[LA RECENSIONE] Luigi Barzini, Nell’Estremo Oriente

Luigi Barzini, Nell’Estremo Oriente (Milano: Luni Editrice, 2018)

 

Nel giugno 1900 il quartiere delle Legazioni a Pechino è sotto assedio. I Boxer, che già dal 1899 avevano scatenato la propria violenza ribelle contro gli interessi europei e americani (principalmente legati alle missioni cristiane), sono a un passo dal cacciare i diavoli occidentali dalla loro comfort zone, nell’impotenza delle forze regolari imperiali della corte Qing, ormai avviata al declino. Un misto di avversione alla modernità, di nazionalismo e di xenofobia li guida: gli Occidentali non solo si sono spartiti intere aree della Cina (sotto forma di concessioni), ma la loro civiltà – attraverso la diffusione della tecnologia industriale, resa manifesta dalla comparsa nel paesaggio contadino della ferrovia, del telegrafo, delle navi a vapore –  scardina usanze, costumi, abitudini di una storia millenaria. La misura è colma: Germania, Austria, Francia, Italia, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti e Giappone inviano i rinforzi per togliere l’assedio.

Al seguito delle truppe c’è un giornalista del Corriere della Sera, che diverrà uno dei più validi reporter italiani di inizio secolo. Nell’Estremo Oriente è il grande debutto sulla scena giornalistica internazionale di Luigi Barzini: il libro racconta in presa diretta gli avvenimenti di quei mesi, dalla partenza sul piroscafo (12 luglio 1900) all’addio a una vecchia Pechino ormai in mano delle Otto Potenze (19 marzo 1901). Fine osservatore, ci trasmette nei dettagli, con un’articolazione del linguaggio sconosciuta alla maggioranza dei media dei nostri giorni, non solamente gli eventi della battaglia di Pechino, ma anche ciò che li precede (il viaggio in nave, l’avanzata da Tianjin alla capitale) e l’atmosfera di strana quiete (e di ultimi, sporadici focolai di conflitto) successiva alla riconquista delle Legazioni (o di quel che ne restava). Benché le pagine centrali del libro – invero un po’ noiose per chi non è esperto di tattiche militari – siano uno straordinario resoconto storico di quanto avvenne tra i vicoli di Pechino, è nella prima e nell’ultima parte che Barzini dà il meglio di sé, proiettando la sua voce oltre quello spazio, per farla risuonare, viva, attuale, moderna, nel mondo del XXI secolo.

Certo, da un lato, il giornalista di Orvieto (che nel 1900 ha soli ventisei anni, e anche questo è significativo) è figlio del suo tempo. Orgoglioso della patria, nutre una fede assoluta nell’Occidente, e la certezza che “questa guerra senza precedenti che unisce tutti i popoli civili, questa specie di crociata, come l’altra, avrà conseguenze benefiche” (p. 31). Ed è una guerra “del progresso contro l’immobilità” (p. 33), in un’ottica a tratti insieme orientalista e razzista: “il decantato Oriente con il suo fascino e… la sua puzza. Oh! Questa puzza; (…) ma sopra [tutte] vi è la puzza umana […]” (p. 53). C’è l’Europa che guarda l’Asia dall’alto in basso nelle parole di Barzini: sublime in tal senso è la descrizione esotica di Hong Kong, vista dal mare, per concludere che “in questa superba città europea […] la poveraglia cinese ha portato il suo sudiciume” (p. 66), ovviamente rovinandola. A volte i cinesi sono dipinti come selvaggi, nel tipico approccio dell’ottocentesca Europa coloniale: “Il gridare è più necessario a un cinese del mangiare” (p. 135), oppure appaiono privi di razionalità strategica in battaglia: “I cinesi, per una di quelle inesplicabili lacune della loro mente, non ne avevano ancora profittato” (p. 156). E in ogni caso, “sono ciarlieri e maldicenti” (p. 246). Senza contare che “i soldati cinesi, salvo poche eccezioni, hanno mostrato tutti i segni della vigliaccheria più inveterata” (p. 255).

