La Cambogia autoritaria del nuovo “re-dio”

Quasi cinque anni dopo, nell’aprile 1975, l’entrata trionfale a Phnom Penh dell’esercito dei “Khmer Rossi”, lo spietato movimento marxista cambogiano guidato da Pol Pot, Hun Sen fu nominato appena trentenne alla guida di un governo filovietnamita. Durante quella fase turbolenta della storia cambogiana recente, segnata dall’invasione delle truppe vietnamite nel dicembre 1978, il leader del Partito del Popolo cambogiano (PPC) diede prova fin da subito della sua capacità di adattarsi e di avvantaggiarsi della situazione politica dell’epoca, riuscendo in poco tempo a scalare il partito dall’interno.[1] Da premier, concordò con il governo comunista del Viet Nam unificato il ritiro delle truppe dal Paese nel settembre 1989 e negoziò gli “Accordi di Parigi” del 23 ottobre 1991, che posero fine a una sanguinosa guerra civile. Un accordo di pace che Tiziano Terzani giudicò “indecente” in quanto riconosceva a Pol Pot e ai Khmer Rossi – carnefici vestiti come “normali uomini d’affari” – una legittimazione politica.

Mentre il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizzava, nel febbraio 1992, la United Nations Transitional Authority in Cambodia (UNTAC), la più grande operazione di peacekeeping dopo la fine della Guerra fredda, Hun Sen gettava le basi per l’edificazione di una democrazia liberale e multipartitica, formalmente introdotta alla fine del 1993 con la promulgazione della sesta Costituzione. Alle ultime elezioni generali del luglio 2018, il principale partito di opposizione, il Partito della Salvezza nazionale cambogiana (PSNC), non ha potuto concorrere perché messo al bando e dissolto da una sentenza della Corte Suprema alla fine del 2017. In tutta risposta, i dirigenti del PSNC hanno chiamato a raccolta i propri elettori chiedendo loro di boicottare le urne. Malgrado un calo dell’affluenza rispetto alla tornata precedente, il partito di Hun ha ottenuto comunque quasi 5 milioni di voti, facendo incetta di tutti i 125 seggi in palio dell’Assemblea Nazionale, il principale ramo legislativo del Paese. Il controllo pressoché totale delle principali istituzioni cambogiane e la messa al bando del PSNC hanno posto fine all’esperienza multipartitica avviata ventisei anni fa nel Paese.

Per certi aspetti, è possibile accostare il regime di Hun Sen, autoritario e personalistico, all’esperienza politica di Robert Mugabe nello Zimbabwe. Come scrive Catherine Morris, l’esaltazione quasi divina della propria figura che ne fa la propaganda evoca i tempi del vecchio monarca Norodom Sihanouk (1941-1955; 1993-2004), mentre lo stile autoritario e centralistico che caratterizza il suo governo non è dissimile da quello rappresentato dai Khmer Rossi.[2] Il Parlamento ha negli ultimi anni approvato una serie di decreti che inaspriscono le pene contro chi diffama il sovrano e gli esponenti del governo.[3] Queste leggi hanno l’obiettivo di mettere a tacere l’opposizione e la società civile che rivendicano maggiori libertà e partecipazione alle scelte della comunità. Il 10 luglio 2016, fuori da un caffè di Phnom Penh, è stato ucciso Kem Ley, giornalista molto popolare nel Paese e tra i più fervidi oppositori di Hun. Kem aveva contribuito a fondare un movimento nato con l’ambizione di sparigliare il sistema tradizionale dei partiti e dare così slancio alla partecipazione popolare, facendo affidamento su un nuovo concetto di cittadinanza.[4] In molti ritengono che si sia trattato di un assassinio a sfondo politico, che ha riportato alla mente gli omicidi di metà anni Novanta di due giornalisti autori di un’inchiesta di corruzione. Al funerale di Kem hanno partecipato centinaia di migliaia di persone, una folla che si era vista solo in occasione del funerale del Re Sihanouk.

Nel novembre 2017, due ex reporter cambogiani di Radio Free Asia, Uon Chhin e Yeang Sothearin, sono stati arrestati dalle autorità cambogiane e detenuti con l’accusa di spionaggio e trasmissione di documenti segreti alla stazione radio americana che trasmette anche in lingua Khmer. Assolti e liberati, il caso si è riaperto di recente dopo che il tribunale ha ordinato il rinvio a giudizio dei due giornalisti per mancanza di prove sufficienti a scagionarli o a condannarli in maniera definitiva. Il governo ha comunque revocato i diritti di trasmissione alla stazione radio.

