La Cina e il bail-out del Pakistan: il peso degli investimenti di Pechino nello sbilanciamento di Islamabad

La preoccupante situazione di sicurezza che il Pakistan fronteggia con l’India negli ultimi mesi non è il solo nodo che il governo di Islamabad deve sciogliere con una certa urgenza. La notizia della probabile necessità per Islamabad di chiedere l’intervento del Fondo Monetario Internazionale (FMI) a sostegno della propria economia ha scosso il panorama geoeconomico dell’Asia meridionale e del Sud-est asiatico a partire da questa estate. Il riscontro formale alle indiscrezioni e alle mezze ammissioni del Pakistan si è avuto nella prima settimana di ottobre, quando il neoeletto governo di Imram Khan ha avviato la procedura di bailing out, ma solo nel febbraio appena trascorso vi è stata una decisiva intesa tra il Primo Ministro della Repubblica islamica e l’organo di vertice del FMI. La situazione pakistana, che avrebbe altrimenti rasentato il default è stata comunque mitigata da un totale di circa sei miliardi di dollari di prestiti ricevuti da alcuni Paesi arabi (Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti), oltre a una sostanziale proroga da parte del regno saudita per i pagamenti delle forniture di petrolio.

L’instabilità economica della Repubblica islamica è un interessante caso di studio dal momento che il Pakistan, come altri Paesi asiatici, è stato interessato da significativi investimenti diretti da parte della Cina e che proprio tali investimenti potrebbero essere la principale causa dello sbilanciamento pakistano.

Gli investimenti diretti cinesi potrebbero aver contribuito allo sbilanciamento pakistano in modo più o meno elevato e diviene rilevante comprendere se e in che misura questo è avvenuto proprio in relazione al fatto che alcune economie in crescita del Sud-est asiatico hanno visto un certo incremento degli Investimenti diretti esteri (IDE) cinesi negli ultimi anni.[1] Quanto avvenuto in Pakistan, se largamente dipendente dagli IDE cinesi, potrebbe, con ragionevole probabilità, riproporsi in vari Paesi ASEAN. Gli investimenti cinesi negli ultimi nove anni sono aumentati massicciamente ad esempio nello Sri Lanka, in particolar modo a partire dal 2017, e in Malaysia. Dopo aver analizzato l’impatto degli IDE della Repubblica Popolare Cinese (RPC) in Pakistan e prima di giungere alle conclusioni cercheremo di evidenziare quale effetto stiano sortendo gli IDE di Pechino nei Paesi sopracitato.

 

Il panorama degli investimenti cinesi nell’Asia meridionale e la speciale relazione con il Pakistan

Se il Pakistan in generale ha sempre costituito un punto focale degli investimenti cinesi (in virtù della pluridecennale alleanza tra i due Stati) è anche vero che il volume dello sforzo di Pechino in termini di IDE è divenuto notevole, pur mantenendo un andamento altalenante, solo a partire dal 2006.[2] L’annata record precedente al dodicesimo Piano quinquennale cinese del 2010 rimane quella da giugno 2006 a giugno 2007, quando la Cina ha corrisposto a Islamabad il 14% del totale degli IDE sul suo territorio.[3]

Come rappresentato nella tabella seguente, le annate che vedono il più significativo aumento dell’impegno di Pechino sono le più recenti: 2015-2016 e 2016-2017, quando gli IDE hanno raggiunto rispettivamente 1063,6 e 1281 milioni di dollari.

Nel 2006-2007 l’investimento è stato più consistente rispetto agli altri anni per via del Free Trade Agreement (FTA) entrato in vigore tra i due Paesi in quegli anni. Tale tendenza rispecchia una direttiva della politica economica cinese di puntare in maniera pronunciata su Paesi con i quali intrattiene forti relazioni commerciali. L’FTA proponeva un aumento esponenziale del commercio tra i due Paesi, risultato che ha ottenuto solo in parte. Nonostante ciò, Pechino, per sostenere l’iniziativa, ha portato avanti una politica di supporto dei mezzi di produzione pakistani.

