Trovandosi in un quadrante complesso come quello a cavaliere dell’Asia orientale e sudorientale, Taiwan è nella situazione di dover affrontare sfide continue alla sua sicurezza nazionale, stabilità ed esistenza come entità geopolitica. In virtù delle sue dimensioni, popolazione e capacità di proiezione, una potenza medio-piccola come Taiwan è nella condizione ineludibile di avere risorse, nonché raggio di manovra, inferiori rispetto ai grandi Stati della regione. Sia in termini relativi che assoluti. La sfida della sicurezza taiwanese, quindi, ha prima di tutto un carattere strutturale. In aggiunta, la Repubblica di Cina (RdC), come Taiwan si denomina ufficialmente, con la sua storia complessa e le sue peculiarità geostrategiche, ha un paradigma di sicurezza unico nel suo genere.[1] Partendo da tali premesse, in questa sede vengono esaminate le dinamiche di sicurezza dell’isola, in fasi cruciali della sua storia recente, a fronte delle ambizioni territoriali della Repubblica popolare cinese (Rpc).
Nel tempo, da quando l’avanzata delle forze comuniste di Mao Zedong costrinse quelle dei nazionalisti cinesi a ritirarsi a Taiwan,[2] le caratteristiche e la percezione dell’assedio da parte della Cina sono cambiate significativamente, a volte drasticamente. Si inizierà, quindi, con l’analisi dell’evoluzione della sicurezza della RdC fino al 1980. Tale excursus diacronico sarà utile per esaminare sia le scelte che i leader taiwanesi hanno compiuto a fronte del mutare della situazione internazionale, sia per comprendere il contesto in cui il governo di Taipei si è trovato a muoversi nei periodi successivi. Si procederà, poi, con la valutazione della dialettica di sicurezza tra l’isola e il continente nei decenni più vicini, fino ad arrivare alle prospettive attuali.
1945-1950: nell’immediato dopoguerra, Chiang Kai-shek, a capo della Cina nazionalista, considerava il Partito comunista cinese il pericolo principale per il suo regime. I tentativi di mediazione degli Stati Uniti per far raggiungere alle due parti un accordo sulla condivisione del potere in Cina non riuscirono a prevenire la recrudescenza della guerra civile. Le sorti del conflitto volsero ben presto a favore dei comunisti, tanto che – nel dicembre 1949 – vi fu la Grande ritirata delle forze nazionaliste a Taiwan. Quattro mesi prima, il primo ottobre 1949, Mao Zedong aveva proclamato la fondazione della Rpc.[3]
L’isola di Taiwan, una colonia giapponese dopo il 1895, in origine non aveva un ruolo centrale nel calcolo strategico di Chiang Kai-shek. Durante la guerra contro il Giappone, il leader cinese considerava Taiwan semplicemente un territorio perduto che avrebbe dovuto essere restituito alla Cina dopo la liberazione dai giapponesi. In particolare, nella visione di Chiang, l’isola era una delle “fortezze” esterne di cui la Cina necessitava per costruire il suo impianto difensivo. Quindi, nel novembre del 1942, Taiwan fu formalmente inclusa nell’elenco dei territori che avrebbero dovuto essere restituiti dal Giappone. Segnatamente, anche il Presidente statunitense Franklin D. Roosevelt considerava il ritorno di Taiwan alla Cina un elemento utile nel suo disegno per la pace e la sicurezza nel dopoguerra.[4]
Quindi, la Dichiarazione del Cairo del dicembre 1943 ratificò semplicemente una decisione che Washington aveva già preso. Sulla base di tale direttiva, il generale MacArthur assegnò all’esercito della Cina nazionalista il compito di riprendere Taiwan dopo la resa del Giappone. Se Chiang e Roosevelt non fossero stati sulla stessa lunghezza d’onda strategica pochi anni prima, l’isola non sarebbe stata disponibile nel 1949 come rifugio per le forze armate e i quadri del Kuomintang (KMT), vale a dire il Partito nazionalista cinese.[5]
1950-primi anni Ottanta: al governo nazionalista in ridotta a Taiwan, la barriera naturale del mare forniva una certa misura di sicurezza strategica, senza però attenuare di molto la condizione di assedio dell’isola. Nei primi anni Cinquanta, il lancio di un’invasione dalla Cina continentale era considerato imminente dai nazionalisti, ed era nei piani del governo di Pechino. Ma, in breve tempo, la Guerra di Corea e le contingenze della Guerra fredda spinsero Washington a ripristinare l’appoggio a Chiang Kai-shek in funzione di contenimento della minaccia comunista.[6] L’invasione passò, così, a essere un’eventualità più che una certezza. Rimase comunque un certo grado di diffidenza tra Stati Uniti e la RdC, poiché Taipei dubitava dell’impegno americano a difenderla e Washington temeva che Chiang desiderasse intrappolare gli Stati Uniti in un conflitto con le armate di Mao.[7]