Gli attacchi verbali e le minacce fisiche ad alcuni esponenti dell’opposizione avvengono, molto spesso, per mano delle forze di sicurezza. Alcuni hanno scelto di lasciare il Paese per l’esilio volontario, come il co-fondatore del PSNC ed ex leader del Partito della Nazione Khmer, Sam Rainsy, ministro delle Finanze nel 1994, sotto il tiro della polizia nazionale da quando ha dichiarato di voler rientrare in patria dalla sua residenza in Francia, in occasione delle festività dell’indipendenza nazionale, il 9 novembre. Rainsy, che secondo le accuse sarebbe a capo di un manipolo di oppositori e attivisti pronti a lanciare un colpo di stato contro il governo eletto nel 2018, è stato fermato all’imbarco del volo che da Parigi avrebbe dovuto portarlo a Bangkok. Nel frattempo, in Cambogia, la polizia ha interrogato almeno 40 attivisti sospettati di aver preparato il ritorno dell’economista nel Paese. Rainsy non è la sola personalità politica nel mirino delle autorità cambogiane. Mu Sochua, altra leader dell’opposizione in esilio coatto, è stata fermata prima all’aeroporto internazionale di Bangkok e, successivamente, a Kuala Lumpur, dove le è stato negato il visto di ingresso nel Paese. La Thailandia è uno dei maggiori alleati di Hun Sen e accoglie una nutrita comunità di lavoratori cambogiani. Da qui, Sochua intendeva raggiungere la Cambogia e contribuire alla costruzione di un’alternativa politica al partito al potere. La polizia di frontiera, nella provincia nord-occidentale di Banteay Meanchey, al confine proprio con il regno thailandese, ha allertato i propri uomini e ordinato di tenere alta la guardia in vista di possibili infiltrazioni di fedelissimi di Rainsy.

L’opposizione stigmatizza l’uso autoritario del potere e la corruzione diffusa all’interno del governo. Quest’anno, il Parlamento ha approvato una riforma al piano anticorruzione esistente, ma molto spesso è accaduto che Hun ne avesse fatto ricorso per neutralizzare gli avversari interni. Transparency International colloca il Paese al 156° posto (su 180) nella sua ultima classifica sull’indice di corruzione percepita e sono numerosi i casi di funzionari pubblici e amministratori locali sospettati di traffici illeciti. Nel luglio scorso, l’unità anticorruzione istituita all’interno del corpo nazionale di polizia ha arrestato un importante esponente locale della provincia di Pursat, Liem Bunroeun, e i suoi accoliti, colpevoli di aver ricevuto in tre anni mazzette per un totale di 400mila dollari. Bunroeun avrebbe investito il denaro, tra le altre cose, nella ristrutturazione della propria abitazione e l’acquisto di altri due immobili. Tuttavia, come trapelato dai Panama Papers, casi di corruzione hanno toccato anche importanti alleati di Hun. La documentazione, resa pubblica da un consorzio giornalistico internazionale di inchiesta, ha rivelato che il ministro della Giustizia, Ang Vong Vathana, posizione che ricopre dal 1998, sarebbe uno dei cinque azionisti della RCD International Limited, compagnia finanziaria con base nelle Isole Vergini Britanniche. Al suo interno circolerebbero nomi di uomini d’affari Khmer e cinesi molto influenti, ma rimangono ancora sconosciute le finalità della società con sede in un paradiso fiscale.[5] Il Re Norodom Sihamoni ha ammonito che la corruzione, la scarsa trasparenza e i conflitti di interesse rischiano di mandare in rovina la nazione e ha esortato il governo a fare di più per debellare certe pratiche ormai diffuse in tutto il Paese.