La crescita dell’investimento nel 2013-2014 è invece frutto dell’iniziativa conosciuta come China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), ovvero il progetto di collegamento fisico fra l’arteria terrestre che collega la Cina e i mercati occidentali, in particolare europei, e quella marittima. Il tanto reclamizzato sforzo infrastrutturale di Pechino, teso a costruire le cosiddette One Belt, One Road (recentemente trasformatesi in Belt and Road, BRI) è coronato dall’arteria di collegamento CPEC che passerà in gran parte sul territorio della provincia del Belucistan e che ha causato un sostanziale incremento di IDE cinesi sia sotto forma di realizzazione di strutture gestite da imprese cinesi sia sotto forma di prestiti per la realizzazione di infrastrutture. La BRI ha determinato una ricaduta positiva in termini di investimenti di proporzioni macroscopiche[4] per i Paesi direttamente toccati dalle infrastrutture e indirettamente interessati, coinvolgendo anche la Russia (gigante geopoli- 4 Maçães, B. (2018), “China and India: The Struggle for Mastery in Eurasia”, Insight Turkey, 20 (1). Persistent rise of China Global Challenges and regional dynamics, SET VAKFI İktisadi İşletmesi, pp. 13-24. tico dell’area), ed è quindi naturale che lo squilibrio pakistano venga immediatamente messo in relazione con l’investimento in ambito BRI. Tuttavia, se si analizza con accuratezza il caso, il peso dell’iniziativa cinese potrebbe essere relativo se messo a sistema con altri fattori meno recenti.

 

Tracce di una nuova egemonia

Comprendere quanto e come l’investimento cinese può aver sbilanciato l’economia di Islamabad è importante dal momento che, come detto, situazioni simili potrebbero avvenire con gli IDE di Pechino nel Sud-est asiatico. A partire dal 2001 la Cina ha infatti iniziato una consistente politica di investimento verso Paesi africani e asiatici con economie in crescita e tale politica ha visto un notevole incremento dei numeri a partire dal 2010.[5] Se nel 2004 il totale degli IDE cinesi ammontava a 5,5 miliardi di dollari, nel 2010 aveva raggiunto un totale di ben 68 miliardi. Con il dodicesimo Piano quinquennale le imprese cinesi hanno poi ricevuto una decisiva spinta all’investimento all’estero, specialmente in Paesi asiatici. I flussi di investimento in esame avevano mire economiche e politiche: si puntava e si punta, attraverso investimenti e prestiti, al ritorno economico e al sostegno politico alla potenza cinese. In tal senso è stata emblematica la creazione di un istituto come la Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB) fondata a Pechino nel 2014 e radicalmente aperta a Paesi occidentali a partire dal 2015 (anno che ha visto, tra l’altro, l’adesione della Russia). L’istituto emerge come alternativa più inclusiva, aperta e sostenibile rispetto ai naturali dirimpettai: la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo. Soprattutto, l’AIIB mira a formalizzare un’alternativa (anche in campo finanziario) all’egemonia statunitense e alla posizione della potenza giapponese in Asia.

Gli ingenti flussi di IDE attraverso capitali di imprese e strumenti finanziari (come quelli messi in atto dall’AIIB)[6] sono rivolti con ogni probabilità a sondare il terreno per la possibile creazione di un controllo sui sistemi di produzione dei Paesi interessati e di un’egemonia finanziaria nell’area interessata (parte dell’Africa e sicuramente l’Asia meridionale e orientale).