Sul fronte della sicurezza interna, il KMT attuò una serie di misure, non tutte efficaci, per rinsaldare il proprio controllo sull’isola. Venne imposto un duro autoritarismo per tenere a bada il malcontento della maggioranza della popolazione, che considerava Chiang e le truppe che lo avevano seguito sull’isola più come dei nuovi dominatori che compatrioti. Al contempo, fu attuata una riforma agraria per eliminare la base di potere delle élite locali e vennero introdotte elezioni nei villaggi per permettere al KMT di penetrare a livello di base. Sul piano economico, la strategia economica iniziale del regime era la sostituzione delle importazioni, che aveva senso in termini di sicurezza nazionale ma bloccava lo sviluppo economico.[8]
Nel giro di pochi anni, sotto la spinta degli Stati Uniti, la RdC passò a un modello di crescita guidata dalle esportazioni. Questa transizione avrebbe avuto profonde conseguenze per la sicurezza di Taiwan. Da un lato, permise il decollo economico e portò consenso politico al regime, dall’altro fornì alla Rpc un modello di sviluppo che Pechino avrebbe adottato dopo la morte di Mao, operazionalizzato con investimenti e trasferimenti di tecnologia da Taiwan e altre economie, ponendo così le basi per la stabilizzazione delle relazioni tra le due sponde dello stretto di Taiwan. Inoltre, la crescita economica favorì la formazione a Taiwan di una classe media istruita che sarebbe stata fautrice della democratizzazione della società dell’isola creando, così, un nuovo contesto per il processo decisionale sulla politica di sicurezza.
Mentre Taiwan stava diventando un miracolo economico, la RdC subiva una serie di rovesci sul fronte estero, cominciati con il nuovo corso diplomatico verso la Rpc avviato dal Presidente statunitense Richard Nixon. Nel 1971, la Rpc subentrò alla RdC alle Nazioni Unite, con la conseguente espulsione della Cina nazionalista. Ciò segnò l’inizio della migrazione diplomatica della maggior parte degli Stati verso Pechino e, nel 1979, gli Stati Uniti compirono un passo che incise molto drammaticamente sulla sicurezza di Taiwan, stabilendo relazioni diplomatiche con la Rpc. Infatti, al fine di rinsaldare i nuovi legami con Pechino, l’allora Presidente statunitense Jimmy Carter decise di porre fine alle relazioni diplomatiche con la RdC, così come al trattato di mutua difesa tra gli Stati Uniti e la RdC.[9] Per compendio, nel 1982, il Presidente Ronald Reagan si impegnò a ridurre le vendite di armi a Taiwan. Lo scenario internazionale per la RdC nei primi anni Ottanta si profilava davvero plumbeo.
Nel valutare le sfide di sicurezza che devono affrontare i piccoli Stati, è utile considerare l’idea di “lotteria strategica”. Il perno di tale concetto è che le relazioni delle grandi potenze creano l’ecosistema in cui i piccoli Stati devono cercare di sopravvivere. Le piccole potenze hanno poco o nessun controllo sugli esiti della lotteria strategica, ma devono adattarsi, a volte radicalmente, agli eventi e flussi del sistema.[10] Nella lotteria strategica dell’Asia orientale, la RdC è stata, in termini relativi, perdente nel decennio 1931-1941; in recupero dopo il 1941 grazie all’alleanza con gli Stati Uniti; poi di nuovo perdente a causa dell’esito della guerra civile con i comunisti e la ritirata a Taiwan; di nuovo in trend positivo, grazie al ripristino dell’alleanza con gli Stati Uniti, negli anni Cinquanta e Sessanta; e in difficoltà sempre crescente durante gli anni Settanta, quando poteva sembrare che l’estinzione della RdC e l’unificazione di Taiwan con la Cina continentale fossero solo questione di tempo. Eppure, la leadership politica di Taiwan ha saputo gestire la situazione in modo da evitare tale esito e far uscire i numeri vincenti nella lotteria strategica.
