Il ruolo di Bruxelles nella “nuova era” cinese

All’apertura dei lavori del 19° congresso del Partito comunista cinese, davanti a migliaia di delegati provenienti da tutta la Cina, il Segretario generale del partito e presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping ha pronunciato un discorso di tre ore e mezza: un “one-man show” in cui ha delineato le priorità del Pcc per il prossimo quinquennio. Il secondo – e in teoria ultimo – mandato alla guida del paese dovrebbe garantirgli il tempo necessario per continuare la lunga marcia verso il “ringiovanimento della nazione“, attraverso l’attuazione  delle riforme economiche e sociali che il paese aspetta da tempo. Entro il 2020 i vertici cinesi hanno promesso di realizzare una “società moderatamente prospera”, ma Xi Jinping proietta le aspettative dell’intera nazione al 2049, centenario della fondazione della Repubblica popolare, annunciando per quella data il raggiungimento di una società socialista moderna e sviluppata. Nel lungo monologo del segretario generale non sono mancati i riferimenti al nuovo orizzonte globale della politica cinese. Secondo il “sogno cinese” di Xi, la Cina sta oggi entrando in una “nuova era”, nella quale riacquisirà un ruolo centrale all’interno dell’arena globale.[1]

A pochi giorni dal congresso, che ha visto la definitiva ascesa di Xi nel pantheon dei padri della patria, l’Europa guarda con rinnovato scetticismo a Pechino, chiedendosi fino a che punto ci si potrà fidare delle ambiziose promesse pronunciate dal leader cinese.

 

L’effetto Trump non è per sempre

Un anno e mezzo fa, Europa e Cina sembravano a un passo dalla crisi commerciale, che rischiava di essere innescata dalla questione, tuttora irrisolta, del riconoscimento dello status di economia di mercato alla Cina.[2] Ottenere il riconoscimento del sistema economico cinese come pienamente rispondente ai valori e alle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio è uno degli obiettivi più ambiti da Pechino: aprirebbe definitivamente le porte dei mercati europei ai prodotti cinesi, in particolare a quelli legati ai settori metallurgico, chimico e tessile. Beni sovente venduti a un prezzo artificialmente basso, perché realizzati da industrie che ricevono ingenti sussidi dallo stato cinese: concorrenza sleale, secondo alcune grandi aziende e vari stati membri europei. Nonostante la decisione di non concedere il riconoscimento a Pechino avesse sollevato numerose polemiche, nei primi mesi del 2017 la questione è andata scemando. Molti hanno convenuto sul fatto che la causa di una simile, inaspettata e momentanea rappacificazione possa essere stata l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Le controverse scelte di politica estera e commerciale del nuovo presidente degli Stati Uniti hanno sconcertato l’Europa, abituata a guardare oltre l’Atlantico per trovare il sostenitore più fermo del libero commercio.

 

Durante il discorso sullo stato dell’Unione dello scorso 13 settembre il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha annunciato la creazione di un sistema di monitoraggio degli investimenti stranieri negli stati membri. Una decisione da molti vista come un modo per garantire un maggiore controllo sui capitali cinesi sempre più proiettati verso l’Europa (immagine: Xinhua).

 

Quando gli slogan protezionistici di Trump hanno iniziato ad essere trasformati in ordini esecutivi, Xi Jinping si è affrettato a reclamare per sé il posto vacante di leader del mondo globalizzato e promotore del libero scambio; ha sfruttato la piattaforma del World Economic Forum, a Davos, per ribadire al mondo intero che “la globalizzazione è un vasto oceano da cui non si può fuggire”. La nuova retorica globalista, incidentalmente, si accorda alla perfezione con la necessità di promuovere l’ambizioso progetto della Nuova Via della Seta, pilastro della strategia politica ed economica di Xi Jinping. Il progetto, che prevede la creazione di corridoi finanziari e commerciali lungo il sud-est asiatico e l’Asia centrale, fino all’Europa, creerà nuove prospettive per l’approvvigionamento energetico cinese, accrescerà la presenza cinese all’estero e permetterà di mitigare gli effetti dell’eccesso di produzione di alcuni comparti manifatturieri cinesi. Infine, potrebbe rappresentare l’alternativa sino-centrica allo stato attuale del commercio globale, con l’Europa che privilegia le relazioni transatlantiche. Nonostante il malcontento verso la controparte americana e la volontà cinese di approfondire le relazioni con il vecchio continente, però, l’Europa continua ad apparire scettica verso una crescente presenza cinese. Non basta dunque l‘“America first“ di Trump a far cadere Bruxelles tra le braccia di Xi Jinping.