Nel luglio 2016, il sito Global Witness[6] ha smascherato il patrimonio della famiglia Hun, che in 34 anni avrebbe accumulato un patrimonio stimato tra i 500 milioni e il miliardo di dollari. La moglie del premier, Bun Rany, presiede la più grande associazione caritatevole del Paese, la Croce Rossa cambogiana. Hun Manet, il figlio più grande del leader cambogiano e vice-comandante in capo delle Forze Armate reali – al cui vertice vi è il sovrano – ha inaugurato la campagna anticorruzione del padre all’interno dell’esercito. I restanti quattro figli detengono azioni in almeno 114 compagnie nazionali, di settori che svariano dalla comunicazione all’energia, dal turismo al retail, che avrebbero collegamenti con i più grandi brand internazionali. E ci limitiamo qui a citare i parenti più stretti, ma la rete si allarga anche ai cognati e ai parenti più lontani, in quella che il quotidiano The Phnom Penh Post ha ironicamente ribattezzato come la “ruota della fortuna”.

Se la corruzione, malgrado gli interventi legislativi, non accenna a placarsi, circa il 40% dei cambogiani vive sotto la soglia di povertà. Il rilancio dell’economia cambogiana, avvenuto a partire dalla metà degli anni Novanta, si fonda sul tessile e l’abbigliamento. Il settore impiega quasi 700mila persone e conta per il 16% del Prodotto interno lordo (PIL) cambogiano. I proprietari delle fabbriche sono in larga parte di nazionalità cinese, malaysiana e sudcoreana e gli impianti produttivi sono situati prevalentemente attorno alla capitale Phnom Penh. Il settore è stato finora il volano per l’economia, data la compresenza di alcuni fattori: il basso costo della forza lavoro, la posizione centrale nella grande subregione del Mekong (ben collegata da un sistema di infrastrutture), l’area di libero scambio con i Paesi ASEAN e gli accordi commerciali preferenziali siglati con l’Unione Europea (UE).[7] Il tessile è in costante crescita, anche se deve fare i conti con le prime, vere, tensioni sociali. Nel 2016 i lavoratori sono scesi in piazza in concomitanza con la chiusura di oltre 70 fabbriche tessili e dell’abbigliamento per motivi economici e la richiesta da parte dei lavoratori del riconoscimento di bonus di anzianità.

La vicenda della messa a bando nel 2017 del principale partito di opposizione ha ottenuto una condanna unanime da parte dell’Occidente. Proprio l’UE, in reazione a questa vicenda e alla sistematica violazione dei diritti dei lavoratori, ha deciso di sospendere il programma di assistenza alla commissione elettorale cambogiana[8] e ha autorizzato il ritiro temporaneo delle clausole di accesso al mercato europeo previste dall’accordo bilaterale conosciuto come Everything But Arms (EBA). La sospensione del trattamento economico preferenziale rischia di avere serie ripercussioni sull’economia cambogiana, che esporta i propri prodotti lavorati (tessili, per l’appunto, e calzature), biciclette e i prodotti alimentari (in prevalenza riso) verso il continente europeo. La potentissima associazione cambogiana che riunisce i produttori del settore tessile e dell’abbigliamento ha dichiarato che l’instabilità sociale potrebbe convincere gli investitori a delocalizzare la produzione in altre aree del Sud-Est asiatico, mentre i leader dei marchi internazionali dell’abbigliamento come Nike e Adidas hanno inviato lo scorso maggio una lettera al primo ministro affermando la necessità di rispettare i diritti fondamentali dei lavoratori e dei manifestanti. Tuttavia, nemmeno di fronte al rischio concreto di vedere svanire l’accordo commerciale con l’UE e alla seria possibilità di vedere ridursi gli investimenti dall’Occidente, Hun pare non voler esaudire le richieste “esorbitanti” dei lavoratori, affermando che potrebbero avere l’effetto perverso di chiudere due terzi delle fabbriche presenti, senza peraltro presentare dei dati a supporto di questa tesi. Si aggiunge a questo anche il fatto che gli stessi imprenditori non intendono accogliere le richieste dei lavoratori. Nel 2012, ad esempio, i lavoratori del settore avanzarono la richiesta di un aumento di 10 dollari al mese per coprire le spese di viaggio e 50 centesimi al giorno in più per acquistare beni di prima necessità.[9]

Mentre l’Occidente guarda con apprensione agli sviluppi politici interni, la Cambogia ha costruito negli ultimi anni una relazione economica speciale con la Cina. Pechino è il principale investitore nel Paese indocinese e tra i più grandi Paesi donatori di aiuti allo sviluppo. Secondo il Ministero delle Finanze cambogiano, il debito pubblico con l’estero era nel 2018 pari a 7 miliardi di dollari, di cui l’8% è stato finora ripagato.[10] Il 40% dello stock sarebbe nelle mani della Cina, dalla quale il governo avrebbe ottenuto l’anno scorso 4,6 miliardi di dollari. Parte di questi finanziamenti è destinata alla costruzione di 12 depositi di riso e 10 macchinari agricoli (nel primo trimestre del 2019, la Cambogia ha esportato in Cina oltre 250mila tonnellate di riso).[11] Hun ha assicurato che la Cambogia non cadrà mai nella “trappola del debito”.

