[LA RECENSIONE] Il risveglio del drago. La minaccia di una Cina senza strategia

Edward N. Luttwak Il risveglio del drago. La minaccia di una Cina senza strategia Milano, Rizzoli, 2012

 

Confesso di non avere mai sopportato Edward Luttwak, almeno nella sua versione di maschera televisiva, aggressivamente pronto a sostenere la (presunta) logica ferrea delle sue argomentazioni, di fronte a interlocutori apostrofati come “anime belle” che coltivano pie (e pericolose) illusioni sulla bontà della natura umana e sulla pace tra le nazioni. Non mi ha mai convinto. Quando però inciampi in un suo libro che inizia con un’affermazione di modestia – “È da stratega e non da sinologo che affronto il fenomeno della Cina di oggi” (p. 7) –, allora capisci che è giunto il momento di prenderlo in più seria considerazione. La logica della strategia applicata alla Cina del XXI secolo (il titolo originale dell’opera è The Rise of China vs. the Logic of Strategy) costituisce dunque l’oggetto di questo recente lavoro di uno degli analisti americani più noti al mondo per le sue posizioni di “realista determinista”. Diciamolo subito: se si accettano i principi fondamentali dell’analisi realista (importanza dell’anarchia nelle relazioni internazionali, ricerca dei guadagni relativi, pessimismo antropologico, supremazia della strategia sulla politica e sull’economia), non c’è scampo. L’ascesa della Cina non può che rappresentare un elemento di disturbo dell’ordine mondiale, da gestire adottando serie contromisure contro Pechino, allo scopo non solo di evitare un conflitto sicuro (di cui è ignoto semplicemente il momento di innesco), ma anche di potere difendere l’egemonia americana.

Ancora una volta, il problema della Cina è rappresentato dalle sue dimensioni gigantesche, che incutono timore e che impediscono a Pechino di continuare a perseguire crescita economica, rafforzamento militare e aumento dell’influenza globale, senza suscitare la reazione dei vicini regionali e delle grandi potenze: “È la logica stessa della strategia a dettare l’impossibilità di progressi simultanei in tutti e tre i campi: inevitabilmente, il potenziamento militare della Cina sta già suscitando reazioni (…). Tali reazioni a loro volta stanno già ostacolando, e lo faranno sempre più, il contemporaneo progresso nei tre ambiti – economico, militare e diplomatico –, sia pure certamente in diversa misura” (p. 92). Come l’ascesa della Germania guglielmina provocò la nascita di una coalizione anti-egemonica che trascinò Berlino alla sconfitta della Prima guerra mondiale, così il libro mostra in questa chiave l’azione di tessitura (o di ricucitura) dell’alleanza con gli Stati Uniti di Australia, Giappone, Vietnam, Indonesia, Filippine, soprattutto a partire dal 2008-2010, anni in cui la “prepotente e malaccorta politica estera cinese” (p. 178) ha iniziato a compiere una serie di passi falsi. Tra i vicini dell’Asia orientale fa eccezione il comportamento di accettazione della supremazia cinese (secondo lo schema del Tianxia) della Corea, che sarebbe vittima, con le sue “parole lamentose”, di “escapismo strategico” (p. 164).

Non finirà in realtà come nel 1914, perché la dissuasione nucleare non consente la ripetizione di quella tragedia, ma certo assisteremo alla nascita di un mondo “Cina/anti-Cina”, in cui sarà necessario anche ricorrere a misure di “contenimento geo-economico” (lode perciò all’azione diplomatica di Hillary Clinton), con buona pace dei liberali (Luttwak critica Timothy Geithner, tra gli altri) che idolatrano il libero commercio: “È soltanto nella versione omerica della guerra di Troia che eroici guerrieri (…) lottano per graziose prigioniere, argento e armature cesellate, invece che per cose molto più sgradevoli come ideologie, coercizioni politiche o anche aspirazioni dittatoriali personali” (p. 153). Se possibile, questo esito sarà accelerato dalla propensione cinese – espressione di un universale “autismo delle grandi potenze” – a trattare i conflitti interculturali con gli strumenti e le astuzie utilizzati storicamente per risolvere guerre intra-culturali (esplicito è il riferimento agli Stati combattenti e a L’arte della guerra di Sunzi).

Grazie all’usuale caustica schiettezza che lo caratterizza, al punto talvolta da suscitare ilarità – si vedano ad esempio espressioni come le “futili bevute di tè in Afghanistan” degli Stati Uniti (p. 93), o la “pagliacciata della monarchia” in Marocco (p. 216), e frasi quali “dove ci sono le schifezze ci sono i soldi, mentre i cieli puliti rallentano la crescita” (p. 229), e “mentre i generali Han erano indaffarati a citarsi Sunzi a vicenda” gli uomini delle steppe li sconfiggevano (p. 89) – l’autore riesce a tenere sempre alta la tensione della lettura, mentre convince sempre più mano a mano che ci si avvicina alle spietate conclusioni. Confesso perciò che continuo a non sopportare Luttwak, ma ora per il motivo diametralmente opposto, oltre che ovviamente… per avere definito “inguardabile” (p. 80) il film Hero, un capolavoro rappresentante la sublime sintesi dell’opera del regista Zhang Yimou, prima che egli portasse alle estreme (disastrose) conseguenze, nel trionfo estetizzante de La città proibita, la sua mirabile ricerca sul colore.

P.S.: È manifestazione di ingenuità chiedere ai direttori editoriali italiani di evitare di voler mettere a tutti i costi nei titoli dei libri sulla Cina contemporanea le parole “drago”, “dragone”, o le loro varianti? Non è poi detto che servano a vendere più copie, ma in compenso rischiano di fare apparire banale il contenuto di un volume anche quando non lo è.

Published in:

  • Events & Training Programs

Copyright © 2024. Torino World Affairs Institute All rights reserved

  • Privacy Policy
  • Cookie Policy