La sfida della sostenibilità in Cina

Nell’autunno dello scorso anno veniva coniata in Cina l’espressione “Apec blue” (Apec lan, Apec 蓝). Inserita dal China Daily nell’elenco delle espressioni più rilevanti del 2014, stava a indicare il colore del cielo, reso azzurro dalla riduzione dello smog durante il vertice dell’Asia-Pacifc economic cooperation (Apec), tenutosi nella capitale cinese nel novembre di quell’anno. “Blu Apec” è così entrato nell’uso quotidiano a indicare un accadimento inaspettato, positivo e tuttavia fuggevole. Chi scrive si trovava in quei giorni a Pechino e difficilmente potrà dimenticare il sollievo portato dall’Apec, come del resto la malinconia, quando, finito il forum, una coltre grigia tornò a ricoprire la città. Non che ciò fosse inatteso: la sospensione della produzione in circa 10.000 impianti industriali, le limitazioni al traffico e la chiusura di uffici nella municipalità non avrebbero evidentemente potuto protrarsi.

Tuttavia, se è vero che l’uomo si abitua a tutto, abituarsi al bello è più semplice: il ritorno alle infnite sfumature di grigio pechinesi fu difficile da accettare. In molti, specialmente i giornalisti, hanno interpretato le misure adottate durante l’Apec come un mero atto propagandistico. È una lettura superficiale: l’esperienza dell’Apec ha infatti reso evidenti all’opinione pubblica cinese due importanti aspetti: (1) attraverso una drastica riduzione degli agenti inquinanti atmosferici è possibile ristabilire la qualità dell’aria nelle metropoli; (2) ad oggi, ciò è realizzabile soltanto imponendo limitazioni drastiche alla produzione industriale e alla mobilità personale. Le misure adottate per l’Apec hanno evidenziato i costi economici e sociali per ottenere un cielo pulito, rinvigorendo il dibattito nazionale sullo sviluppo sostenibile.

Le coordinate della sostenibilità

Quello della sostenibilità è del resto un concetto spesso mal interpretato. Nonostante dibattito pubblico e discorso politico ne siano saturi, permane una certa confusione sulle sue componenti, in Cina come altrove. Se si chiedesse a un interlocutore qualsiasi di illustrare il concetto di sostenibilità, è probabile che risponderebbe con espressioni quali verde, efficienza energetica, o simili. Altri citerebbero la protezione delle specie in via di estinzione, la riduzione del riscaldamento globale, eccetera. Non sono risposte “sbagliate”, ma l’idea di sostenibilità è più complessa: nasce fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, sull’onda della critica al modello di sviluppo dell’Occidente industrializzato. The limits to growth, pubblicato nel 1972, fu una pietra miliare1 . Esplorava, con l’ausilio di una modellistica per l’epoca assai avanzata, l’interazione fra i sistemi umani e naturali. La conclusione degli autori era chiara: un sistema limitato come il pianeta Terra non può supportare per un tempo indefinito una crescita (di popolazione e produzione) virtualmente illimitata. Forse, ancor più delle previsioni di The limits to growth, in quegli stessi anni furono le prime immagini della Terra vista nella sua interezza dallo spazio a rendere chiaro il concetto di limite, ovvero la necessità di proteggere quel piccolo globo di mari, foreste e deserti perso nell’oscurità del cosmo, garantendone l’abitabilità anche in futuro.

Proiezione verso il futuro ed equità intergenerazionale sono i principi fondanti della definizione standard di sviluppo sostenibile, inclusa nel 1987 nel rapporto delle Nazioni unite intitolato Our common future: “Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Una definizione che chiama in causa in egual misura le tre componenti fondamentali della sostenibilità: ambientale, economica e sociale. Tuttavia, per molto tempo il dibattito sullo sviluppo sostenibile continuò ad avere quale elemento centrale la gestione ambientale, tesa a regolare l’impatto delle attività antropiche sull’ambiente. Una scelta legittima, dato il reiterarsi di crisi ambientali causate dall’uomo che possono mettere a rischio la sua stessa esistenza. Solo per citarne alcune: Londra 1952, Vajont 1963, Seveso 1976, Love Canal 1976, Bhopal 1984, Chernobyl 1986. Crisi causate dallo sfruttamento di risorse per la produzione industriale e dai connessi modelli socioeconomici.