Post-1980: con l’inizio degli anni Ottanta, il clima politico tra le due sponde cominciò a mutare. Favorevolmente. Uno dei più importanti fattori di cambiamento fu il nuovo corso verso Taiwan della leadership cinese post-Mao, sotto la guida di Deng Xiaoping. Trovandosi in una posizione molto più forte del passato a livello internazionale, Pechino riteneva che Taipei fosse così isolata da poter essere indotta a negoziare un accordo politico. Lo slogan chiave di Pechino, quindi, passò da “liberare Taiwan” a “unificazione pacifica”. La formula proposta dai leader della Rpc divenne nota come “un Stato, due sistemi” (1S2S). Tale soluzione contemplava il dissolvimento della RdC e la creazione della regione amministrativa speciale di Taiwan a cui sarebbe stata – sulla carta – concessa larga autonomia.
L’ottimismo di Pechino si fondava su alcune constatazioni e convinzioni. Innanzitutto, il regime KMT sembrava concordare sull’esito finale: l’unificazione. Ciò che mancava era la convergenza su termini e condizioni. In secondo luogo, a seguito del comunicato di Washington sulle vendite di armi a Taiwan del 1982, i leader cinesi ritenevano che la partnership di sicurezza degli Stati Uniti con Taiwan fosse in via di atrofizzazione. Terzo, la Rpc pensava di poter utilizzare la leva economica, nel senso di offrire a Taiwan di unirsi a uno Stato che si stava avviando a diventare un gigante economico. Tali considerazioni, però, contrastavano con il punto di vista del governo di Taipei, per il quale la sopravvivenza del regime era l’imperativo primario e non negoziabile. L’accettazione della formula 1S2S proposta da Pechino avrebbe segnato la fine non solo della RdC, ma sostanzialmente anche del KMT. Il patto faustiano offerto da Deng era, quindi, inaccettabile.
Ad ogni modo, anche se Taipei resisteva ai tentativi di Pechino di aprire un nuovo fronte politico in quello che era sempre stato un confronto strategico multidimensionale, le prospettive di sicurezza per Taiwan erano ancora poco rassicuranti. In primis, La RdC si trovava a essere diplomaticamente emarginata, se non isolata. La lotteria strategica continuava a penalizzare Taipei. Se da un lato il sostegno degli Stati Uniti continuava nonostante il passaggio a relazioni non ufficiali, rimaneva il dubbio sulla durata e certezza della protezione della superpotenza. L’approvazione del Taiwan Relations Act (TRA) da parte del Congresso degli Stati Uniti nel marzo 1979 aveva in buona misura rafforzato la fiducia nel sostegno di Washington. Nondimeno, Taiwan non poteva permettersi di scommettere la sua stessa sopravvivenza su un atto di legge straniero.
Intanto, sul piano interno, il monopolio politico del KMT veniva messo in discussione: l’opposizione al regime, nota come dǎngwài (党外, “al di fuori del Partito”), consapevole che le débâcle internazionali subite da Taipei nel corso degli anni Settanta avevano assestato un duro colpo alla legittimità del regime, si era mossa per conquistare spazi politici. In particolare, veniva affermato che la perdita del riconoscimento degli Stati Uniti e la riduzione delle tensioni con Pechino aveva posto fine alle basi del monopolio politico del KMT.[11] Coerentemente con tali convinzioni, l’opposizione taiwanese cominciò a organizzarsi sfidando il divieto di costituire partiti politici. Quindi, il KMT venne a trovarsi nella difficile posizione di affrontare simultaneamente sfide dall’interno e dall’esterno: la RdC era in una situazione di doppio assedio.
Essendo il quadro politico di Taiwan quanto meno difficile e turbolento, al KMT restava da giocare la carta economica al fine di mantenere e recuperare consenso. Al di là del mare, la Cina di Deng Xiaoping necessitava investimenti, trasferimento di tecnologia e accesso ai mercati globali per avviare il suo decollo economico e stabilizzarsi all’interno. A tale scopo, la Repubblica popolare cinese cominciò ad aprire gradualmente la porta della sua economia verso l’esterno. Da un lato, investitori e industrie di Hong Kong e Taiwan, che guardavano al risveglio economico cinese con grande interesse, erano considerati da Pechino come candidati ideali per invigorire l’economia nazionale.
