La Grand Strategy della Cina oltre Deng

Una preoccupazione diffusa tra gli esperti che seguono la politica della Cina contemporanea riguarda la possibilità che, compiutasi la sua ascesa, essa possa trasformarsi in una superpotenza arrogante e aggressiva, con pericolose implicazioni per la sicurezza internazionale. Le autorità cinesi non perdono occasione per assicurare che il ritorno della Cina a una posizione di primo piano a livello globale sarà un processo pacifico, ma ciò non sembra attenuare il senso di minaccia avvertito da più parti.

Ma come si è comportata la Cina nel passato, quando ha vissuto simili fasi di ascesa? Guardando alle guerre internazionali (non ai conflitti civili interni) combattute dalle nove dinastie Han durante l’età imperiale si notano alcuni aspetti interessanti. Stando agli “Annali delle guerre nella Cina antica” (Zhong Guo Li Dai Zhan Zheng Nian Biao, Pechino, Casa editrice dell’Armata popolare di liberazione, 2003) il comportamento strategico cinese è stato caratterizzato da un relativamente basso tasso di ricorso alla violenza. Specificamente, delle 922 guerre combattute dalle suddette dinastie, solo 182 sono state intraprese dalla Cina in chiave offensiva, meno del 20%. Secondo alcuni analisti queste regolarità valgono anche nell’attuale fase di ascesa della Repubblica popolare cinese: è poco probabile che Pechino dia avvio a conflitti armati. Secondo questa lettura, la teoria dei cicli egemonici e della transizione di potenza non avrebbe alcuna capacità predittiva sul futuro comportamento strategico cinese.

A un esame più approfondito, tuttavia, i dati contenuti negli “Annali” raccontano anche altre storie, ad esempio quelle delle dinastie degli Han occidentali, o dei Tang. La prima, fondata nel 202 a.C., si confrontò con la ben più consolidata potenza dei vicini Unni, nei confronti dei quali la corte imperiale dovette attuare per decenni una politica di appeasement a base di tributi e matrimoni dinastici. Solo sessant’anni dopo, avendo accresciuto la propria potenza nazionale con cautela e discrezione, l’impero Han raggiunse una forza economica e militare sufficiente a lanciare una serie di campagne su vasta scala che sconfissero gli Unni, dando alla Cina l’egemonia regionale. I Tang perseguirono una strategia analoga 800 anni dopo, sconfiggendo i nemici sui confini settentrionali dopo aver in un primo tempo addirittura accettato una condizione di vassallaggio formale nei loro confronti.

Non è del tutto fuori luogo tracciare un parallelo tra l’atteggiamento che la Cina di queste due dinastie ha tenuto nei confronti dei propri avversari e il comportamento che la Cina odierna adotta nei confronti del suo unico grande competitor, gli Stati Uniti. La storia degli Han occidentali e dei Tang ci racconta di una Cina che, crescendo in ricchezza e potenza, diviene revisionista e punta a un ruolo egemone, almeno nella propria regione. Nella situazione attuale il monito di Mao a “non perseguire mai l’egemonia” suona quantomeno ipocrita, mentre la dottrina taoguang yanghui (“mantenere un basso profilo”) appare anacronistica e prossima al superamento. C’è una possibilità non remota che essa sia sostituita da un atteggiamento più assertivo man mano che la continua ascesa della potenza cinese renderà sempre meno necessario per Pechino nascondere le nuove capacità acquisite. La competizione tra le potenze che ne scaturirà potrà avere un carattere più o meno pacifico. Dipenderà naturalmente anche dal comportamento degli altri attori del sistema internazionale.

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