[LA RECENSIONE] La Cina sono io

Guo Xiaolu, La Cina sono io, Metropoli d’Asia, Milano 2014

“Londra è un boato, un’esplosione lenta che disperde ogni cosa viva e morta senza darle requie. Rimbomba ogni angolo, da sé o di riffesso, attrazione e repulsione. Perfino gli odori e i suoni sembrano rimbombare”. Basterebbe questo incipit per incuriosire qualsiasi lettore che abbia frequentato la capitale britannica, e che in queste parole ne riconosca immediatamente i profumi, ne oda i rumori, ne veda il crogiolo post-imperiale. Partendo da questo scorcio iniziale, Guo Xiaolu ci introduce nella vita di Iona, traduttrice dal cinese per una casa editrice inglese, alle prese con un manoscritto di misteriosa provenienza, da cui a poco a poco emergono le storie intrecciate di due giovani cinesi, prima giovani amanti, poi sposi, infine anime perse, come schegge impazzite nella falegnameria del mondo. La Cina sono io è un romanzo costruito come un puzzle, per cui bisogna attendere le pagine finali per comporre un quadro compiuto: un libro perfetto per le ore di riposo estivo sotto l’ombrellone perché sospeso nella prima parte tra la suspense del giallo e la leggerezza del romanzo sentimentale, quasi volesse trattenersi dal gettare lo sguardo sul baratro che – inevitabilmente – si spalancherà davanti ai protagonisti. Già, i protagonisti: ma chi sono davvero, in questo caleidoscopico mosaico?

Iona? Catapultata a Londra da una sperduta isola della Scozia, vive da freelance in una Londra decadente, che tutto e tutti macina nella sua corsa del fare. Senza provare interesse per legami sentimentali, apprezza solo fugaci incontri sessuali, descritti strizzando l’occhio al facile erotismo da supermercato ora in voga (verrebbe voglia di suggerire all’autrice Il libro di un uomo solo di Gao Xingjian, oltre che un classico quale L’amante di Lady Chatterley). Sembra trovare nella traduzione del manoscritto una nuova ragione per credere che fare emergere la verità nascosta nei sinogrammi (spesso abbozzati) dell’epistolario cinese sia un obiettivo nobile, sorgente di nuovo senso, raggio di sole della campagna inglese in un’esistenza giovane eppure già così grigia come i cieli scozzesi in un giorno d’autunno.

O il vero protagonista è Kublai Jian, l’autore della maggior parte delle lettere nelle mani di Iona? Musicista punk, cresciuto senza padre, idealista, coinvolto a suo modo nei fatti di Tian’anmen, Kublai (ma è il suo vero nome?) lascia Pechino, e dal manoscritto spuntano le sue tracce, in Inghilterra, e poi in Svizzera, in Francia, e infine a Creta. Che cosa lega tra loro queste località? Perché Kublai è così irrequieto? Perché non torna in Cina, a Shanghai dalla propria amata, lontana come la giovinezza irrimediabilmente perduta?

Forse la vera protagonista è proprio lei, Deng Mu, che ritroviamo accanto al letto del padre morente in un ospedale di Shanghai? Certo lei l’idealismo e la lotta politica di Kublai in fondo non li ha mai sopportati: o piuttosto il suo amore per la poesia non è che l’altra faccia della stessa medaglia? Ed è paradossalmente la poesia che la porta alla scoperta degli Stati Uniti e della sua ideologia: “Qui hai l’impressione di diventare importante se dedichi la vita a raggiungere i tuoi scopi. Forse è questa la differenza con la Cina. Noi sgobbiamo come muli per tutta la vita e non diventiamo nessuno” (p. 155). Laddove Cina e America si incontrano, il risultato scatena le ire e l’astio di Deng Mu: “Quindi questo è il New England. Questa è Harvard, e il nostro futuro: i laureati cinesi. L’istruzione di maggior livello per la massima stupidità. (…) Quanto pagano quei padri che hanno incarichi di alto prestigio nel governo per mandare i loro figli ignoranti in questa università? (…) Se i loro fogli vengono mantenuti in questo modo, non c’è da stupirsi che diventino così coglioni” (p. 208).

Allora il protagonista è forse il governo, lo Stato, il Leviathan del bellissimo recente film di Andrey Zvyagintsev, la struttura nata per proteggere gli individui dall’anarchia, e che ora li fagocita, li tritura, li rimpiazza per difendere il potere (diventato la sua stessa ragione di esistere), come si scaccia una mosca da una decorata torta di compleanno. C’è un anelito alla libertà dentro gli uomini, vorremmo tutti raccontare la nostra storia, ma dobbiamo fare i conti con la condizione umana, il nostro essere animali sociali, che ha bisogno delle storie degli altri per creare un ordine dentro e fuori di sé. E se l’ordine ci vuole identificare con lo Stato? Se il potere ci cancella e ci rende delle “non-persone”? “Una ‘non-persona’? «Non appartieni a nessun Paese; non sei cittadino di nessun luogo», gli ha spiegato il funzionario dell’immigrazione. Non-persona, pensa. È talmente assurdo che gli sembra quasi cinese” (p. 66). O anche africano, o asiatico, degli uomini, delle donne e dei bambini sbarcati in questi anni sulle coste del Mediterraneo.

Già, il mare azzurro di Creta… allora alla fine ti accorgi che il vero protagonista del romanzo è il colore, la sua vera forza la fotografa racchiusa in ogni frase, sempre breve come una semplice istantanea, che nella sequenza si fa film, è già sceneggiatura (nessuna sorpresa, per un’autrice che da regista ha vinto il Pardo d’Oro al Festival del Cinema di Locarno nel 2009 con il flm She, a Chinese): “Ora penso che quello probabilmente è stato uno dei giorni più felici della mia vita. Mi sono sentito libero. Ricordo il vento rinfrescante, il cielo infinito, i gabbiani spudorati che volteggiavano sopra la mia testa e poi si tuffavano in acqua e pescavano i pesci tra le onde… La natura era grande, quel giorno. Molto più grande della mia famiglia, della mia vita a Pechino, di tutto quello che mi avevano insegnato e costretto a imparare. Mi sarebbe piaciuto restare per sempre in quel momento. Gli appartenevo come la sabbia appartiene alla spiaggia, come i gabbiani appartengono al mare” (p. 327). Come questo libro all’illusione dell’estate.

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