La decisiva tornata di investimenti cinesi successivi al dodicesimo Piano quinquennale ha però generato uno scarso tornaconto produttivo a favore del Pakistan (la cui situazione si è piuttosto aggravata) per alcuni fattori determinanti: assenza di strutture di supporto alle infrastrutture realizzate (quali quelle atte all’approvvigionamento idrico e di energia),[7] assenza di condizioni di sicurezza e stabilità economica che rendano l’area appetibile a ulteriori investimenti esteri (facilitati dalle infrastrutture costruite dalla Cina)[8] e assenza (quantomeno sino al 2013) di una realtà politica stabile basata su istituzioni simili o quantomeno decodificabili dai potenziali investitori occidentali.[9] Oltre a ciò, particolarmente significativa è stata l’assenza di un modello di sovranità statale uniforme su tutto il territorio nazionale. Il Pakistan è infatti caratterizzato da un’estesa struttura di governance a macchia di leopardo[10] nella quale coesistono aree essenzialmente cittadine e municipali con una tangibile presenza dello stato; aree di sovranità offuscata e diffusa, dove lo stato cede coscientemente e ufficialmente il passo a propri organi (come le forze armate) o a organizzazioni come il Muttahida Qaumi Movement (“Movimento nazionale unito”); e zone dove vige una vera e propria organizzazione tribale che vede il concetto di sovranità manifestarsi in modi e forme totalmente differenti da quelle codificate presso gli Stati occidentali. I fattori elencati sono endemici e connaturati alla storia del Pakistan e sono essenzialmente resistenti ai mutamenti storici della politica pakistana.

Sin dalla creazione della China Pakistan Economic Commission nel 1982, Pechino si è impegnata a sostenere determinati settori produttivi dell’economia pakistana (come ad esempio quello tessile). Tuttavia, il Pakistan non ha ottenuto risultati economici di sostanziale rilievo. Proprio esaminando il caso della produzione tessile si comprende come, purtroppo, nonostante la spinta cinese, il settore sia rimasto legato a vecchi sistemi di produzione e ancorato ai margini delle catene globali del valore, non godendo della possibilità di inserirsi in una sistematica attivazione dei mezzi di produzione o di raggiungere posizioni più remunerative nelle catene nonostante l’investimento e l’orizzonte temporale ormai ultradecennale.

Un altro caso di studio che rappresenta un’occasione drammaticamente persa per il Pakistan è il settore della produzione di energia. Nonostante i grandi investimenti ricevuti dall’estero e gli importanti progetti cinesi, come la centrale idroelettrica di Karot nel Kashmir controllato dal Pakistan, il settore industriale di Islamabad è ancora fortemente inficiato dalla costante produzione problematica di energia elettrica che caratterizza da sempre il Pakistan.

Insomma, nonostante gli IDE cinesi, in special modo a partire dal 1982, si siano concentrati sul settore infrastrutturale, in uno studio del World Economic Forum del 2010 il 7 Pakistan era all’89° posto[11] e nel 2018 era addirittura sceso al 93° posto mondiale come qualità delle infrastrutture.[12] Si può affermare pertanto che gli investimenti cinesi in Pakistan non abbiano causato l’ennesimo default per il quale si richiede l’intervento del FMI, ma che sia stato principalmente il persistere di condizioni ormai croniche della struttura economica pakistana a causarlo.

Per quanto concerne invece lo Sri Lanka e la Malaysia, il consuntivo degli IDE cinesi a partire dal 2011 (anno di inizio del dodicesimo piano quinquennale cinese) è riportato nelle seguenti tabelle.

Ho considerato i dati dal 2011 poiché è l’anno successivo al varo del dodicesimo Piano quinquennale cinese a partire che hanno avuto luogo sotto l’egida della “Pacifica ascesa”[13] della Cina, seguita dal “Sogno cinese” dell’era Xi Jinping.

La Malaysia ha registrato l’incremento dell’investimento più notevole nel 2017, ma ha comunque avuto un trend esaltante a partire dal 2011, passando da 798 milioni di dollari a 4915 milioni di dollari.

In base agli investimenti, il progresso è stato evidente sia in termini generali di crescita del PIL che, a partire dal 2011 è stata buona anche in rapporto alle altre nazioni ASEAN, oscillando tra il 4,22% del 2016 e il 5,9% del 2017 (e 5,4% nel 2018),[14] sia in termini particolari con lo sviluppo dei settori più interessati dall’aiuto di Pechino. Tali settori sono quello delle piccole e medie imprese, del campo delle infrastrutture e della specializzazione e qualificazione del lavoro.[15] L’aspetto della qualificazione delle professionalità, vissuto dal governo come un importante capitolo d’investimento, sta dando i suoi frutti anche grazie alla crescente libertà di movimento di capitali mobili e lavoro all’interno dell’area ASEAN. Pare essenzialmente che la Malaysia stia ottenendo buoni frutti dagli investimenti di Pechino.

