Il processo di pace in Myanmar

Il Myanmar contiene al suo interno una realtà politica e sociale molto variegata: ci sono 135 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti dal governo, numero che deve dunque essere aumentato per riflettere la realtà sul terreno. Questo panorama di frammentazione è anche una delle ragioni per le quali il Paese è stato lungamente lacerato da guerre interne. In Myanmar hanno avuto luogo alcune delle insurrezioni di più lunga durata della storia: i Karen raccolti nella Karen National Union (KNU), per esempio, si sono sollevati contro il governo già nel 1949 (un solo anno dopo l’indipendenza del paese) e hanno sottoscritto il primo cessate-il-fuoco della loro storia nel 2012. Il caso Karen è forse quello più celebre in Occidente, ma vi sono numerosi altri gruppi armati, alcuni dei quali dotati di consistenza numerica tutt’altro che esigua. Vale la pena menzionare almeno altri due gruppi maggiori attivi ancora oggi: lo United Wa State Army (UWSA), basato nello Stato Shan e in grado di mobilitare all’incirca 25.000 uomini, e la Kachin Independence Organization (KIO), che opera nel Stato Kachin e che si trova in uno stato di aperta belligeranza con il governo dal 2011.

Dato questo panorama, le forze armate nazionali – il Tatmadaw, ufficialmente anche al governo dal 1962 al 2010 – hanno rivolto le loro attività prevalentemente verso problemi di sicurezza interna piuttosto che internazionale. Anche se storicamente governo e forze armate hanno fatto abbondantemente ricorso alla controinsurrezione di tipo forzoso (la cosiddetta strategia dei “Quattro tagli”, volta a contenere o eliminare le fonti di informazione, finanziamento, reclutamento e approvvigionamento di cibo dei ribelli), non sono mancati approcci di tipo diverso. In particolare, va menzionata la stagione dei cessate-il-fuoco, aperta dal governo a partire dal 1989. Da tale data in avanti sono stati sottoscritti diversi accordi relativamente elementari, che pur non risolvendo nessuna delle istanze politiche sul tappeto, hanno di fatto congelato le ostilità tra il potere centrale e diverse milizie etniche. In particolare, sia l’UWSA sia la KIO hanno concordato un cessate-il-fuoco in questo periodo, rispettivamente nel 1989 e nel 1994. Non ha seguito lo stesso sentiero la KNU, che è invece rimasta in una condizione di aperta belligeranza e ha dunque patito una progressiva perdita di influenza e di controllo territoriale, sia a causa delle offensive del Tatmadaw sia di importanti defezioni (nel 1994 una fetta cospicua della KNU ha abbandonato l’organizzazione madre per costituire il Democratic Karen Buddhist Army – DKBA).

L’avvio della transizione in Myanmar, a partire dall’introduzione della nuova costituzione nel 2008, non ha contribuito immediatamente a ridurre la tensione tra governo e insurrezioni etniche; al contrario, l’ha aumentata, soprattutto a causa del cosiddetto Border-guard forces plan (o BGF Plan), lanciato nel 2009, che si riproponeva un graduale assorbimento delle milizie etniche all’interno di unità di guardie di confine, integrate dunque nel Tatmadaw. Il piano è stato accolto con estrema diffidenza dagli insorti, che lo hanno visto come un modo per smobilitare le loro forze militari e dissolvere i loro quadri politici, senza di fatto riconoscere nessuna delle loro istanze. L’unica organizzazione maggiore che ha accettato il BGF Plan è stato il DKBA, il quale però ha avuto sin dalla sua origine una lunga storia di collaborazione con il governo.