La crescita dei salari a Taiwan e l’insistenza da parte degli Stati Uniti sull’apprezzamento della valuta della RdC spingevano le aziende taiwanesi verso l’altra sponda dello stretto, vista sia come un mercato del lavoro a basso costo – specialmente per la produzione e l’assemblaggio – sia, in prospettiva, un grande mercato di consumo. Chiang Ching-kuo, figlio di Chiang Kai-shek, che era diventato Presidente nel 1978, permise e favorì il flusso economico da Taiwan verso il continente che, in breve tempo, portò i taiwanesi a essere leader negli investimenti in Cina.[12]
Questi nuovi sviluppi ebbero un forte riverbero sulla sicurezza di Taiwan: in primo luogo, portarono Pechino ad avere un sostanziale interesse nel preservare lo status quo. Sebbene Deng mantenesse l’obiettivo dell’unificazione, considerava garantire la crescita economica e, di riflesso, la stabilità politica priorità molto più urgenti nel breve termine. Quindi, un ambiente internazionale pacifico era essenziale per sviluppare l’economia della Rpc. Per questo motivo, Pechino non aveva interesse a mostrarsi aggressivo verso l’altra sponda: politiche antagonistiche e coercitive avrebbero solo alienato gli investitori taiwanesi e irritato gli Stati Uniti. Inoltre, seguendo un oculato calcolo di allocazione delle risorse, Deng decise di ritardare la modernizzazione militare a favore di quella dell’economia. Così facendo, Pechino si negava la capacità di pianificare e condurre offensive militari contro Taiwan nel medio periodo.[13]
In aggiunta, secondo il calcolo dei leader comunisti, l’esposizione economica di Taiwan verso la Cina, e la loro integrazione economica, avrebbero favorito una soluzione politica alla questione di Taiwan, perché le élite economiche e politiche taiwanesi sarebbero presto diventate un collegio elettorale per l’unificazione. In effetti, all’inizio degli anni Novanta sembrava che la dialettica tra l’isola e il continente – che nel 1991 erano divenute “economie membro” dell’Asia-Pacific Economic Cooperation (APEC) – si stesse evolvendo in quel senso. Particolarmente quando, a un incontro semiufficiale a Singapore nel 1992, venne elaborata dalle due parti una formula politica in seguito conosciuta come il Consenso del 1992, che poteva servire da base per la riunificazione.
Ai sensi di tale intendimento, le due parti riconoscevano l’esistenza di “una sola Cina”, a cui si concordava entrambi appartenessero, ma si riservavano di interpretare il concetto di “Cina” secondo le loro rispettive definizioni. La formula del Consenso del 1992, di ambigua chiarezza e di chiara ambiguità, rappresentava una piattaforma per sviluppare il dialogo politico tra le due sponde dello stretto di Taiwan, ma era destinata a diventare progressivamente inadeguata e superata con l’evoluzione in senso democratico del sistema politico e della società taiwanesi.[14]
Una forte, decisiva, spinta alla democratizzazione di Taiwan venne, nel 1986, dalla formazione del Partito progressista democratico (DPP, dall’inglese Democratic Progressive Party), una forza che propugnava i valori democratici e la rinascita dell’identità taiwanese in contrappunto a quella cinese imposta dal KMT.[15] Nei primi anni Ottanta, Chiang Ching-kuo e i leader riformisti avevano, infatti, deciso di avviare un processo di trasformazione politica, nella convinzione che il KMT sarebbe stato in grado di rimanere al potere più saldamente competendo in un sistema politico aperto piuttosto che perpetuando il paradigma autoritario. Inoltre, si riteneva che la nuova democrazia taiwanese avrebbe potuto contare sul forte sostegno degli Stati Uniti in nome del principio di solidarietà tra democrazie.[16]
Dal 1996 al 2000, Lee Tenghui – primo Presidente della RdC democraticamente eletto – completò l’apertura politica e le riforme iniziate nel decennio precedente. L’effetto più rilevante del passaggio alla democrazia fu che da quel momento la popolazione di Taiwan, attraverso i suoi leader eletti, ottenne idealmente un posto al tavolo dei negoziati con Pechino.[17]
La democrazia ha un impatto multiforme sulla sicurezza nazionale. Va tenuto presente che in un sistema non-democratico il governo può muoversi più facilmente che in uno democratico in cui il vincolo di rispondere ad aspettative e giudizio dell’elettorato limita la libertà di manovra dei decisori politici. Così è stato nel caso di Taiwan, dove la democratizzazione ha consentito la libera discussione su una vasta gamma di temi prima sottratti al dibattito, tra cui i rapporti con la Rpc. In particolare, proporre l’indipendenza de iure per Taiwan – non per la Repubblica di Cina, ma per Taiwan: un anatema sia per i comunisti cinesi che per il il KMT – cessò di essere illegale. Inoltre, la società civile taiwanese cominciò in maniera crescente a chiedere di avere voce in capitolo nelle relazioni attraverso lo stretto, mettendo paletti e dettando principi per le politiche verso la Cina.[18]