In tale contesto, non sorprende che gradualmente si cominciasse ad attribuire importanza anche alla dimensione economica della sostenibilità. L’economia fornisce strumenti utili a quantificare i costi del degrado ambientale e possibili trade-of in grado di compensarli. Non a caso, la crescente rilevanza attribuita all’aspetto economico nel dibattito sulla sostenibilità va di pari passo con l’impiego in quest’ambito di strumenti quali la Cost benefit analysis (Cba). La dimensione sociale, pur presente sin dai primordi del dibattito sullo sviluppo sostenibile, è l’ultima ad essere inclusa in modo organico nell’elaborazione delle politiche per la sostenibilità. Ciò è dovuto a due fattori principali (1) la difficoltà di misurare, quantificare, comparare i diversi aspetti dello sviluppo sociale, specie in termini di benessere, equità, partecipazione pubblica; (2) la variabilità in ciò che viene considerato come desiderabile in termini di sviluppo in contesti socio-culturali, economici e politici diversi. Ciò non equivale a dire che non siano stati sviluppati strumenti atti a misurare la sostenibilità sociale, attribuendole un ruolo centrale. Un primo esperimento è quello dell’indice Gross national happiness (Gnh), introdotto nel 1972 dal re del Bhutan Jigme Singye Wangchuck in sostituzione del Pil quale misura fondamentale di sviluppo nazionale. In anni recenti, indici sempre più raffinati sono stati elaborati per quantificare, rendendoli comparabili, i risultati raggiunti da paesi diversi nel progresso verso gli obiettivi di sostenibilità sociale (si veda ad esempio, la serie di Human development report dell’Undp). Ampio uso hanno acquisito strumenti di analisi multi-criteriale, capaci di integrare attraverso modelli matematici unità di misura diverse (afferenti alle dimensioni sociale, ambientale ed economica), nonché la percezione dei diversi attori sociali in merito alla rilevanza dei diversi aspetti della sostenibilità.

Sostenibilità in Cina: popolazione, numeri, ideologia

Comunemente, si ritiene che il concetto di sviluppo sostenibile sia stato concettualizzato in Cina soltanto nell’ultimo decennio, a seguito di gravi fenomeni di degrado ambientale. Ciò è vero da un punto di vista ideologico, macro-politico e di pianificazione socioeconomica tout-court, ma primi passi furono compiuti ben prima, in un’area poco frequentata dagli studi su Cina e sostenibilità, ovvero il controllo delle nascite. Il padre della politica del figlio unico, l’ingegnere missilistico Song Jian, nel corso degli anni Settanta fu profondamente influenzato dalle tesi del Club di Roma (il quale aveva commissionato il lavoro contenuto nel volume The limits to growth), secondo cui il controllo della popolazione avrebbe giocato un ruolo fondamentale nel garantire un futuro sostenibile all’umanità. Song fu colpito dalle potenzialità della modellistica matematica applicata alle politiche pubbliche e sviluppò un modello in grado di prevedere diversi scenari di crescita della popolazione. Sulla scorta dei risultati ottenuti, Song suggerì di contenere quanto più possibile la popolazione cinese, indicando come valore ideale 700 milioni di individui.

Non è dato sapere quanto genuine fossero le preoccupazioni di Song riguardo all’impatto ambientale della popolazione. Di certo, l’impatto delle sue tesi fu dirompente a livello politico, contribuendo all’adozione della politica del figlio unico. Il fatto di produrre evidenze scientifiche, espresse in numeri e grafici apparentemente inconfutabili, esercitò probabilmente una grande attrazione sulla leadership dell’epoca, in linea con le parole di Deng Xiaoping – “nei numeri ci sono le politiche. Defnire i numeri equivale a decidere le politiche” (shuzi zhong you zhengce, jueding shuzi jiu shi jueding zhengce, 数字中有政策,决定数字就是决定政策). Fattori endogeni (priorità di sviluppo nazionali) ed esogeni (dibattito internazionale sulla sostenibilità) continuano ancora oggi a indirizzare lo sviluppo del concetto di sostenibilità in Cina. La crisi ambientale, di cui si dà conto nel successivo articolo di Pizzol, Giubilato, Critto e Marcomini, ha accelerato il processo di inclusione della sostenibilità nell’agenda politica e nel sistema ideologico cinese.