Lo Sri Lanka ha ricevuto un notevole incremento di investimenti cinesi in particolare a seguito degli sviluppi del processo di pacificazione interno (con i gruppi estremistici), consolidatosi a partire dal 2010 con la vittoria del governo di Colombo.[16]

Il governo centrale, riuscendo a riportare un certo grado di stabilità sul proprio territorio, sta traendo vantaggio dal confronto fra Cina e India, ambedue interessate a divenire principale partner dello Sri Lanka.[17] Essenzialmente lo Sri Lanka sta beneficiando di investimenti nelle infrastrutture (come il porto di Colombo, importantissimo avamposto nell’Oceano Indiano in prossimità della cintura di comunicazione marittima che la Cina sta mettendo a punto per collegarsi all’Europa) che hanno una ricaduta positiva anche sulla salute economica del Paese. Tuttavia, anche per il fatto che Colombo non pare dare ulteriore sviluppo all’investimento cinese, restano degli interrogativi sul futuro dell’economia del Paese, troppo legata agli IDE e concentrata solo a sfruttare tali preziose iniezioni di liquidità.

 

Conclusioni

In Pakistan gli investimenti cinesi sono stati costanti ma contenuti e circospetti quantomeno sino al dodicesimo Piano quinquennale, dopodiché hanno avuto un ritmo sostenuto e sono stati erogati in quantità sostanziali. Tuttavia, lo squilibrio del Pakistan dipende da fattori endemici e connaturati alla propria struttura economica e alla propria dimensione politica. A causa di tali fattori i governi susseguitisi a Islamabad non hanno saputo sfruttare gli IDE creando o quantomeno gettando le basi per sistemi di produzione al passo coi tempi.

La situazione pakistana non sembra trovare uno specchio in altri Paesi interessati dagli IDE cinesi, in special modo in area ASEAN, e questo renderà improbabile il riproporsi di un panorama simile in Asia sud-orientale. Oltre a tutto ciò bisogna comunque rilevare che secondo i vari modelli di interpretazione dei cicli economici capitalistici (come quello proposto da Giovanni Arrighi)[18] la fase di tramonto di una egemonia (quella statunitense nella fattispecie) vede la contemporanea esplorazione di nuove strategie di accumulazione da parte della futura potenza dominante che possono creare dei momenti di crisi contingenti.

In questo caso sembra assai probabile che la RPC stia sperimentando sui vari Paesi asiatici in quanto essi sono i più vicini alla propria immagine di potenza[19] e quindi maggiormente soggetti a entrare a far parte del proprio ciclo di accumulazione. Questo atteggiamento potrebbe in futuro causare sbilanciamenti nelle realtà strutturalmente non ancora in grado di sostenere il nuovo ciclo. Realtà più dinamiche come la Malaysia sembrano invece saper sostenere al meglio i flussi cinesi che in definitiva non sono ancora causa di sbilanciamento economico per i Paesi analizzati.

Sarà punto di interesse per tutta l’area osservare quanto accadrà all’economia dello Sri Lanka che pare essenzialmente dipendente dagli investimenti esteri e non preparata ad un eventuale affievolimento congiunturale di tale flusso nel triennio 2019-2022.

Infine, bisogna notare anche quanto accade nell’anno finanziario in corso, cioè che la Cina ha diminuito sensibilmente i propri investimenti in Pakistan, specialmente nella parte centrale dell’anno, con molta probabilità a causa degli interrogativi che circondano il nuovo governo, il primo della forza populista Pakistan Tehrik-e-Insaf (“Movimento per la Giustizia del Pakistan”). Se l’atteggiamento cinese di ridimensionamento degli aiuti economici persisterà, sarà interessante vedere come il nuovo esecutivo pakistano riorganizzerà la propria politica economica e verso quali alleanze si volgerà, economicamente (e politicamente).

