La dimensione people-to-people nella Belt & Road Initiative: come un pubblico strategico cinese percepisce l’Italia

Dinamiche politico-elettorali permettendo, il 2017 si annuncia particolarmente significativo per le relazioni Italia-Cina. Mentre volge al termine un delicato ciclo politico in entrambi i paesi – la XVII legislatura in Italia e il XVIII Comitato centrale nella Repubblica popolare –, sono in calendario passaggi importanti in una fase di notevole esposizione internazionale per Roma, che torna a sedere nel Consiglio di sicurezza Onu proprio mentre assume la presidenza del G7 e si accinge a ospitare il vertice UE in cui i 27 paesi membri dovranno delineare il futuro dell’Unione a 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma.

Ad aprire la sequenza di appuntamenti istituzionali è la visita di Stato in Cina del Presidente della Repubblica Mattarella nel mese di febbraio, pietra miliare lungo la “Road to 50” delineata dall’Ambasciata d’Italia a Pechino per stimolare il raggiungimento di traguardi ambiziosi nei rapporti bilaterali in vista dei 50 anni dalla normalizzazione delle relazioni diplomatiche che ricorrono nel 2020. Al viaggio del Capo dello Stato è previsto facciano seguito una nuova riunione del Comitato governativo Italia-Cina e della Commissione mista bilaterale, mentre il Belt and Road Forum for International Cooperation convocato dal Presidente cinese Xi Jinping a maggio potrebbe essere l’occasione per il primo passaggio di Paolo Gentiloni a Pechino nelle vesti di Presidente del Consiglio.

L’Italia resta in effetti uno dei terminali più significativi della proiezione cinese verso la regione euro-mediterranea, un orizzonte strategico per Pechino sia in chiave politica, sia in termini economico-commerciali e di sicurezza (anzitutto energetica), anche alla luce di possibili aggiustamenti della politica commerciale statunitense in senso protezionista.

Se l’interscambio commerciale bilaterale continua a presentare una chiara asimmetria, con oltre 13 miliardi di euro di disavanzo a carico dell’Italia (pur in presenza di una crescita delle esportazioni italiane in Cina che si stima sia stata nel 2016 superiore alla media, a fronte di un decremento delle importazioni in linea con la media) (1), sul versante degli investimenti nel periodo 2000-2016 lo stock di investimenti diretti esteri in Italia provenienti dalla Cina è salito a circa 13 miliardi, facendo del Bel paese la terza destinazione europea di investimenti cinesi dopo Regno Unito e Germania (2). L’irrobustimento della rete diplomatica italiana in Cina è un segnale eloquente di sostegno a questa dinamica, che si va traducendo anche in un rapido incremento dei flussi turistici: 5,3 milioni di presenze hanno fatto della Cina il quarto mercato di provenienza di turisti in Italia nel 2015.

Alla luce di questi dati è opportuno interrogarsi sul grado di consenso su cui può fondarsi l’approfondimento delle relazioni bilaterali. Il tema è quanto mai sensibile sul versante italiano: nell’ultima rilevazione annuale del Pew Research Centre l’Italia risulta, con la Francia, il paese europeo il cui pubblico ha l’opinione più sfavorevole della Cina (il 61%, contro poco più del 30% che dichiara di averne un’opinione favorevole), e il secondo tra le 40 nazioni oggetto dell’indagine, alle spalle del solo Giappone (86% sfavorevole, Figura 1). Sebbene il dato sia in calo rispetto al picco raggiunto nel 2014 (70% di opinioni sfavorevoli, di cui il 30% “molto sfavorevoli”), è significativo che la maggioranza assoluta dei rispondenti mostri un atteggiamento di freddezza nei confronti della Cina ogni anno sin dalla prima rilevazione nel 2007. Altri studi confermano questa tendenza (3).