I politici taiwanesi, da parte loro, capirono rapidamente che il sentire popolare poteva essere diretto a rafforzare e orientare il consenso politico. Infatti, Chen Shui-bian, esponente del DPP in carica per due mandati dal 2000 al 2008, seppe intercettare e incanalare il sentimento identitario taiwanese per corroborare l’opposizione all’unificazione con la Cina. Mentre i toni della prima amministrazione Chen erano stati concilianti – portando all’accessione di Taiwan al World Trade Organization nel 2002 con il benestare della Rpc – nel secondo mandato Chen si mise sempre più in rotta di collisione con la Cina.[19] Ciò portò a una serie di tensioni e crisi con la controparte che complicarono anche le relazioni con il grande protettore di Taiwan: gli Stati Uniti.[20] Tutto questo avveniva contestualmente al riarmo cinese. Infatti, con l’insediamento di Lee Teng-hui, Pechino aveva cominciato a temere che Taipei la stesse sfidando sulla questione – un vero e proprio dogma per il Partito comunista cinese – dell’unificazione nazionale. In risposta, la Cina aveva iniziato un programma di modernizzazione militare per scoraggiare il “separatismo” e agire manu militari in caso la deterrenza fallisse.[21]
Di risulta, a causa della combinazione tra la situazione interna e quella esterna, nel 2008 Taiwan si trovò a essere meno sicura di quanto non fosse stata nei primi anni Novanta. Per tale ragione, il pendolo della politica interna e della dialettica democratica cominciò a fluttuare verso posizioni più moderate e meno antagonistiche verso la Cina. Ma Ying-jeou, il candidato del KMT alle elezioni presidenziali del 2008, vinse proponendo una piattaforma di dialogo con la Cina e di cooperazione, prima di tutto economica, attraverso lo stretto.
L’elezione di Ma, su un programma che rivitalizzava lo spirito del Consenso del 1992, rassicurò Pechino, facilitando così la ripresa di contatti e negoziati. Le due parti si focalizzarono soprattutto su questioni “facili”, in primo luogo la normalizzazione, liberalizzazione e istituzionalizzazione delle relazioni economiche.[22] Per converso, Ma si dimostrò piuttosto refrattario alle proposte di Pechino di spostare il negoziato su temi politici e di sicurezza. In parte perché l’elettorato taiwanese non era pronto ad affrontarle, e in parte perché farlo avrebbe messo in discussione la sovranità della RdC. Nondimeno, la tensione tra le due parti diminuì sensibilmente rispetto alle amministrazioni di Lee e Chen, mentre l’interazione economica e la mobilità di persone e lavoro attraverso lo stretto di Taiwan erano in netto aumento. Tali risultati consentirono a Ma di conquistare agevolmente un secondo mandato nel 2012.[23]
Le iniziative di Ma per ingaggiare costruttivamente Pechino ebbero anche un riverbero positivo sulle relazioni con gli Stati Uniti. Durante le amministrazioni di Clinton, Bush e Obama, il principio non dichiarato ma operativo della politica di Washington verso Taiwan era che le relazioni degli Stati Uniti con Taiwan sarebbero state una variabile dipendente in un’equazione in cui i fattori principali erano i rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina e quelli tra Taipei e Pechino. In sostanza, nel caso Washington avesse ritenuto che il governo di Taiwan stesse perseguendo una politica verso la Cina che fosse pregiudizievole dell’interesse degli Stati Uniti nella pace e sicurezza regionali, avrebbe modulato il suo appoggio a Taipei in senso restrittivo.[24] Al contrario, qualora la leadership dell’isola avesse cercato di ridurre la tensione e favorire il dialogo con la controparte cinese, allora Washington, alla luce dei migliori rapporti tra le due sponde, avrebbe intensificato i legami con, e il sostegno a, Taipei. Le politiche di avvicinamento alla Cina e l’approccio pragmatico attuati durante gli otto anni della presidenza Ma avevano dunque sortito un rimarchevole risultato in termini di sicurezza: diminuire il rischio di conflitto con la Cina e, al tempo stesso, rinsaldare i rapporti con gli Stati Uniti rendendo più fermo l’ombrello di protezione americana su Taiwan.[25]
