[LA RECENSIONE] Myanmar: Dove la Cina incontra l’India

image-gabusiCon la nascita di una nuova casa editrice e la pubblicazione di una nuova collana sull’Asia, la città di Torino si conferma un luogo estremamente ricettivo agli stimoli culturali provenienti dal resto del mondo. In un momento di forte crisi dell’editoria, iniziative coraggiose come questa segnalano che non è svanita la speranza di intercettare in Italia una nicchia di lettori che manifesta forte curiosità verso il continente oggi più interessante per comprendere le direttrici del nostro futuro. L’editore propone come primo titolo un testo pubblicato solamente nel 2011 e già divenuto un classico sul Myanmar contemporaneo (il nome Birmania deriva da Bamar, il nome del gruppo etnico maggioritario nel Paese, mentre Myanma è il nome scritto e letterario, ufficiale dal 1989 e considerato più inclusivo dall’allora giunta militare al potere).

L’autore, Thant Myint-U, è uno storico birmano formatosi a Cambridge e Harvard, e nipote di U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1961 al 1971. Ex funzionario dell’ONU e consigliere speciale del governo birmano presso il Myanmar Peace Centre, Thant Myint-U – appartenendo quindi alla ristretta cerchia dell’élite birmana più cosmpolita – è in grado di offrire una visione ampia e approfondita del proprio Paese, attraverso le lenti della sua strategica collocazione geografica tra i giganti cinese e indiano, senza trascurare le tracce – che sembrano essere ovunque – dell’imperialismo britannico. Dove la Cina incontra l’India è al contempo un racconto dell’intricata storia contemporanea delle regioni di confine, e un diario di viaggio in quella parte di società birmana – di cui osserva aspirazioni, delusioni, speranze – che si confronta quotidianamente con i potenti vicini.

Il complesso e atavico rapporto del Myanmar con la Cina domina il testo (300 pagine su 424), poiché l’autore non viaggia soltanto nel Nord-est del Paese (più precisamente, nello Stato Shan), ma anche nella provincia cinese dello Yunnan, come se le due aree di confine rappresentassero due lati della stessa medaglia. In questi territori – sostiene Thant Myint-U – assistiamo ormai a un “capovolgimento della geografia”, perché luoghi vicini alla Cina ma periferici per il Myanmar sono ormai diventati – grazie all’interazione con l’economia cinese – più moderni di Yangon, la vecchia capitale imperiale e ancora oggi il cuore commerciale del Paese. Lo scambio con lo Yunnan riguarda beni e servizi, risorse energetiche (in primis, gas e petrolio), giada e pietre preziose, e comporta un grande movimento di persone al di qua e al di là della frontiera: ricchi cinesi che frequentano i casinò (magari gestiti da un’ex guardia rossa convertitasi al capitalismo d’assalto) dove ripulire i propri guadagni illeciti, imprenditori alla ricerca di nuovi mercati, e intermediari in cerca di mogli birmane low cost per gli scapoli dei poveri villaggi cinesi. La percezione dei birmani del ruolo della Cina è ambivalente: come un interlocutore disse nel 2014 a una delegazione di T.wai (di cui chi scrive faceva parte) in visita nella capitale Naypyitaw, nessuno in questo Paese può ragionevolmente pensare di avere la Cina come nemico, ma nemmeno è tollerabile che la Cina pretenda di indicare ai birmani quel che debbano o non debbano fare. Del resto, “parlare di paura è troppo, ma una preoccupazione nei confronti della Cina è profondamente radicata nel pensiero birmano” (p. 115). Quando – con l’indipendenza dell’India – per gli inglesi il valore strategico della Birmania scompare, e dopo che gli Stati Uniti avevano sostenuto i nazionalisti di Chiang Kai-Shek riparati nelle aree impervie dello Stato Shan, durante la Rivoluzione Culturale le pulsioni rivoluzionarie maoiste tracimano in Birmania, dove Pechino sostiene il partito comunista. A Yangon si registrano anche tumulti contro gli interessi e le sedi diplomatiche cinesi. Lo scontro con i cinesi militarizza l’altopiano dello Shan, e sono gli stessi nazionalisti cinesi in realtà – una volta abbandonata la velleitaria strategia di strappare Pechino ai comunisti ripartendo dalla Birmania – a diventare gradualmente quei signori della guerra che imperversano per decenni sugli altipiani e che ancora oggi controllano direttamente o indirettamente territori e risorse economiche. Per questo motivo il governo nazionale sta ora cercando di cooptare le milizie locali in un progetto di riconfigurazione della nazione (si veda l’articolo in questo numero di RISE a firma di Stefano Ruzza).

Per ora, nel “grande gioco” tra Cina e India per estendere la propria influenza sul Myanmar, l’India appare perdente, e non solamente perché non è in grado di mobilitare risorse economiche paragonabili a quelle – assai ingenti – messe in campo da Pechino. Infatti, le regioni dell’India nord-orientale non sono interamente pacificate, e – avendo alle spalle una ricca e intricata storia di regni e principati a vario modo incorporati dagli inglesi nel Raj indiano – sono molto più lontani culturalmente e politicamente da New Delhi di quanto lo Yunnan sia lontano da Pechino. Thant Myint-U viaggia nell’Assam sulle tracce del potente regno di un tempo, sconvolto nei suoi equilibri prima dalla linea Mc Mahon tracciata da Londra per stabilire i confini tra Cina e India (i cui rapporti sono ancora oggi avvelenati dalle rivendicazioni cinesi sullo stato indiano dell’Arunachal Pradesh) e poi dall’arrivo degli scozzesi per terrazzare e coltivare a tè le alture. Vola a Imphal, capoluogo del Manipur, e scopre che gli abitanti sembrano avere molto più in comune con i birmani che con gli indiani, mentre i vicini Naga continuano a nutrire pulsioni indipendentistiche…

Malgrado lo spazio dedicato ai rapporti tra India e Myanmar occupi solamente meno di un terzo del volume, è forse questa la parte più curiosa e interessante, perché di queste regioni dell’India si parla assai di rado nei media internazionali, e l’autore offre un arricchente affresco storico, etnografico e sociale dell’area, accompagnato da una malcelata nostalgia del ruolo che la cultura indiana per secoli ha svolto nel Sud-est asiatico, e dall’auspicio che India, Cina e Myanmar possano collaborare per un futuro di pace e sviluppo: “Perché anche la gente comune ne guadagni, tuttavia, è necessario un radicale cambio di rotta: la fine di decenni di conflitto armato e la disponibilità delle élite a vedere la varietà etnica e culturale della Birmania come una ricchezza, e non solo come un problema da risolvere; l’affermarsi di uno spirito cosmopolita, al posto della xenofobia che per generazioni ha dominato la politica birmana; e più di tutto, un governo forte ed efficace sostenuto dalla fiducia dei cittadini” (pp. 422-423). Con i migliori auguri al prossimo governo del Myanmar, da decenni il primo scelto da un Parlamento eletto (ancorché per tre quarti) dal popolo.

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