Eppure, in mezzo a tanti luoghi comuni e rigurgiti di superiorità razziale che oggi i direttori dei quotidiani non si sognerebbero di pubblicare, a poco a poco in Barzini subentra un dubbio atroce. Mano a mano che le truppe occidentali avanzano da Tianjin, lasciano dietro di sé una devastazione indegna della loro dichiarata missione civilizzatrice. Tra massacri della popolazione civile, furti, incendi, distruzioni, stupri, sanguinanti teste decapitate appesi ai portoni, il giornalista-testimone si chiede se la civiltà invece non stia da un’altra parte, ad esempio negli straordinari giardini delle ville mandarinali descritte con sublime poesia pittorica. Rivede i suoi giudizi, invita a distinguere tra esercito e popolazione, a studiare il popolo nella sua quotidianità, perché allora si scoprirà l’essenza di una civiltà altrettanto degna di quella europea: “No; qui non c’è la lotta della civiltà contro la barbarie perché non c’è barbarie” (p. 266).

Non basta. Giunto a circa due terzi del libro, Barzini letteralmente vola oltre il suo tempo, come una mongolfiera che alla fine si libera dei pesanti ormeggi, e mostra una straordinaria lungimiranza, presagendo quello che la Cina sarebbe diventata nel XXI secolo. La presunta avversione cinese verso la tecnologia è in realtà un’opposizione alla tecnologia occidentale in quanto strumento di sottomissione alle potenze straniere, ma non un rifiuto della modernità: “Se i cinesi potessero fabbricare da loro le ferrovie, la Cina sarebbe coperta dai pennacchi di fumo delle locomotive” (p. 264).  Potremmo cogliere nella reazione americana (a tratti violenta) alla vitalità commerciale dei cinesi d’Oltremare le origini, in fondo, dell’attuale guerra commerciale tra Pechino e Washington: “Gli americani presentono in questi cinesi (…) i disastrosi concorrenti di domani al dominio del Pacifico, e hanno cominciato una persecuzione feroce (…)” (p. 266). E gli europei sono in competizione per fare affari, “un cumulo incommensurabile di affari; affari già in corso, affari iniziati, ma più ancora affari di là da venire” perché “le sterminate ricchezze inerti della Cina stanno per essere messe in circolazione; una mostruosa guerra industriale e commerciale sta per scoppiare; gli avversari prendono posizione” (p. 270). Sembra un passaggio scritto oggi, e invece sono parole di centoventi anni fa. Barzini intuisce anche come la Cina, industriosa, vitale, modernizzata senza occidentalizzarsi, avrebbe inondato i mercati occidentali con le proprie merci, gettando i semi della tensione che ben conosciamo: “le nazioni avranno finito per aprire loro stesse le strade alla marcia trionfale dell’industria cinese” (p. 278). Con l’amara constatazione che i cinesi saranno ritenuti civili quando avranno imparato che il vero scopo della vita è “far quattrini” (p. 341).

Le premonizioni di Barzini non finiscono qui, e fanno di Nell’Estremo Oriente un testo di sorprendente contemporaneità. Ci sono osservazioni sull’inadeguatezza dell’equipaggiamento dei militari italiani, spesso tremanti di freddo (in un copione che si sarebbe ahimè ripetuto durante la Seconda guerra mondiale). Decenni prima del Concilio Vaticano Secondo, nelle pagine che descrivono le attività dei missionari, c’è l’esplicita critica ai missionari-soldati civilizzatori del mondo, e la difesa di un approccio rispettoso degli usi e dei costumi locali –  ciò che oggi la Chiesa universale chiama “inculturazione”. E c’è infine il lamento dolente contro il pressapochismo dei presunti imprenditori italiani, totalmente impreparati ad affrontare il mercato cinese, preso invece d’assalto con successo dai concorrenti europei: un invito a preparare generazioni future di operatori economici che conoscano la Cina e sappiano interagire con essa nel modo più proficuo, perché “non basta che una stoffa sia buona, forte, resistente e a buon mercato, perché venga comperata a Penang come è comperata a Milano” (p. 60). E’ un monito di grande attualità, come si è visto negli anni scorsi con la gaffe pubblicitaria di famosi stilisti che anche OrizzonteCina ha commentato. Alla fine, il monito più importante, forse, Barzini lo riserva agli italiani del 1900 così come – ne sono convinto – agli italiani del 2020: “Ci compiacciamo troppo di guardare indietro, per poter veder bene avanti a noi. O forse l’essere stati grandi ci fa sopportare l’idea di essere piccoli?” (p. 68). Meditate, gente, meditate.

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