L’amministrazione di Thein Sein ha preso atto di come l’approccio tentato con il BGF Plan sia stato un fiasco, e di come fosse necessario immaginare un percorso diverso per il processo di pace. Dopo aver abbandonato il BGF Plan, nell’agosto 2011 è stato lanciato il cosiddetto “piano Thein Sein”, volto ad avviare un dialogo più profondo, con l’intento di raggiungere un cessate-il-fuoco su scala nazionale e superare così il modello tradizionale di cessate-il-fuoco bilaterali. Il piano Thein Sein è costituito da tre livelli: 1) sottoscrizione e attuazione di cessate-il-fuoco a livello locale (stato o regione); 2) dialogo politico, programmi di sviluppo economico e misure di costruzione della fiducia gestiti a livello nazionale; 3) stipula di un accordo di “pace perpetua” di fronte al parlamento e alle altre autorità. Dal punto di vista fattivo, vale la pena menzionare almeno due dimensioni in cui il piano ha preso corpo. La prima di queste riguarda la messa in campo di team negoziali di alto profilo da parte del governo, che hanno incluso figure politiche di spicco quali Aung Min (ministro delle ferrovie fino al 2012, poi ministro del gabinetto del presidente), Aung Thaung (ex-ministro dell’industria-1) e Thein Zaw (ex-ministro delle comunicazioni). Questi team sono riusciti nell’intento di rinnovare alcuni cessate-il-fuoco (tra cui quello con l’UWSA) e di sottoscriverne di nuovi (tra cui quello con la KNU e con altre organizzazioni armate maggiori che non avevano in precedenza sottoscritto accordi). La seconda è relativa invece all’organizzazione di un gruppo che riunisce 16 milizie etniche, chiamato Nationwide Ceasefire Coordinating Team (NCCT), costituitosi a Laiza (Stato Kachin) nel 2013, con il consenso del governo. Circa il NCCT è interessante osservare che la più grande milizia etnica attiva in Myanmar, l’UWSA, non ne fa parte (si limita a partecipare ai lavori come osservatrice). Vale anche la pena menzionare che la KIO, che dopo una fase di cessate il fuoco avviata nel 1994 è tornata in condizione di ostilità aperta con il governo nel 2011, ha originariamente fatto parte del gruppo costituito a Laiza.

Questi lavori preparatori, uniti ai numerosi round negoziali che ne sono seguiti, hanno generato alte aspettative circa la stipula di un cessate-il-fuoco nazionale, una bozza del quale è stata firmata a Yangon il 31 marzo di quest’anno. Nonostante l’ottimismo generato dal raggiungimento di questo risultato, la bozza non si è poi tradotta in un risultato definitivo anche a causa di alcuni fattori strutturali legati al processo di pace. In particolare, va notato che i gruppi parte del NCCT sono molto diversi tra di loro per peso relativo, potere, ambizioni e rivendicazioni, ed è dunque relativamente facile che un singolo accordo non accontenti tutti allo stesso modo. Infatti, quando si è passati dalla sottoscrizione della bozza da parte dei delegati dei gruppi etnici alla sua effettiva ratifica da parte delle relative leadership i nodi sono venuti al pettine. Ciò è anche connesso al fatto che alcuni gruppi parte del NCCT si trovavano a marzo (e si trovano ancora oggi) in condizione di aperta belligeranza con il governo e non erano dunque nemmeno presenti all’atto della sottoscrizione della bozza (tra questi la KIO).

Il contraccolpo generato dal fallimento della bozza di cessate-il-fuoco di marzo ha portato a una ridefinizione del NCCT, che è stato abbandonato da diversi gruppi minori, e ha generato una ridefinizione della sua leadership. Il processo di pace è tuttavia continuato, anche se con minor slancio, anche a causa delle incognite elettorali che di fatto lo hanno congelato, in attesa di veder definita la nuova compagine governativa. In questo clima, si è giunti a un nuovo accordo, siglato a Naypyitaw il 15 ottobre 2015. La portata di tale accordo è di gran lunga meno ambiziosa rispetto al precedente, poiché 7 membri su 15 del NCCT hanno declinato l’invito a prendere parte al processo, e dunque soltanto in 8 hanno firmato il nuovo accordo. Si tratta di un risultato dimezzato, che contiene luci e ombre. In negativo, va osservato che nonostante la KNU abbia sottoscritto l’accordo, gli altri due gruppi maggiori menzionati in apertura di questo articolo ne restano fuori. La KIO permane in guerra aperta con il governo, mentre l’UWSA, per quanto rimanga in una condizione di quiete garantita dal suo cessate-il-fuoco, si mantiene ai margini, probabilmente cosciente del fatto di essere la più potente organizzazione armata, non in mano allo stato, attiva nel paese, e desiderosa dunque di giocarsi la sua partita separatamente. In positivo va però osservato che i processi di pace sono lunghi e difficili, e quello birmano lo è in particolare, anche a causa dell’elevato numero di attori che vi prende parte. L’accordo di ottobre, se non altro, costituisce un piccolo passo in avanti, che ha dimostrato la volontà del governo di fare sul serio e il suo desiderio di raggiungere risultati concreti, ottenendo un punto fermo prima della fase di stallo legata alle elezioni. La speranza è che questo messaggio relativo alla credibilità dell’impegno da parte del governo sia ripreso dalla prossima amministrazione e sia veicolato con la massima energia nei confronti delle controparti, in specie quelle che ancora non ritengono opportuno deporre le armi.

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