[LA RECENSIONE] Monologhi del giorno del giudizio Mondadori

Liu Xiaobo Monologhi del giorno del giudizio Mondadori, Milano 2011

 

Qualche tempo fa, visitando il rinnovato Museo nazionale del Risorgimento a Torino, mi ritrovai a ricordare come furono Vittorio Emanuele II e Garibaldi, e non Mazzini, a unificare con pragmatismo l’Italia e a dotarla di istituzioni liberali monarchiche. Nel tempo, però, le idee di Mazzini si sono prese il giusto spazio nella storia, e ancora nutrono di ideali il dibattito sociale e politico della nostra Repubblica. Non è un caso che mi sia tornata alla mente questa recente visita al Museo del Risorgimento mentre leggevo Monologhi del giorno del giudizio, il libro in cui è raccolto tutto l’idealismo e la carica di passione civile del Premio Nobel per la Pace 2010 Liu Xiaobo, condannato in Cina a undici anni di reclusione per incitamento alla sovversione dell’ordine dello stato.

Il volume raccoglie una ventina di lunghi articoli e interventi scritti soprattutto tra il 2004 e il 2008, una serie di poesie composte tra il 1991 e il 1997, e alcuni documenti, tra i quali si segnalano il manifesto per i diritti civili Carta 08, il Manifesto dello sciopero della fame del 2 giugno 1989 (di cui Liu Xiaobo è stato uno dei principali promotori), e la sentenza di condanna del 2009.

Come viene ricordato nell’introduzione scritta a Colonia da Tienchi Martin-Liao (il libro è tradotto dal cinese ma è già stato pubblicato in Germania), i testi di Liu Xiaobo rivelano il suo enorme debito verso la filosofia occidentale (da Kant a Foucault, da Berlin a von Hayek), verso i grandi attivisti del XX secolo come Martin Luther King, Vaclav Havel, e il Mahatma Gandhi, e anche verso la spiritualità cristiana, al punto che l’autore deve confessare – da erede della tradizione del Movimento del 4 maggio – il suo pregiudizio consapevole: “Proprio a causa della mia posizione nazionalista e del tentativo di riformare la Cina con l’aiuto della cultura occidentale, l’idealizzazione assoluta della cultura occidentale diventa la premessa della mia critica nei confronti della Cina” (p. 109).

L’idealismo non impedisce a Liu di biasimare lo “snobismo occidentale” o di riconoscere i progressi economici, sociali e giuridici della Cina contemporanea, ma è appunto nella critica senza compromessi che l’autore trova la sua massima ispirazione: contro il sistema politico, accusato di scarsa rappresentatività; contro la corruzione e l’ingiustizia sociale che si annida nel partito e nello stato (“la Cina sta correndo verso il peggiore capitalismo nepotista”, p. 69); contro la gestione della questione tibetana (“si tratta in sostanza di scontri tra libertà e dispotismo”, p. 82); contro gli intellettuali, espressione di un “manierismo autoreferenziale di un’epoca di cinismo intellettuale” (p. 174); contro la “mentalità da nemico” e la “psicologia dell’odio” che affligge la storia cinese; infine, contro la mitizzazione, in chiave nazionalistica, del pensiero e della figura di Confucio.

A volte Liu Xiaobo sembra volutamente dimenticare che l’Occidente novecentesco, più di quello ottocentesco, è la nostra eredità comune, che la realtà cinese contemporanea ha abbondantemente assorbito, anche nei suoi aspetti più deleteri (significativo è il capitolo, ad esempio, sulla mercificazione della sessualità). Perciò le sue barricate ricordano le immagini di tanti dipinti risorgimentali: “Nel buio che neppure la baionetta riesce a fendere, è il tuo sangue l’unico bagliore, ha bruciato la tua anima – se fossi di fronte a te, crederei ancora che le parole hanno un’anima” (p. 118).

Che la parola e la suggestione letteraria in politica abbiano un potenziale liberatorio, esponenzialmente accresciuto da Internet (“il dono che Dio ha offerto ai cinesi”, p. 208), è ben noto al potere di ogni natura e di ogni tempo, e respirare l’aria fresca degli ideali è un esercizio che di rado pratichiamo anche nelle nostre democrazie: “Il fluttuare delle parole non ha bisogno d’ali/ come l’odore che guida lo spirito/ raggi di sole all’alba vibrano inquieti/ sensazione di incognito/ come le scarpette nuove/ che hai fatto per il lungo viaggio (p. 293)”. Possiamo anche essere affezionati ai vecchi scarponi che ci hanno accompagnati sui sentieri conosciuti, ma per affrontare i lunghi, insidiosi e ignoti percorsi del XXI secolo abbiamo tutti bisogno di acquistare un paio di scarponi nuovi, anche se probabilmente sceglieremo ancora un modello della nostra marca preferita.

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