Ciò è accaduto, come consueto a Pechino, secondo “caratteristiche cinesi”. Senza farne una questione etimologica, è evidente che i diversi modi di “denominare” la sostenibilità si legano agli specifici contesti in cui questa parola viene utilizzata: in francese, essa è indicata sovente con durabilité, ponendo l’accento sulla necessità di assicurare nel lungo termine la continuazione della vita e della società umana; l’inglese sustainability è piuttosto legato alla disponibilità di risorse atte a sostenere la presenza umana sul pianeta; il tedesco Nachhaltigkeit nasce nel XVIII secolo, a indicare un uso oculato delle risorse forestali. Tutti termini che descrivono un processo o stato che possa essere mantenuto a un determinato livello indefinitamente nel tempo.

Nel caso cinese, le cose si complicano (o si fanno più interessanti, secondo i punti di vista). Non che manchi un corrispettivo al termine sostenibilità: esso è ke chixu (可持续), letteralmente, “che può continuare, perdurare”. Tuttavia, nella comunicazione politica si preferisce la dizione “visione scientifica dello sviluppo” (kexue fazhan guan, 科学发展观). Introdotta nel corso del XVII Congresso del Partito comunista cinese (2007), questa locuzione indica la necessità di perseguire uno sviluppo equilibrato, in grado di bilanciare necessità economiche e salvaguardia dell’ambiente, in un quadro di stabilità sociale (e politica). Sin qui nulla di sorprendente, non fosse che per due particolari: il ricorso al termine “scientifico”, inteso come obiettivo da raggiungere; il riferimento alla necessità di preservare la stabilità sociale. Entrambi questi elementi, assenti altrove, indicano la volontà cinese di perseguire un proprio “modello” di sviluppo sostenibile.

Politica e ideologia cinesi della sostenibilità

Il ricorso all’attributo “scientifco” (kexue, 科学) ha la sua ragion d’essere nella particolare funzione politica dello stesso, ovvero quella di indicare obiettivi non contestabili, rimuovendoli dall’arena del dibattito pubblico. Nella Cina contemporanea tale termine viene sovente utilizzato quale sinonimo di “politicamente appropriato”. Secondo Perry Link, sin dall’epoca maoista l’aggettivo “scientifico” non “significava nient’altro che «buono» o «politicamente corretto»… Una frase quale «questa tua opinione non è scientifica» non necessariamente andava riferita […] al fatto che […] fosse stato utilizzato un metodo scientifico”. D’altro canto, il riferimento al consueto mantra della stabilità sociale (shehui wending, 社会稳定) rivela una scarsa predisposizione di Pechino verso obiettivi di sostenibilità sociale che implichino un’equa e libera partecipazione della società alle scelte che ne regolano il futuro (si veda in merito l’articolo di Angela Moriggi).

Il concetto di “civilizzazione ecologica” (shengtai wenmin, 生态 文明), anch’esso sviluppato durante i due mandati di Hu Jintao e Wen Jiabao alla guida del Partito comunista cinese e della Repubblica popolare (2002/3 – 2012/13), è in linea con gli assunti dello “sviluppo scientifico”. Esso pone però l’accento su di una relazione “armoniosa” (hexie, 和谐) fra uomo e natura, rappresentando in termini ideologici una decisa correzione della visione antropocentrica radicata in epoca maoista e nei primi decenni delle riforme. La “civilizzazione ecologica”, inoltre, piuttosto che orientata verso obiettivi tangibili di sviluppo, ofre un puntello politico-ideologico per la costruzione di un sistema legislativo e istituzionale mirante a una migliore gestione delle risorse naturali.