 

Quali invece le percezioni che l’opinione pubblica cinese ha dell’Italia? In mancanza di statistiche generali sul tema, un primo contributo alla frontiera della ricerca sui rapporti people-to-people fa riferimento all’analisi delle opinioni di un “pubblico strategico” per le relazioni sino-italiane: gli studenti cinesi impegnati in un corso di laurea focalizzato sull’Italia. Si tratta evidentemente di un segmento della società cinese che si candida a giocare un ruolo di primo piano nell’approfondimento dei legami tra i due paesi, avendo investito il proprio futuro sull’acquisizione di conoscenze linguistiche e competenze lato sensu culturali non facilmente trasferibili ad altri contesti (a differenza dei codici riferibili al mondo anglosassone o ispanico, ad esempio). Al crescere della presenza di interessi e iniziative cinesi in Italia – dinamica di molto acceleratasi a partire dal 2014 in particolare nel settore corporate – è presumibile (e invero auspicabile) che si replichi il modello già da tempo invalso nelle rappresentanze diplomatiche cinesi in Italia, dove figure apicali non necessariamente formate in modo specialistico sul paese possono contare su una nutrita squadra di funzionari provenienti dalle migliori scuole cinesi di studi italiani (4).

Al dicembre 2016 nella Repubblica popolare cinese risultavano essere 24 le università abilitate a offrire un corso di laurea focalizzato sull’Italia a livello bachelor (laurea di primo livello, di durata quadriennale), principalmente con taglio umanistico, mentre in otto atenei vi era la possibilità di proseguire con un Master triennale (equivalente alla laurea magistrale italiana). Anche in ragione dei rigidi vincoli imposti dal Ministero dell’istruzione cinese al reclutamento degli studenti nei diversi corsi di laurea, si può stimare che il numero totale di studenti universitari cinesi impegnati in studi dedicati principalmente (5) all’Italia non superi le 2.200 unità. La ricerca da cui sono tratti i seguenti dati è stata svolta sotto forma di inchiesta campionaria (6), interrogando, mediante un questionario auto-compilato in aula alla presenza dell’autore, un campione di 443 individui, pari dunque a circa il 20% del totale degli studenti impegnati in studi sull’Italia (7).

Un primo dato di rilievo è che soltanto il 61% dei rispondenti afferma di aver consapevolmente scelto lo studio dell’Italia [Q2b]. Per gli altri si è trattato di una scelta “di riserva”, in molti casi dettata dall’Università nel momento in cui vengono allocati i posti nei diversi Corsi di laurea – dai più ai meno ambiti – scorrendo le graduatorie degli studenti ammessi (Figura 2).

Sebbene il numero assoluto di studenti cinesi impegnati primariamente in studi sull’Italia sia modesto, da questi dati si può inferire come l’offerta garantita dagli atenei cinesi superi comunque la domanda, o quantomeno la domanda “di qualità” (l’accesso agli atenei cinesi, primo passaggio per l’iscrizione a un corso di laurea, tende a essere molto selettivo).

Indipendentemente dalle motivazioni che hanno portato i rispondenti a intraprendere il proprio percorso di studi, il campione presenta un’opinione pressoché unanimemente positiva rispetto all’Italia (Figura 3), che corrisponde alla solida percezione delle relazioni bilaterali come improntate a un rapporto di partenariato (Figura 4).

Sebbene in linea con le attese, il dato non è meno rimarchevole, soprattutto in considerazione del fatto che i rispondenti appaiono sensibili alle implicazioni dell’interazione con culture straniere, e mostrano di aver interiorizzato le preoccupazioni espresse ancora di recente dai vertici del Partito-Stato cinese rispetto al rischio di “contaminazione” culturale posto dai valori occidentali (Figura 5). Questo non significa che il campione presenti un particolare afflato nazionalistico (Figura 6) (8): piuttosto, è evidente come il sentimento favorevole all’Italia sia correlato a un analogo sentimento verso l’Unione europea in modo più significativo di quanto non accada per Stati Uniti, Russia o altri paesi nel vicinato della Rpc (Figura 7).