[1] Chen, C. (2010), “Asian foreign direct investment and the ‘China effect’”, in Ross Garnaut, Jane Golley e Ligang Song (a cura di), China: The Next Twenty Years of Reform and Development, Canberra: ANU Press, pp. 221-240.

[2] Azeemi, H. R. (2007), “55 Years of Pakistan-China Relationship”, Pakistan Horizon, 60 (2), Pakistan Institute for International Affairs, pp. 109-124.

[3] Dati ottenuti dal Board of Investment, Government of Pakistan.

[4] Ma..es, B. (2018), “China and India: The Struggle for Mastery in Eurasia”, Insight Turkey, 20 (1). Persistent rise of China Global Challenges and regional dynamics, SET VAKFI İktisadi İşletmesi, pp. 13-24.

[5] Cheng, J.Y. S. (2013), “China’s Regional Strategy and Challenges in East Asia”, China perspectives, 94 (2), French Centre for Research on Contemporary China, pp. 53-65.

[6] Gabusi, G. (2017), “Crossing the river by feeling the gold: the Asian infrastructure investment bank and the financial support to the belt and road initiative”, China and World Economy, (25) 5: pp. 23-45.

[7] Ullah, K. (2013), “Electricity Infrastructure in Pakistan: an Overview”, International Journal of Energy, Information and Communications, (4) 3: pp. 11-24.

[8] Masood, A. (2018), Why Does Pakistan Have Repeated Macroeconomic Crises?, Center for Global Development, Washington, accessibile on-line a: https://www.cgdev.org/publication/why-does-pakistan-have-repeated-macroeconomic-crises.

[9] Ovvero, come sviscerato da autori pakistani – ad esempio Ayesha Siddiqa (2007) nel suo Military Inc.: Inside Pakistan’s Military Economy, London: Pluto Press, e internazionali come Ian Talbot (2012) in Pakistan. A New History, London: Hurst and Company – un sistema che non sia largamente e profondamente ancora dominato dagli interessi e dalle istanze delle .lites militari, dalle quali anche l’attuale governo di Imram Khan non sembra in grado di staccarsi.

[10] Talbot, I., op. cit., pp. 117-121.

[11] Bhattacharya, B. N. (2010), “Estimating Demand for Infrastructure in Energy, Transport, Telecommunications, Water and Sanitation in Asia and the Pacific: 2010-2020”, Working paper n. 248, Tokyo, Asian Development Bank Institute, p. 6.

[12] Dati del World Economic Forum on-line a: http://reports.weforum.org/global-competitivenessreport-2018/country-economy-profiles/?doing_wp_cron=1553032456.9958031177520751953125#economy=PAK.

[13] Liu, Y (2005), trad. it. di F. Casalin, “L’influenza dell’“ascesa pacifica” dei comunisti cinesi sulle potenze della regione”, Mondo cinese, n. 125, ottobre-dicembre, pp. 75-90.

[14]Dati ricavati da World Bank group, Data World bank, consultato on-line all’indirizzo: https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG?locations=MY.

[15] Selvaratnam, V. (2016), “Malaysia’s higher education and quest for Developed Nation Status by 2020”, Southeast Asian Affairs, ISEAS – Yusof Ishak Institute, pp.199-224.

[16] Dharmavardhane, I. (2017), “Sri Lanka’s Post-Conflict Strategy: Restorative Justice for Rebels and Rebuilding of Conflict-affected Communities”, Perspectives on terrorism, 7 (6), Terrorism Research Institute, pp. 27-57.

[17] Ma..es, B. (2018), “China and India: The Struggle for Mastery in Eurasia”, Insight Turkey, 20 (1). Persistent rise of China Global Challenges and regional dynamics, SET VAKFI İktisadi İşletmesi, pp. 13-24.

[18] Arrighi, G. (2009), Long Twentieth Century: Money, Power and the Origins of Our Time, London: Verso Books.

[19] Chen, C. (2010), “Asian foreign direct investment and the ‘China effect”’, Ross Garnaut, Jane Golley J. e Ligang Song (a cura di), China: The Next Twenty Years of Reform and Development, Canberra: ANU Press, pp. 221-240.

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