Legislazione, burocrazia e incentivi

In tale contesto, la produzione di leggi, regolamenti e standard ambientali procede speditamente. La Legge sulla protezione ambientale (Huanjing baohu fa, 环境保护法) è stata emendata nel 2014, includendo pene più severe per quanti non rispettino la normativa su monitoraggio e valutazioni d’impatto ambientale e inasprendo le sanzioni per le aziende inquinanti. Lo sviluppo della legislazione sulla protezione del suolo è una cartina di tornasole dello sforzo di Pechino. Nell’ultimo decennio, a causa degli estesi processi di urbanizzazione che hanno reso necessario riconvertire ampie aree industriali dismesse, sono stati messi in cantiere una Legge per la protezione ambientale del suolo (Turang huanjing bao hu fa, 土壤环境保护法), in attesa di approvazione da parte dell’Assemblea nazionale del popolo, e un Regolamento provvisorio per la gestione ambientale dei siti contaminati (Wuran changdi turang huanjing guanli zanxing banfa, 污染场地土壤环境管理暂行办法), anch’esso in fase di approvazione. Fra 2000 e 2014, sono stati adottati una dozzina di standard e linee guida nazionali per la protezione del suolo, mentre numerose linee guida sono state introdotte a livello provinciale. Le esperienze locali hanno fornito sostegno considerevole all’elaborazione delle politiche nazionali. Notevole il caso di Shanghai, che per l’Expo 2010 elaborò standard di analisi del rischio e bonifica poi estesi ad altre parti del paese. Una sinergia, quella tra sperimentazione locale e processi legislativi nazionali, che si è sviluppata anche nel settore dell’acqua, in particolare per la gestione a livello di bacino idrografico, anziché basata sulle suddivisioni amministrative.

Permangono tuttavia le consuete difficoltà relative all’applicazione della regolamentazione. La frammentazione della burocrazia e il permanere di interessi divergenti, oltre all’influenza di gruppi d’interesse esterni, continuano a minare l’attuazione delle leggi. Nel caso dell’acqua, questa condizione viene sovente espressa con il detto “Nove draghi governano l’acqua” (jiu long zhi shui, 九龙治 水): sono infatti più di tredici gli organi governativi a livello ministeriale ad avere responsabilità su diversi aspetti legati alla gestione dell’acqua. Interessi divergenti sono evidenti nel caso della gestione dei bacini artificiali nella stagione secca, “quando i dipartimenti delle risorse idriche e dell’agricoltura spingono per garantire la fornitura a valle, mentre quelli dell’ambiente cercano di limitare il deflusso, per evitare un’eccessiva concentrazione di inquinanti”. Lo stesso vale per i numeri dell’inquinamento: “I dati resi pubblici rispecchiano l’interesse dei diversi dipartimenti, e vengono manipolati su questa base”.

In questo contesto, non è forse così paradossale che l’introduzione di parametri ambientali per valutare l’operato dei funzionari locali (di per sé un’ottima notizia) si riveli talora un boomerang. Secondo una recente ricerca, l’introduzione nel 2003 dell’obiettivo del “cielo blu” nella valutazione delle amministrazioni cittadine avrebbe causato un aumento nei casi di manipolazione dei dati sulla qualità dell’aria: molti funzionari avrebbero infatti edulcorato i dati in modo tale da rientrare entro la soglia del “cielo blu” (valori medi annuali rilevati di particolato: PM10 ≤ 150 μg/m3).

Industria, tecnologia, pianificazione territoriale

La qualità dell’aria, è noto, passa in larga misura dalle modalità di produzione dell’energia. La Cina è leader mondiale negli investimenti per le energie rinnovabili: nel 2012, il 30% del totale degli investimenti per energie pulite nei paesi G20 era cinese. Questo dato non deve tuttavia nascondere il fatto che il 90% dell’energia cinese è ancora prodotta da combustibili fossili, in specie carbone: la Cina è il maggiore emettitore di gas serra. I dati sulle fonti pulite del resto rischiano di essere fuorvianti: si tratta in gran parte di impianti idroelettrici, che comportano sovente impatti ecologici e sociali negativi. Secondo i piani governativi, la Cina entro il 2020 dovrebbe soddisfare il 15% del proprio fabbisogno attraverso fonti rinnovabili. Accanto alla riduzione delle emissioni di inquinanti dell’aria, particolare attenzione viene riservata al trattamento delle acque, con un piano di investimento pubblico di 600 miliardi di euro nel periodo 2011-2020.

