[LA RECENSIONE] La Cina in dieci parole

Yu Hua La Cina in dieci parole Feltrinelli, Milano 2012

 

La parola è magia. Una sequenza di segni d’inchiostro sulla pagina bianca ha il potere a volte di trasportare il lettore sul set di un film e di farlo sentire partecipe di una storia lontana nel tempo, eppure così vicina all’anima, una storia apparentemente estranea ma in realtà universale. Il passato ingrigito improvvisamente acquista colore, vitalità e sentimento e, magicamente, anche il nostro presente diventa meno scintillante, e un po’ più partecipe dell’ordinario divenire dell’umanità. È così che ci si sente dopo avere letto – tutto d’un fiato – La Cina in dieci parole, di Yu Hua, l’osannato autore di best-seller mondiali quali Brothers e Arricchirsi è glorioso.

Come è possibile descrivere un universo in dieci parole, senza rischiare la semplificazione e la banalità? Tutto è molto più semplice, se l’universo è la Cina e le parole sono “come dieci paia di occhi con cui osservare il paese da prospettive diverse” (p. 11). Inoltre, basta osservare le parole scelte dall’autore (quali “popolo”, “leader”, “lettura”, “disparità”, “rivoluzione”, “taroccato”, “intortare”) per comprendere come semmai il rischio che si corre – ma che nel libro viene evitato, come diremo – è esattamente l’opposto: se ci sono sguardi troppo diversi, è difficile ricondurre il paesaggio ad unità.

Così, tra memorie, voci, aneddoti e ricordi personali seguiamo i piccoli e grandi protagonisti di cinquant’anni di storia cinese (Yu è nato nel 1960), alla ricerca di un fil rouge che tenga insieme le tessere di un variopinto grande mosaico in perenne stato di rifacimento, inseguendo un’interpretazione di ciò che spesso non riusciamo neppure a definire.

Che cosa descrive il termine “popolo”? Il vocabolo è morto su piazza Tian’anmen (“l’ultimo e definitivo sfogo di una passione politica che si era sedimentata durante la Rivoluzione culturale”, p. 16) e oggi è “smembrato” e “sbiadito”, frammentato nelle categorie che popolano la società (dagli internauti ai lavoratori migranti) al punto che “sono rimasti i funzionari ad avere il «popolo» sulla bocca”, mentre il popolo “lo sta dimenticando” (p. 13). Chi è il “leader”? La risposta per molto tempo è stata chiara per tutti i cinesi: Mao, il grande timoniere. Ma oggi la parola è svalutata ed esistono leader in tutti i campi: “con il senno di poi, mi viene da dire che in Cina non esistono più leader, ma dirigenti statali” (p. 28).

Per assaporare poi il nobile significato della parola “lettura”, basta ritrovarsi catapultati in fila in un villaggio alla riapertura della libreria dopo la fine della Rivoluzione culturale, sperando di riuscire ad acquistare una copia di Anna Karenina o di David Copperfield, banditi per anni come tanti altri classici. E ancora: la disparità è assenza di uguaglianza o uguaglianza nelle assenze (“ignorare la povertà è ben più tremendo della povertà stessa”, p. 134)? E se la Cina fosse condannata agli opposti, dall’“oppressione” all’assenza di moralità? “Come l’altalena, se si spinge in alto da un lato, volerà alta anche dall’altro” (p. 121). D’altronde, non possiamo nemmeno chiedere lumi al vocabolo “taroccato” (shanzhai), per sua stessa natura ingannevole e bugiardo, che rende falso il vero e una vera e ammirata truffa il falso, e la cui diffusione e accettazione ha reso la società cinese “grottesca”, una società dove convivono “bellezza e oscenità, progresso e arretratezza, rigore e depravazione” (p. 194). L’arte di “intortare” (huyou) il prossimo sembra essere così raffinata in Cina che Yu Hua avverte: “quando l’imbroglio s’imporrà come stile di vita, tutti ne faremo le spese” (p. 222).

Mentre scorrono le pagine, si osserva che una delle dieci parole s’insinua sempre a indispettire le altre, occupando lo spazio in teoria a loro riservato, e così facendo ci svela quel fil rouge che stiamo cercando dalla prima pagina: è “Rivoluzione”. Nelle sue varie accezioni – proletaria, culturale, economica, essa condensa le apparenti contraddizioni della Cina. Se le Guardie rosse rubavano i timbri del partito a suon di manganellate, oggi i litigiosi dirigenti di molte aziende si contendono con eguale impeto furioso questi simboli del potere. La violenza si riscontra tanto nell’ossessione maoista per la crescita all’epoca del “Grande balzo in avanti” quanto nel modo spietato con cui le autorità locali fanno oggi demolire nelle città le vecchie abitazioni. Esistono “analogie sconvolgenti” tra Rivoluzione culturale (che ha segnato l’infanzia dell’autore) e riforme economiche: al “furore rivoluzionario” si è sostituita solo “la follia dell’arricchimento” (p. 197). Gli episodi più toccanti del libro sottolineano l’uguale drammaticità di alcune situazioni familiari in contesti storici tanto diversi quali gli anni ’70 e gli anni 2000.

L’esperienza del dolore finisce così per pervadere tutto il testo, con un sottile velo di comica malinconia, legata forse al ricordo dell’infanzia perduta (“non avevamo niente, in pratica, però il cielo era di un bell’azzurro”, p. 121) o forse alla constatazione che il dinamismo tumultuoso della Cina suscita in ogni epoca aspettative talmente elevate da andare inevitabilmente deluse, all’interno come all’esterno del paese. Perché d’altronde gli scienziati sociali si applicano allo studio della Cina contemporanea con tanto interesse? Non è forse perché questo paese più di altri negli ultimi sessant’anni è stato un immenso laboratorio, un gigantesco esperimento che nella sua densità di storia delle masse e di storie degli individui amplifica la grandezza, la bellezza e l’orrore dell’esperienza umana? È per questo che la Cina costringe a interrogarsi, ci fa guardare dentro. Più che raccontare la Cina in dieci parole, Yu Hua mostra l’umanità – la nostra umanità – racchiusa in una grande lacrima.

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