La strategia di sicurezza adottata dall’amministrazione Ma può essere schematizzata in quattro punti: 1) Cercare incrementalmente il dialogo e rapporti stabili con la Cina, in modo da ridurre la tensione con Pechino attraverso lo sviluppo di relazioni economiche, umane e politiche che vengano percepite come mutualmente vantaggiose. 2) Evitare azioni che la Rpc considererebbe provocatorie, riducendo così le probabilità di risposte coercitive o punitive da parte di Pechino sulla base di presunte provocazioni da parte di Taiwan. 3) Coltivare le relazioni con Washington in modo da massimizzarne il sostegno politico e la garanzia di un intervento militare a difesa dell’isola in caso di attacco cinese. A tal fine si deve evitare di dare l’impressione che Taiwan dia per scontato l’appoggio degli Stati Uniti. 4) Mantenere e aumentare la preparazione militare di Taiwan nel senso di una doppia deterrenza. Da un lato, il rafforzamento delle capacità difensive aumenta il costo di azioni belliche cinesi contro l’isola, migliorando anche la posizione negoziale di Taipei nei confronti di Pechino. In aggiunta, in caso di attacco cinese le forze armate taiwanesi sarebbero in grado di resistere più a lungo, dando agli Stati Uniti più tempo per arrivare sul teatro del conflitto.[26]
In sostanza, la strategia di sicurezza dell’amministrazione Ma, pur non trascurando l’importanza dell’elemento della preparazione e difesa militari, era di tipo integrato, includendo anche componenti economiche, politiche e diplomatiche. E, in tal senso, rispecchiava la strategia integrata della Rpc per l’unificazione con Taiwan. La visione di Ma è riassunta in un suo discorso del dicembre 2011: “Non facciamo affidamento solo sulle armi; contiamo anche sulle idee per mantenere la pace. Ciascuna delle due parti, qualora intendesse cambiare lo status quo unilateralmente, dovrebbe sostenere un costo proibitivo. Quindi, ora nessuna delle due vuole farlo. Al contrario, entrambe le parti desiderano mantenere lo status quo, e in questo modo la pace viene garantita”.[27]
Tuttavia, durante il secondo mandato di Ma, lo scetticismo riguardo alle politiche del governo verso la Cina continuò a crescere. In particolare, il Presidente e i suoi collaboratori erano accusati di essere troppo concilianti con Pechino, con il rischio di passare il punto di non ritorno politico ed economico al di là del quale Taiwan non avrebbe potuto più sottrarsi alla forza gravitazionale del continente. In altre parole, l’accusa ricorrente contro Ma e il suo partito era quella di “vendere Taiwan alla Cina”.[28]
La crescente preoccupazione di ampi settori dell’elettorato taiwanese per la strategia politico-economica dell’amministrazione Ma verso la Cina, vista come un pericoloso volo icarico, fu uno dei fattori determinanti del forte calo di consenso per il KMT. Il ritorno al governo del DPP era nell’aria e si verificò puntualmente nel 2016 con la vittoria elettorale della candidata del DPP Tsai Ing-wen. L’elezione del primo Presidente donna della RdC ha indubbiamente aperto un nuovo capitolo nelle relazioni attraverso lo stretto di Taiwan, segnando una netta soluzione di continuità con l’era Ma, anche e soprattutto sull’asse della sicurezza.[29]
La politica di sicurezza di Tsai verso la Cina ha due cardini: 1) la determinazione a resistere alle pressioni di Pechino e 2) l’assicurazione che Taiwan non provocherà la controparte nonostante le crescenti assertività e aggressività cinesi. Il primo punto, in particolare, spiega l’insistenza dell’attuale governo del DPP sui valori democratici di Taiwan vis-à-vis l’autoritarismo della Rpc, sull’identità taiwanese in opposizione a quella cinese/sinica, e sul pericolo di infiltrazioni e disinformazione (fake news) cinesi.[30] Sul piano delle politiche di difesa, l’amministrazione Tsai sta portando avanti importanti progetti di rafforzamento e modernizzazione militari.[31] Il secondo punto si esplicita nella reiterazione dell’autocefalia politica e scelta democratica dell’isola da parte del governo di Taipei in risposta al tambureggiare bellicoso e alle dimostrazioni di forza di Pechino.[32]
La linea di pacata fermezza dell’amministrazione Tsai veicola il messaggio che Taipei intende essere tutt’altro che avventurista, bensì cauta e responsabile a fronte delle pressioni militari e diplomatiche di Pechino al fine di non pregiudicare la sicurezza nazionale e destabilizzare la regione. Negli ultimi quattro anni, infatti, la Cina ha ripreso a erodere lo sparuto numero degli Stati che hanno relazioni diplomatiche con la RdC (ridotto attualmente a quindici) e ad agitare la sciabola verso Taiwan usando le sue forze aeronavali. Ciò consente a Tsai sia di argomentare che la controparte cinese ha alterato lo status quo attraverso lo stretto, sia di legittimarsi all’interno e internazionalmente come la leader di una democrazia sotto assedio da parte di un colosso bellicoso pronto a distruggere gli equilibri regionali.[33]