 

Europa e Cina: criticità irrisolte

Che Pechino e Bruxelles siano economicamente legate a doppio filo è ormai un dato di fatto. La Cina è il primo esportatore in Europa e rappresenta a sua volta il secondo mercato per le esportazioni europee, secondo solo agli Stati Uniti.[3] Tuttavia, i negoziati avviati nel 2013 per siglare un accordo di scambio bilaterale stentano a giungere a una conclusione. Al tavolo delle trattative, Bruxelles denuncia la mancanza di trasparenza da parte della propria controparte: le discriminazioni economiche nei confronti delle aziende straniere che desiderano accedere al mercato cinese e la scarsa protezione della proprietà intellettuale rimangono materia di scontro.

D’altro canto, nel progressivo cammino della Cina verso la realizzazione di una società moderatamente prospera e caratterizzata da un’economia trainata dai consumi, le aziende cinesi hanno compreso che gli enormi investimenti nei reparti di ricerca e sviluppo non sempre sono sufficienti a far fare ai propri prodotti il salto di qualità richiesto dai mercati. L’Europa, che possiede un patrimonio significativo in termini di know-how e innovazione tecnologica, è quindi diventata una meta strategica per gli investitori cinesi, che portano avanti principalmente acquisizioni e fusioni con società europee riuscendo ad acquisire in questo modo anche brevetti, capacità tecnologiche e altri asset strategici. Al contrario, sono pochissime le aziende europee che riescono ad acquistare una controparte cinese: lo strumento privilegiato per accedere al mercato sono le joint-venture, che comportano anch’esse la condivisione delle conoscenze.

Per questo, in Europa si fa sempre più strada la paura che, permettendo investimenti incontrollati nel vecchio continente, le aziende autoctone finiranno per perdere il vantaggio competitivo della superiorità tecnologica. La mancanza di reciprocità e il malcontento per l’arrivo sul mercato europeo di beni cinesi a basso prezzo ha portato Bruxelles ad adottare una serie di contromisure, tra cui tariffe anti-dumping verso certi beni d’importazione: uno dei primi, controversi casi è stato quello delle tariffe imposte dall’Ue sui pannelli solari di produzione cinese, in atto dal 2013, che hanno innescato la “rappresaglia” cinese contro le importazioni di vino dall’Europa.[4]

Più recentemente, nel discorso sullo stato dell’Unione dello scorso settembre, il presidente della Commissione Juncker ha annunciato la creazione di un piano di screening e valutazione degli investimenti stranieri diretti in Europa, con l’obiettivo di limitare le acquisizioni in settori considerati strategici.[5] Nell’ottica della Commissione, le acquisizioni cinesi (e non solo) in settori strategici come quello energetico o della meccanica di precisione, così come l’acquisto di infrastrutture, devono avvenire con trasparenza, e gli europei non devono essere “sostenitori ingenui del libero commercio”.

In realtà, nella stessa Unione manca una visione condivisa sugli investimenti stranieri, e cinesi in particolare: tra gli scettici, sostenitori del meccanismo di monitoraggio voluto da Juncker, ci sono Francia, Germania e Italia. L’Olanda e i paesi scandinavi, tradizionalmente fedeli ai principi del libero scambio, non vedono di buon occhio l’iniziativa: temono una guerra commerciale e criticano il meccanismo di supervisione, il quale non essendo legalmente vincolante mancherebbe di efficacia e rischierebbe di appesantire inutilmente l’iter burocratico. Altri stati membri, come Grecia e Portogallo, si sono affidati agli investimenti cinesi per mitigare gli effetti della crisi economica, innescando un meccanismo di dipendenza. L’Europa appare, ancora una volta, divisa sulla strategia da adottare verso Pechino.

Nonostante con l’elezione di Trump l’Unione europea abbia perso un partner strategico importante nella promozione del libero scambio, non sembra vi siano le condizioni per un cambio di rotta repentino verso oriente. Resta il fatto che Pechino continuerà a usare le imprese per perseguire le proprie strategie internazionali e l’Unione europea non potrà quindi esimersi dall’elaborare una propria visione strategica su cui impostare i rapporti politici e commerciali con la Cina.

 

 

 

 

[1] Tom Mitchell e Lucy Hornby, “Xi Jinping hails ‘new era’ at opening of China congress”, Financial Times, 18 ottobre 2017.

[2] Hans Von Der Burchard, Giulia Paravicini e Jakob Hanke, “Europe and China: The uneasy truce“, Politico, 1 giugno 2017, disponibile all’Url https://www.politico.eu/article/europe-and-china-the-uneasy-truce-market-economy-export.

[3] Dati della Commissione europea, consultabili all’Url http://ec.europa.eu/trade/policy/countries-and-regions/countries/china/.

[4] Joshua Chaffin, “EU and China settle trade fight over solar panels”, Financial Times, 27 luglio 2013.

[5] Eric Maurice, “EU preparing to screen Chinese investments”, EUrobserver, 14 settembre 2017, disponibile all’Url https://euobserver.com/economic/139015.

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