Il partenariato tra Italia e Cina alla prova

Mentre i nuovi leader del Partito-Stato cinese iniziano a proiettare la “Cina 3.0” sul proscenio globale, in Italia il neo-costituito Governo Letta articola le priorità della propria politica estera per voce del ministro Emma Bonino: una “diplomazia per la crescita,” il potenziamento del profilo politico dell’Unione europea, e un’efficace gestione delle crisi internazionali. Esiste una finestra di opportunità importante in questa pressoché sincronica transizione ai vertici delle diplomazie di Pechino e Roma: la Repubblica popolare cinese (Rpc) è alla ricerca di una formula innovativa che le consenta di interpretare un ruolo meno reattivo in un contesto internazionale che legge come tuttora “minacciato da egemonismo, politica di potenza ed episodi di neo-interventismo.” (cfr. White paper on China’s armed forces, aprile 2013). L’Italia, per contro, è chiamata a restituire respiro alla propria politica estera dopo la parentesi “di servizio” del precedente governo tecnico. La definizione di un novero stringente di obiettivi nel quadro di un governo di larghe intese trasmette di per sé un senso di maggiore chiarezza d’intenti e – auspicabilmente – di prospettiva oltre l’attuale ciclo politico: ampliare in modo consapevole l’orizzonte dei partner con cui perseguire i medesimi obiettivi conferirebbe alla politica estera italiana una dimensione più compiutamente strategica.

A dieci anni dalla sigla del “partenariato strategico” tra Roma e Pechino, la Cina è tanto più un candidato naturale in questo senso in quanto essa stessa è da tempo orientata a una ri-nazionalizzazione del proprio approccio verso lo spazio europeo dopo la fine della “luna di miele” con l’Unione europea a metà degli anni 2000. Il governo cinese sta perseguendo un’ambiziosa agenda di costituzione di piattaforme all’interno di decine di atenei su tutto il territorio nazionale con l’intento di vederle fungere al contempo da generatori di competenze e hub di relazioni accademiche e politico-istituzionali bilaterali dedicate a un ampio spettro di paesi sinora relativamente trascurati. L’Italia è uno di questi e sarà importante osservare quali risposte essa saprà offrire rispetto al tentativo di Pechino di rivitalizzare la comunità d’attenzione cinese impegnata sui rapporti sino-italiani; la costituzione del Center for Italian Studies presso la Zhejiang University – di cui si dà conto nel box “Segnalazioni” – è da leggersi anche in questo contesto.

Gli interessi nazionali italiani, così come vengono articolati dal ministro Bonino, presentano vari profili di convergenza rispetto a due indirizzi strategici che la “Quinta generazione” pare orientata a seguire nel proprio decennio alla guida della Rpc, ossia sfruttare appieno questa fase di “opportunità strategica” per consolidare lo sviluppo socio-economico nazionale e ri-calibrare la tradizionale adesione alla “dottrina Deng” in politica estera – “si mantenga un basso profilo, ma facendo qualcosa” (taoguang yanghui yousuozuowei, 韬光养晦有所作为) – ponendo maggiore enfasi sulla sua seconda parte.

L’Italia ha un triplice ruolo da giocare: a livello bilaterale essa è chiamata anzitutto a sollecitare e rispondere in modo fattivo alla crescente domanda di investimenti nelle due direzioni, funzionali alla condivisione di dotazioni tecnologiche e competenze di processo, tanto nel settore manifatturiero, quanto soprattutto in quello emergente dei servizi. Nel contesto europeo, essendo maturata a Pechino la convinzione che il progetto dell’Euro non sarà compromesso dalla crisi come il maggiore ostacolo nelle relazioni Ue-Cina, a Roma spetta contribuire al dibattito sulla stipula di un trattato Ue-Cina in tema di investimenti, tema spinoso perché legato alle asimmetrie di accesso ai mercati cinese ed europeo, alle recenti abrasioni in fatto di pratiche di dumping, e al mancato accordo su un nuovo Partnership and Cooperation Agreement. Al contempo, come già accaduto per mezzo di autorevoli esponenti quali Tommaso Padoa Schioppa nell’ambito della Palais-Royal Initiative, l’Italia possiede credenziali adeguate per agevolare nuove formule di confronto tra Cina e Unione europea allo scopo di concepire meccanismi e fora di governance globale capaci di contemperare gli interessi dei paesi avanzati con quelli dei paesi emergenti, stemperando così le ansie di Pechino per il diffondersi di tendenze a un “contenimento blando” della Cina. In terzo luogo, nell’altro quadro regionale di cui l’Italia fa parte – quello mediterraneo, alquanto trascurato negli anni passati – la Cina ha una presenza ancora modesta e insicura ma destinata a svilupparsi in modo poderoso, ed è un attore sempre più determinante tanto per la promozione della stabilità nell’area (si pensi all’impasse siriana, ma anche al contributo delle zone economiche speciali cinesi per lo sviluppo in Africa), quanto per la capacità di produrre un effetto-traino rispetto allo sviluppo del naturale hub logistico dell’intera regione, il Mezzogiorno italiano. Questa dinamica è in fase appena incipiente e la natura seminale di una consapevole interlocuzione tra Italia e Cina nell’area è corroborata dalla condizione di tabula rasa determinata dagli eventi dell’ultimo biennio, oltre che dalla specificità degli interessi italiani, che tradizionalmente non si traducono in un’agenda di proiezione di potenza.

Affinché le opportunità che si presentano in questo particolare frangente storico possano essere colte, tuttavia, vi sono fattori ostativi di carattere strutturale con cui occorre confrontarsi con risolutezza in entrambi i paesi. In Cina, la nomina Wang Yi – diplomatico già di stanza a Tokyo – a capo del Ministero degli Esteri lascia prevedere un più marcato (e comprensibile) focus asiatico per la diplomazia cinese e una compressione dell’attenzione riservata all’Europa nel suo complesso. Il fatto che Wang sia noto per la sua apertura a sollecitazioni provenienti dal variegato mondo dei think-tank e alle istanze di dialogo Track II è un fattore potenzialmente mitigante, ma perché ciò sia vero occorre che i sempre più sofisticati accademici e analisti cinesi migliorino la propria capacità di interagire in chiave di effettiva reciprocità rispetto ai propri partner di dialogo europei. In Italia, la sfida è sviluppare un dibattito interno complessivamente più articolato e informato rispetto all’impatto che una “Cina 3.0” produrrà sull’ordine internazionale e sugli interessi italiani, che – tanto in chiave economica, quanto in termini di sicurezza nazionale – si determinano in modo crescente al di là dei confini della penisola, e invero anche dell’Unione europea. Un’analisi dei lavori del Parlamento italiano durante la XVI legislatura (2008-2012) risulta istruttiva a questo proposito, mostrando (vedi grafico) come in circa il 90% dei casi le discussioni che preludono o conducono all’adozione di atti formali – interrogazioni, interpellanze, mozioni, strumenti legislativi – relativi alla Cina siano improntate a una rappresentazione di tale paese principalmente in termini eminentemente negativi.

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