L’opinione molto favorevole dell’Italia – che si riflette negli aggettivi maggiormente associati alla popolazione italiana [Q3m], ritenuta “accogliente” (85,4%), “elegante” (44,9%) e “generosa” (42,7%), pur se “disorganizzata” (30,3%) – non si traduce peraltro in facile ottimismo sulla situazione economica italiana, o sui problemi più sostanziali che toccano le relazioni bilaterali. Sottoposti a domande di controllo per verificare conoscenze di base che ne facciano un pubblico informato, il campione risponde per oltre l’80% correttamente a tre domande su quattro, con l’eccezione della dimensione del Pil italiano: soltanto un terzo dei rispondenti riconosce l’economia italiana come una delle maggiori 10 al mondo, mentre l’opinione sul futuro economico dell’Italia è alquanto articolata, con il 40% del campione relativamente pessimista a riguardo (Figura 8). Ciò non si traduce nella percezione che manchino opportunità: l’84% dei rispondenti prevede che l’Italia avrà un ruolo nel proprio futuro professionale (Figura 10), con il 10% che si trasferirebbe in Italia in via definitiva e il 35% che vi trascorrerebbe almeno un periodo di lavoro prima di rientrare in Cina (Figura 11).

Infine, alla critica sovente espressa dall’opinione pubblica italiana sulla concorrenza “sleale” dell’economia cinese, la maggioranza del campione reagisce sottolineando le particolari condizioni di sviluppo della Rpc (Figura 9). Peraltro la percentuale di coloro che considerano questa critica come parte di un’agenda volta a ostacolare la crescita della Cina equivale a quella di quanti riconoscono invece che il proprio paese deve migliorare ulteriormente il suo modello di sviluppo. Le risposte riguardo all’indirizzo della politica estera cinese (Tabella 1) ripropongono tale dialettica: a quanti auspicano un’agenda orientata alla comprensione reciproca e alla cooperazione internazionale (50,4%) fanno da contrappunto i sostenitori di una più assertiva promozione degli interessi e dei valori cinesi (39,3%).

(1) Dati riportati dall’Osservatorio economico sul commercio internazionale del Ministero dello Sviluppo economico (http://www.sviluppoeconomico.gov.it), ultima consultazione 6 febbraio 2017.

(2) Thilo Hanemann e Mikko Huotari, “Record flows and growing imbalances. Chinese investments in Europe in 2016”, MERICS papers on China 3 (gennaio 2017), https:// www.merics.org/en/merics-analysis/papers-on-china/cofdi/cofdi2017/.

(3) Italy’s Encounters with Modern China. Imperial Dreams, Strategic Ambitions, a cura di Maurizio Marinelli e Giovanni Andornino (New York: Palgrave Macmillan, 2014), cap. 7

(4) All’inizio del 2017, ad esempio, presso l’Ambasciata della Rpc in Italia un terzo dei diplomatici in servizio risultava in possesso di almeno una laurea di primo livello in studi italiani.

(5) Ai fini di questa ricerca non sono considerati i Corsi di laurea in cui gli studi sull’Italia compaiono in posizione ancillare (“minor”) all’interno del piano formativo.

(6) Questa ricerca è stata sostenuta dal Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino (Fondi per la ricerca locale 2014) e dal programma Global China del Torino World Affairs Institute; l’attività di ricerca sul campo è stata svolta negli anni 2014-2016. La ricerca è stata condotta presso nove atenei in cinque diverse province/municipalità autonome nel nord-est, centro (fascia costiera ed entroterra occidentale) e sud della Repubblica popolare cinese. Un particolare ringraziamento va ai colleghi che hanno agevolato e co-supervisionato la somministrazione del questionario: l’accesso al campo per lo svolgimento di attività di ricerca, in particolare nel contesto scolastico e universitario, è eccezionalmente complesso e raro per studiosi stranieri.

(7) L’età media degli intervistati – per l’85% di sesso femminile – è appena sotto i 20 anni e risultano rappresentate nel campione tutte le province del paese salvo Ningxia, Qinghai e le Regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao, con una prevalenza di Guangdong (15,6%), Zhejiang (14,9%), Chongqing (9%) e Jiangsu (7,2%). Il 19% del campione ha soggiornato in Italia almeno una volta, a fronte di un 62% che non ha mai viaggiato al di fuori della Cina.

(8) Il sostegno acritico alla condotta del governo è ampiamente utilizzato come indicatore di sentimento nazionalistico: i risultati di questa ricerca convergono con quanto evidenziato dal principale survey multi-indicatore volto al rilevamento del sentimento nazionalista nella città di Pechino (BAS – Beijing Area Study, a cura del Research Center for Contemporary China della Peking University): si veda Alastair Iain Johnston, “Is Chinese Nationalism Rising? Evidence from Beijing,” International Security 41 (2017) 3: 17-22.

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