Sarebbe, però, fuorviante spiegare l’inasprimento delle relazioni tra le due parti, e l’indurimento di Pechino verso Taipei, solo alla luce delle politiche “taiwaniste” dell’amministrazione Tsai. In realtà, la questione di Taiwan va inquadrata nella grande narrazione – di rinascimento nazionale e potenza mondiale – che il Presidente Xi Jinping ha tessuto per il popolo cinese e la comunità internazionale. Secondo tale narrativa, in seguito al ritorno di Hong Kong e Macao alla madrepatria, l’ultimo ostacolo alla creazione della “Grande Cina” è la riunificazione con la “Provincia ribelle” di Taiwan. Per Pechino, l’isola deve essere inglobata nella Rpc non solo in nome del valore supremo dell’unità nazionale, ma anche in forza del compimento dei destini nazionali. In tale ottica, la volontà dei 23 milioni di abitanti dell’isola è irrilevante.[34] Coerentemente con tale posizione, nel discorso tenuto nel gennaio 2019 in occasione del quarantennale del “Messaggio ai compatrioti di Taiwan”, Xi ha affermato che: “Taiwan deve essere e sarà unita alla Repubblica popolare cinese,” ribadendo la formula 1S2S e aggiungendo che l’uso della forza rimane un’opzione.[35]
La risolutezza mostrata da Pechino, però, non sembra sortire l’effetto voluto al di là dello stretto. In particolare, nella visione di sicurezza dell’amministrazione Tsai, il Consenso del 1992 – che durante i due mandati di Ma era servito come piattaforma di garanzia dello status quo – è stato prima abbandonato, e poi rigettato. La fibra della formula era ormai sfilacciata ancor prima dell’elezione di Tsai, dato che Pechino si concentrava sull’idea di “una sola Cina”, mentre Taipei sottolineava le “differenti interpretazioni”, e aveva continuato a logorarsi con crescente rapidità negli anni successivi, per poi dissolversi nel 2019.[36] Infatti, nel gennaio 2019, in risposta alle affermazioni di Xi che ribadivano l’ineluttabilità dell’unificazione di Taiwan alla Rpc, proponendo il Consenso del 1992 e la formula 1S2S come base non negoziabile del dialogo tra le due parti, Tsai ha espressamente rifiutato la piattaforma del Consenso del 1992.
Di fronte alle telecamere, la leader taiwanese ha dichiarato che: “Come Presidente della Repubblica di Cina, devo solennemente affermare che non abbiamo mai accettato il Consenso del 1992. La ragione fondamentale è che la definizione del Consenso 1992 delle autorità di Pechino è «una Cina» e «uno Stato, due sistemi». Il discorso pronunciato oggi dal leader cinese ha confermato le nostre perplessità. Voglio qui ribadire che Taiwan assolutamente non accetterà [la formula] «uno Stato, due sistemi». La grande maggioranza dell’opinione pubblica di Taiwan si oppone risolutamente a «uno Stato, due sistemi», e questa opposizione rappresenta un «consenso taiwanese».”[37] Le parole di Tsai sono volte a riaffermare che, a dispetto delle loro dichiarazioni solenni ed esternazioni minacciose, i leader comunisti devono confrontarsi con il fatto che la vasta maggioranza della popolazione di Taiwan rimane profondamente avversa all’idea di unificazione con la Cina. Ancora di più se la Cina rimarrà un sistema autoritario a partito unico.[38]
A Pechino, però, sanno di avere a disposizione delle potenti leve da utilizzare per orientare o piegare la volontà della popolazione dell’isola. Dall’elezione di Tsai nel 2016, la Rpc ha risposto all’avversione di Taipei per il Consenso del 1992 e all’identitarismo taiwanese del DPP cercando di sfruttare le vulnerabilità dell’economia dell’isola, e in particolar modo la sua dipendenza economica dal continente.[39] I rapporti economici creati attraverso lo stretto a partire dagli anni Ottanta si sono dimostrati un’arma a doppio taglio per Taiwan. Da un lato, un aumento del commercio e dei trasporti tra le due parti ha permesso alle imprese taiwanesi di accedere ai grandi mercati della Cina. Dall’altro, Taiwan ha sviluppato una dipendenza economica dalla Rpc che, includendo Hong Kong, ha valso il 40% delle esportazioni e il 20% delle importazioni di Taiwan nel 2019.[40] I dati economici rivelano, quindi, che l’isola è esposta a pressioni economiche dalla Cina. Pechino lo sa bene e, dopo l’elezione di Tsai, ha varato iniziative per attrarre talenti e investimenti dall’isola. Per esempio, nel febbraio 2018, Pechino ha annunciato un pacchetto di trentuno incentivi per attirare professionisti e aziende di Taiwan, offrendo agevolazioni fiscali, sussidi, sovvenzioni e allettanti partecipazioni in progetti infrastrutturali e di sviluppo.[41]