Accanto alla trasformazione delle modalità delle produzione dell’energia e all’introduzione di tecnologie per il trattamento delle acque, nella strategia complessiva cinese per uno “sviluppo scientifico” giocano un ruolo fondamentale le politiche di pianificazione territoriale. L’urbanizzazione è per certi versi il progetto più ambizioso intrapreso dall’attuale leadership, che la considera una misura-chiave per utilizzare in modo più sostenibile le risorse naturali, nonché garantire alle fasce più svantaggiate della popolazione un più equo accesso a migliori forme di impiego. Tale aspetto si intreccia con l’attuale processo di riforma dello hukou (户口), che dovrebbe alleggerire il controllo sulla migrazione interna, rendendo più facile convertire da agricolo a urbano il proprio status di registrazione familiare, con benefici in termini di welfare e impiego. Si prevede che entro il 2030 il 70% della popolazione cinese vivrà in città, contro il 50% attuale. Ci sono anche diversi progetti pilota di eco-città: fra questi, la Tianjin Eco-City, co-finanziata dal governo di Singapore, che una volta ultimata dovrebbe ospitare una popolazione di 350.000 abitanti.

La gestione ambientale: sostenibilità…per chi?

Il quadro generale è dunque complesso e sovente contraddittorio: normale, verrebbe da dire, per un paese come la Cina. Può risultare perciò utile concentrarsi su casi concreti. Lo faremo qui esponendo per sommi capi un caso di gestione ambientale nella zona di Xichang, provincia del Sichuan. La zona è conosciuta per ospitare una base da cui vengono lanciati in orbita satelliti. È altresì rinomata per ospitare il lago Qionghai, una delle zone tradizionalmente frequentate nei periodi di villeggiatura dalla nomenclatura comunista. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, la qualità delle acque del lago subì un rapido degrado a causa di attività agricole e conseguente interramento di acquitrini, piscicoltura, attività turistiche. Il risultato fu l’aumento dei nutrienti nel lago, con conseguente eutrofizzazione: a metà anni Novanta, la qualità dell’acqua del lago aveva raggiunto in alcune zone il grado IV, su una scala da I a V (I migliore; V peggiore). Le autorità corsero ai ripari con una serie di misure: regolamentazione ambientale locale dedicata alla gestione delle risorse idriche; gestione del lago a livello di bacino; integrazione di protezione ambientale con obiettivi di sviluppo socio-economico. Quest’ultimo obiettivo è stato via via realizzato attraverso il cambio di destinazione d’uso di terreni nelle sezione settentrionale, orientale e meridionale del bacino. Le attività agricole sono state limitate, vaste aree sono state destinate a sviluppo residenziale di lusso e strutture ricettive, una fascia di 100-400 metri dalle sponde del lago destinata a zona cuscinetto ecologica. Secondo un ricercatore governativo, “la protezione ambientale a Qionghai è stata resa possibile dal fatto di dimostrare agli altri portatori d’interesse che lo sviluppo economico locale poteva trarne beneficio [attraendo investimenti per il settore residenziale e il turismo]”.

La gestione di Qionghai è spesso citata nei circoli accademici e governativi quale esempio virtuoso di pianificazione sostenibile.

Eppure, visitando le sponde del lago destinate sino a tempi recenti a coltivazione, si delinea un quadro diverso. Le popolazioni locali sono soggette a un massiccio programma di trasferimento, per far spazio a nuovi edifici e alla zona cuscinetto ecologica. Il programma riguarda 20.000 persone. Al momento della visita da parte dell’autore (estate 2014), parte di queste persone era impiegata nei cantieri dei nuovi complessi residenziali. Tutti avevano perso la terra che forniva in precedenza una fonte di sostentamento (peraltro dignitosa, date le condizioni locali favorevoli alla coltivazione di ortaggi). Al contempo, i piani di trasferimento non prevedevano compensazioni sufficienti. Interpellato dinanzi all’immagine che correda questo testo, l’impiegato governativo che accompagnava l’autore nella sua visita rispondeva così: “La Cina è un grande paese. Non possiamo pensare di ripulire l’ambiente tenendo conto degli interessi di tutti. Qualcuno ci deve pure perdere!” Che compromessi siano necessari per il bene dell’ambiente è evidente, in Cina come altrove. Che a subirne le conseguenze peggiori siano le fasce tradizionalmente più svantaggiate è tuttavia in contraddizione con il principio di equità, componente essenziale della sostenibilità sociale. Sino a che tale contraddizione non sarà risolta, rimarrà difficile parlare di sviluppo sostenibile in Cina. Per quanto azzurro sia il cielo, la sostenibilità male si sposa con l’iniquità.

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