Asia, facendone una parte integrante della strategia di coinvolgimento e socializzazione della Cina in una rete di istituzioni multilaterali. È inoltre un elemento cruciale per la conclusione di accordi di libero scambio con altre potenze asiatiche: non è un caso che gli altri accordi di libero scambio firmati dall’Asean – quelli con l’Australia, il Giappone, l’India, la Corea del Sud e la Nuova Zelanda – siano tutti entrati in vigore entro la fine del 2011. È significativo, infine, che quattro paesi membri dell’Asean – Brunei, Malaysia, Singapore e Vietnam – stiano negoziando i termini di accesso alla Trans-Pacific Partnership, un’iniziativa lanciata da Washington in vista della costituzione di un’area di libero scambio fra le due sponde del Pacifico, che includa anche paesi come l’Australia, il Cile, la Nuova Zelanda e il Perù.

Resta tuttavia da chiarire quali costi – interni o di altro genere – la Repubblica popolare cinese e il Sud-est asiatico siano disposti a sopportare nel processo di integrazione dell’Acfta. Come suggerisce la vicenda indonesiana, alcuni nel Sud-est asiatico ritengono che il prezzo da pagare sia eccessivo. La regione potrebbe quindi aver bisogno di tempo per metabolizzare gli effetti dell’Acfta. Con ciò non si intende dire che la concorrenza diretta con la Cina nei mercati domestici o in mercati terzi sia necessariamente un male. Potrebbe invece costituire uno stimolo per quei paesi del Sud-est asiatico che non sono sinora riusciti a realizzare adeguate riforme per aumentare produttività e competitività. Resta il fatto che forti resistenze interne potrebbero ostacolare, se non impedire, un’ulteriore espansione dell’integrazione economica regionale.

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