Negli ultimi due decenni, la Cina ha strategicamente spostato la catena del valore nelle industrie in cui Taiwan ha storicamente un vantaggio competitivo, vale a dire la tecnologia dell’informazione e i settori manifatturieri ad alta tecnologia, con ripercussioni su salari e occupazione a Taiwan. La concorrenza cinese nella produzione di alta tecnologia – unita alla stagnazione salariale nell’isola – ha portato un gran numero di lavoratori qualificati e aziende taiwanesi a trasferirsi nella Rpc. Questo ha avuto conseguenze dirette in termini di sicurezza e consenso politico. Le difficoltà economiche avvertite dagli elettori taiwanesi, infatti, hanno contribuito grandemente alla netta sconfitta del DPP alle elezioni amministrative del novembre 2018.[42]
L’amministrazione Tsai, comprendendo gli obiettivi dell’offensiva economica cinese, e le conseguenze sul versante della sicurezza nazionale, ha reagito elaborando una contro-strategia di diversificazione volta a rendere l’isola meno dipendente economicamente dalla Cina. La strategia di Tsai, denominata Nuova politica del Sud (NpS) è una rielaborazione della Politica del Sud inizialmente proposta dal presidente Lee Teng-hui nel 1994, e rivisitata da Chen Shui-bian e Ma Ying-jeou rispettivamente nel 2002 e nel 2008. La NpS ha l’obiettivo di “riallineare il ruolo di Taiwan nello sviluppo asiatico, cercare nuove direzioni e lo slancio per la nuova fase di sviluppo economico del paese.”[43]
In breve, la NpS è la continuazione, su scala più ampia, di uno sforzo trentennale per ridurre la dipendenza economica di Taiwan dal continente, in modo da rinforzare la sicurezza dell’isola. La NpS è rivolta a una base più ampia di partner economici rispetto al passato: oltre le partnership di lunga data con le dieci economie dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN), la NpS comprende otto economie in Asia meridionale e Australasia che sono strategicamente significative dal punto di vista demografico, economico e politico. Taipei spera che, con l’intensificazione dei rapporti commerciali e people-to-people con tali Stati, si sviluppino anche rapporti di sicurezza che favoriscano l’integrazione di Taiwan nel sistema Indo-Pacifico.[44]
Nel gennaio del 2020 Tsai è stata rieletta, a forte maggioranza, per un secondo mandato. Riconfermando Tsai alla presidenza, l’elettorato taiwanese ha idealmente inviato un forte messaggio a Pechino: Taiwan vuole mantenere il suo sistema e società democratici, e si oppone all’unificazione con la Rpc, specie su modello 1S2S. La credibilità di tale formula, tra l’altro, è stata praticamente azzerata dalla repressione decisa da Xi contro il movimento per la democrazia a Hong Kong nei mesi precedenti le elezioni a Taiwan. L’era Tsai, quindi, continuerà fino al maggio 2024.[45]
Il tavolo della lotteria strategica in cui Taiwan si trova ora a muoversi è diventato più largo e affollato di quanto lo fosse all’inizio dei giochi nel secondo dopoguerra. I grandi giocatori rimangono, però, sempre fondamentalmente due: la Cina e gli Stati Uniti d’America. Per Pechino, Taiwan è sempre più un problema che deve essere affrontato e risolto: con la seta o con l’acciaio. Le aspirazioni cinesi, però, trovano opposizione non solo nella resilienza democratica di Taipei, ma anche nella ferma volontà di Washington. Infatti, l’Amministrazione Trump e il Congresso continuano a dimostrare pieno appoggio a Taiwan allo scopo di rendere chiara alla Cina la determinazione degli Stati Uniti a garantire l’ordine di sicurezza in Asia orientale.[46] In questa situazione, l’esito della lotteria strategica è aperto. L’“isola di fronte alla Cina” può continuare a esistere come soggetto separato e distinto.
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[40]Atradius, Country Report Taiwan 2020, 15 aprile 2020, disponibile all’Url https://group.atradius.com/publications/country-report-asia-taiwan-2020.
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[45] Pam Kennedy, “Treading Choppy Waters: Cross-Strait Relations in Taiwan’s 2020 Presidential Election”, The Diplomat, 15 gennaio 2020, disponibile all’Url https://thediplomat.com/2020/01/treading-choppy-waters-cross-strait-relations-in-taiwans-2020-presidential-election/
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