La Cina e il peacekeeping: una “potenza responsabile”?

Durante il suo discorso per il settantesimo anniversario della fondazione delle Nazioni Unite, il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che la Cina è pronta a rafforzare il proprio coinvolgimento nelle attività di peacekeeping sotto egida Onu. Ciò avverrà attraverso la creazione di una forza d’emergenza di 8mila soldati e un contributo finanziario all’Onu pari a un miliardo di dollari per i prossimi dieci anni. L’annuncio non arriva del tutto inaspettato, se si considera la crescita costante del contributo cinese alle missioni di peacekeeping negli ultimi anni. Attualmente la Repubblica popolare cinese contribuisce alle missioni Onu con 173 ufficiali di polizia, 29 osservatori militari e 2.838 soldati dispiegati in Africa e Medio Oriente. Con questi numeri, la Cina risulta oggi il principale contributore nazionale di peacekeeper fra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. A ciò si aggiunga che la Cina fornisce il 6,64% del budget per il peacekeeping, poco meno del Regno Unito (6,68%) e significativamente di più dell’Italia (4,45%).

L’atteggiamento cinese verso le missioni di peacekeeping non è però sempre stato così positivo. Nei primi anni Cinquanta, forze cinesi combatterono nella guerra di Corea contro la missione Onu a guida americana. La feroce opposizione cinese nasceva dalla rigida e inflessibile interpretazione dei concetti di sovranità nazionale e di non interferenza: la Rpc temeva infatti che si stessero creando i presupposti per un intervento contro di essa da parte delle potenze occidentali. Anche dopo che Pechino fu ammessa alle Nazioni Unite nel 1971 la posizione cinese nei confronti del peacekeeping rimase quantomeno cauta, se non apertamente ostile. Il primo segno di un reale cambiamento giunse nel 1981, quando la Cina votò a favore dell’estensione della Forza di peacekeeping delle Nazioni Unite a Cipro (Unfcyp). Entrare a far parte della Commissione speciale per le operazioni di peacekeeping nel 1988 fu per la Cina l’ultimo passo prima della partecipazione attiva a una missione. L’anno successivo, venti ufficiali dell’Esercito popolare di liberazione (Epl) prendevano parte alla UN Truce Supervision Organization (Untso) in veste di osservatori. Le prime unità militari coinvolte attivamente nel peacekeeping furono 400 ingegneri militari accompagnati da 49 osservatori, fra il 1992 e il 1993 in Cambogia. Ufciali di polizia sono stati inoltre inviati in missioni di peacekeeping fin dal 1999, anno in cui i primi poliziotti cinesi parteciparono alla UN Transitional Administration in East Timor (Untaet). Nel 2000 è toccato alla Polizia armata del popolo selezionare alcuni suoi ufficiali per indossare i caschi blu e partecipare alla loro prima operazione di peacekeeping (ancora una volta all’interno di Untaet).

Nel tempo non è aumentato soltanto il numero degli ufficiali cinesi che hanno partecipato a missioni di peacekeeping (a novembre 2014 avevano raggiunto il totale di 27mila), ma anche la rilevanza degli incarichi loro assegnati. L’aspetto più evidente è il numero crescente di unità da combattimento assegnate ai contingenti cinesi di peacekeeper. Già nel 2006 – stando alle dichiarazioni (in cinese) dell’allora vice capo di Stato maggiore, generale Zhang Qinsheng – la Cina si era detta disponibile a schierare unità combattenti in Libano, ma l’Onu aveva declinato l’offerta. Nel 2010 Tao Xiangyang (allora vice direttore dell’Ufficio per le missioni di peacekeeping del Ministero della Difesa cinese) confermò nuovamente la disponibilità di Pechino a contribuire con truppe da combattimento, qualora l’Onu ne avesse fatto richiesta. Fu però solo nel 2012 che un primo ridotto distaccamento – circa 50 fanti della 162a divisione di fanteria meccanizzata proveniente dal 54° Corpo d’armata – è stato assegnato a protezione dei circa 350 medici e ingegneri militari dell’Epl impegnati nella UN Mission in South Sudan (Unmiss). Non avendo tuttavia altri ruoli all’interno della missione, questo distaccamento non viene ufficialmente considerato come il reale, primo contributo di unità combattenti alle missioni di peacekeeping. Tali sono stati invece considerati i 170 fanti del 16° Corpo d’armata (in cinese) provenienti dalla Regione militare di Shenyang e assegnati alla UN Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (Minusma). Il contingente (in cinese) è formato inoltre da 155 ingegneri e 70 medici militari. L’anno successivo, 700 fanti provenienti dal 26° e 54° Corpo d’armata della Regione militare di Jinan – fra i quali si annoverano alcune unità storiche (in cinese) dell’Epl, come le compagnie “Hongyi lian” e “Liulaozhuang lian” – sono andati ad aggiungersi al contingente cinese già operativo in Unmiss. I peacekeeper cinesi sono equipaggiati con missili anti-carro, droni per la sorveglianza, mortai e veicoli blindati per il trasporto.