Il Paese cerca di garantirsi i progetti e i flussi di investimenti cinesi rientranti nell’ambito della “Via Marittima della Seta”: la prima linea ferroviaria che collegherà la capitale alla città della costa meridionale di Sihanoukville, dove sorgerà anche una zona economica speciale, e il nuovo aeroporto internazionale di Siem Reap. Le aziende cinesi presenti sul territorio preferiscono assumere manodopera cinese sia per questioni linguistiche sia perché sono considerati più dediti al lavoro rispetto ai lavoratori cambogiani. Lo scotto da pagare per assicurarsi una pioggia di investimenti e prestiti necessari alla crescita economica è politicamente alto. Per ben due volte, nel 2012 e nel 2016, la Cambogia ha opposto la sua contrarietà nei summit annuali dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico (ASEAN) alla approvazione di una dichiarazione comune in merito alla condotta della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese nel Mar Cinese Meridionale.

In un contesto sempre più assoggettato alle strategie cinesi, gli Stati Uniti hanno gradualmente diminuito la loro presenza economica, in ragione proprio dell’incremento della presenza cinese.[12] Quest’anno, secondo le informazioni riportate dallo U.S. Indo-Pacific Command, la Cambogia avrebbe firmato un accordo militare segreto con Pechino che autorizzarebbe lo stazionamento dei militari cinesi e il deposito di armi nella base militare cambogiana di Ream, nella provincia meridionale di Preah Sihanouk. Un portavoce della Marina cambogiana ha prontamente smentito la notizia, anche perché la Costituzione vieta di ospitare truppe straniere nel proprio territorio, in virtù della sua politica di neutralità “permanente” e di non allineamento (art. 53).

Una base militare cinese nel cuore del Golfo di Thailandia darebbe alla Cina un avamposto strategico nel controllo dei traffici commerciali dell’Oceano Indiano e, in generale, dei movimenti delle navi da guerra dei Paesi del Sud-Est asiatico che con la Cina hanno un contenzioso territoriale nel Mar Cinese Meridionale, in particolare, il Viet Nam. La Cambogia è nel mirino della Cina e delle mire egemoniche di Pechino nel Sud-Est asiatico, interessi che vanno a impattare contro quelli statunitensi, la cui presenza nel golfo è ancora consistente.[13] Riguardo al Viet Nam, con la quale ha recentemente firmato fruttuosi accordi economici, la Cambogia rischia di compromettere il rapporto col vicino nel caso decidesse di accettare le lusinghe di Pechino. Il rischio è che la Cambogia possa ricorrere nuovamente alla Corte Internazionale di Giustizia per rivedere il trattato sulla questione dei confini territoriali, come accade con la Thailandia nel 2013 per il caso del tempio di Preah Vihear.[14]

Da quando, nel 2001, il governo ha deciso di dare in concessione i terreni nelle campagne cambogiane agli investitori cinesi e vietnamiti (dei settori dell’agroalimentare, dell’estrazione e del turismo), circa 800mila persone sono state costrette dalle autorità ad abbandonare le proprietà e a emigrare da un’altra parte (a riguardo, si rimanda all’articolo successivo). Le proteste dei locali e degli ambientalisti sono scoppiate negli ultimi anni e represse violentemente dalle autorità. Lo Stato incamera ogni anno milioni di dollari dalla tassazione della terra e non intende fermare l’incremento dei flussi di investimento dall’estero nel Paese.