Il crescente coinvolgimento cinese nelle operazioni di peacekeeping ha due motivazioni. In primo luogo, esso rappresenta una fonte importante di prestigio e influenza per un paese che si vede sempre più proiettato al centro delle relazioni internazionali, ma le cui capacità militari sono viste con timore e sospetto dai vicini asiatici e dagli Stati Uniti. L’attuale approccio cinese al peacekeeping è quindi un tentativo di rispondere a quella che i media cinesi chiamano “teoria della minaccia cinese” (Zhongguo weixie lilun, 中国威胁理论), cioè l’idea che la Cina voglia usare la propria forza militare ed economica per sovvertire l’ordine internazionale esistente. Allo stesso tempo, questo entusiasmo è controbilanciato dall’enfasi sul consenso offerto dal governo del paese in cui la missione ha luogo. Infatti, nemmeno il concetto di “coinvolgimento creativo” (chuangzaoxing jieru, 创造性介入) – che è stato proposto da Wang Yizhou, professore all’Università di Pechino, ed è spesso citato come esempio di crescente flessibilità nella politica estera cinese – arriva a mettere in discussione il principio di non interferenza, che ha garantito alla Cina il vitale sostegno diplomatico dei paesi in via di sviluppo quando si è trattato di ottenere il seggio di membro permanente del Consiglio di sicurezza Onu. La Cina si presenta quindi come una “grande potenza responsabile” (fu zeren daguo, 负责任大国), disponibile a contribuire alla sicurezza del mondo e rispettosa della sovranità di tutti i paesi.

La seconda ragione per cui Pechino attribuisce grande importanza al peacekeeping è che esso, così come la partecipazione alle scorte navali nel Golfo di Aden, offre alle Forze armate cinesi preziose occasioni per acquisire esperienza operativa e testare nuovi equipaggiamenti, in situazioni che si avvicinano quanto più possibile alla realtà di un confitto armato. Il peacekeeping – insieme ad altri tipi di operazioni come il soccorso in caso di calamità naturali, l’antiterrorismo e la lotta alla pirateria – viene catalogato come “operazione militare diversa dalla guerra”. Benché sia chiaro che combattere e vincere guerre su scala regionale resta la priorità dell’Epl, esiste un sostanziale consenso (in cinese) sul fatto che le capacità necessarie a condurre efficacemente operazioni militari diverse dalla guerra – per esempio sostenere il dispiegamento di contingenti armati all’estero per periodi prolungati e ottimizzare l’integrazione fra le forze di mare, terra e aria – siano vitali anche per la conduzione di operazioni belliche.

Sebbene con l’attuale dirigenza cinese guidata da Xi Jinping l’enfasi sulla prontezza al combattimento sembri aver eclissato la diversificazione delle missioni militari delineata negli anni di Hu Jintao, il peacekeeping resta insostituibile per l’Epl come occasione di dimostrare e rafforzare le proprie capacità, agendo da deterrente per eventuali minacce. Le parole di Xi Jinping alle Nazioni Unite confermano inoltre un impegno cinese di lungo termine, con una visione multilaterale della sicurezza internazionale.

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