Il fiume Mekong (conosciuto dai cinesi con il nome di Lancang) è l’arteria fluviale più importante della regione indocinese e connette cinque Paesi del Sud-Est asiatico. Negli anni recenti è minacciato dalla cementificazione selvaggia e dalla Cina che, sull’altopiano tibetano dove il settimo fiume più lungo del mondo nasce, ha costruito 11 dighe che ostacolano la migrazione dei pesci e razionano l’afflusso di acqua alle risaie. Vi è anche la controversa centrale idroelettrica di Xayaburi, nel Laos, che è entrata a regime il mese scorso e che è stata finanziata per buona parte dalle banche thailandesi. Tutto ciò non solo ha ripercussioni sull’ecosistema, perché inaridisce i villaggi rivieraschi, ma anche sulla sicurezza e la stabilità dell’economia locale che fa affidamento sulle risorse idriche del fiume e sulle imbarcazioni carche di prodotti di importazione cinesi che attraverso il Mekong raggiungono i porti commerciali fluviali della Cambogia.[15]

La morsa autoritaria di Hun Sen nei confronti dell’opposizione politica e della società civile, unita alla speculazione edilizia, ha definito la Cambogia contemporanea, che dovrà comunque essere in grado di gestire l’equilibrio precario di una situazione politica e sociale in costante mutamento. I dati economici mostrano, complessivamente, un crescente miglioramento della qualità di vita della popolazione, soprattutto urbana, tanto che secondo la Banca Mondiale il Paese potrebbe ottenere lo status di “upper middle income” nel giro di 10 anni. Nondimeno, ciò sarà più difficile se il governo non approverà un programma contro la povertà nelle campagne e non comincerà a investire seriamente nel capitale umano.

[1] Strangio S. (2014), Hun Sen’s Cambodia, New Haven; CT e Londra: Yale University Press, p. 34.

[2] Morris. C (2017), “Justice Inverted: Law and Human Rights in Cambodia”, in Brickell K. e Simon Springer (a cura di), The Handbook of Contemporary Cambodia, Londra e New York: Routledge, p. 31.

[3] Cfr. McCarthy S. e Kheang Un (2017), “The Evolution of Rule of Law in Cambodia”, Democratization, (24) 1, pp. 100-118.

[4] A proposito della partecipazione politica e del rapporto dei cittadini col potere, si rimanda ad Astrid Norén-Nilsson (2019), “Kem Ley and Cambodian Citizenship Today: Grass-Roots Mobilisation, Electoral Politics and Individuals”, Journal of Current Southeast Asian Affairs, 38 (1), pp. 77-97.

[5] Cfr. Il profilo di Ang Vong Vathana al sito dell’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ) https://offshoreleaks.icij.org/stories/ang-vong-vathana.

[6] Global Witness (2016), “Hostile Takeover. The Corporate Empire of Cambodia’s Ruling Family”, 7 luglio, disponibile online al sito https://www.globalwitness.org/en/reports/hostile-takeover/.

[7] Si faccia riferimento ai dati pubblicati nel novembre 2018 da ASEAN Briefing al sito https://www.aseanbriefing.com/news/2018/11/01/cambodias-garment-manufacturing-industry.html.

[8] Cfr. European External Action Service (2018), Statement by the Spokesperson on the general elections in Cambodia, 30 luglio, disponibile al sito https://eeas.europa.eu/headquarters/headquarters-homepage_en/48957/Statement%20by%20the%20Spokesperson%20on%20the%20general%20elections%20in%20Cambodia

[9] Strangio S. (2014), Hun Sen’s…, cit., p. vii.

[10] “Cambodia Has Repaid 8 Percent of its Debt: Report”, Khmer Times, 28 marzo 2019.

[11] “Cambodia Awards Chinese Firm to Build Rice Warehouses, Drying Machines in 11 Provinces”, Xinhuanet, 20 giugno 2019.

[12] Stromseth J. e Hunter Marston (2019), “Democracy at a Crossroads in Southeast Asia: Great Power Rivalry Meets Domestic Governance”, Brookings, p. 6, disponibile online al sito https://www.brookings.edu/wp-content/uploads/2019/02/FP_20190226_southeast_asia_stromseth_marston.pdf.

[13] Per un’analisi approfondita sul tema, si veda Burgos S. e Sophal Ear (2010), “China’s Strategic Interests in Cambodia: Influence and Resources, Asian Survey, 50 (3), pp. 615-639.

[14] Crf. Request for Interpretation of the Judgment of 15 June 1962 in the case concerning the Temple of Preah Vihear (Cambodia v. Thailand), disponibile online all’indirizzo https://www.icj-cij.org/en/case/151

[15] “China Eyes its Next Prize – The Mekong”, The Interpreter, 5 giugno 2018.

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