Il mito dell’“invasione” economica cinese

Sin dall’inizio di questa crisi economica, dalla quale l’Occidente pare non riuscire a risollevarsi, si è guardato a un intervento economico cinese in Europa con un misto di timore e speranza: timore per il rischio di una possibile “invasione” straniera, speranza per gli auspicabili effetti curativi che gli abbondanti capitali cinesi potrebbero avere sulle economie europee.

Nel caso dell’Italia, le discussioni si sono riaccese di recente allorquando si è diffusa la voce di un possibile acquisto su larga scala di titoli di debito pubblico italiano da parte di istituzioni cinesi. A dispetto degli annunci trionfali e degli allarmismi, in Italia, così come nella maggior parte dei paesi europei e occidentali, la presenza economico-finanziaria cinese è ancora debole e non vi sono elementi che facciano pensare ad un sostanziale cambiamento in un immediato futuro.

Per valutare il rischio di un’“invasione cinese”, vi è poi un precedente da considerare: il Giappone degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Come dimostrato da diversi studi, il modello di sviluppo economico cinese presenta diverse affinità con quello giapponese. Ciò vale in particolare per la crescita degli investimenti all’estero. Oggi è la Cina sotto i riflettori dei media, mentre negli anni ’80 lo era la temuta invasione giapponese. Il paese del Sol Levante era da più parti accusato di coltivare mire espansionistiche di natura economica. È stato osservato come la traiettoria di crescita degli investimenti esteri giapponesi nel periodo 1968-1982 presenti forti somiglianze con quella degli investimenti cinesi nel periodo 1988-2002. Se l’espansione del Giappone all’estero era principalmente finalizzata a porre rimedio al surplus produttivo interno e a sostenere settori industriali in forte declino (tra cui quello automobilistico, l’industria pesante, la petrolchimica), gli investimenti esteri cinesi mirano principalmente all’acquisto di materie prime. Vi è però un elemento comune ai due fenomeni, senza il quale non sarebbero stati possibili su tale scala: il ruolo centrale dello Stato (attraverso le sue diverse articolazioni amministrative) nel finanziare, direttamente o indirettamente, tale espansione.

Le strategie economiche di Cina e Giappone presentano una serie di elementi comuni, fra i quali in particolare: la forte sottovalutazione delle monete nazionali per sostenere le esportazioni, e la scelta di utilizzare il surplus commerciale per finanziare l’espansione internazionale delle imprese. Così come la Cina oggi, anche il Giappone degli anni ’70 ed ’80 presentava una valuta fortemente (e consapevolmente) sottovalutata, nonostante le pressioni internazionali per una sua rivalutazione. Tale rivalutazione in effetti avvenne dopo l’Accordo del Plaza del 1985, portando alla bolla speculativa del periodo 1986-1991 e, successivamente, alla cosiddetta “decade di smarrimento” (oggetto di una dettagliata analisi in un documento del Fondo Monetario Internazionale del 2000).

Per rendere ulteriormente l’idea delle somiglianze tra caso cinese e giapponese, si può ricordare che nel 1986 il Giappone vantava il più grande avanzo commerciale mai registrato della storia e che, nel 1990, tutte e cinque le più grandi banche al mondo per capitalizzazione erano giapponesi. Entrambi i primati sono oggi detenuti dalla Cina. Il 22 luglio 2005 le autorità cinesi annunciarono di voler interrompere l’ancoraggio dello yuan (la valuta nazionale cinese, ufficialmente nota come “renmimbi”) al dollaro, favorendone il graduale apprezzamento. Il surplus commerciale tuttavia ha continuato a crescere e vi sono evidenti elementi di squilibrio quali una forte inflazione, una preoccupante bolla immobiliare e una forte volatilità delle borse. È in questo contesto che continuano a crescere gli investimenti cinesi all’estero.

Sembra pertanto che la forte espansione degli investimenti cinesi sia un segno più di fragilità che di forza. Come avvenuto nel caso del Giappone, è ragionevole presumere che non avverrà alcuna invasione economica dell’Occidente ad opera della Cina. Non è chiaro, però, quali scelte strategiche Pechino intenda adottare per riequilibrare l’economia cinese per renderne la crescita sostenibile. Le autorità cinesi guardano proprio alla vicenda economica del Giappone per non incorrere negli stessi errori. Portare l’economia cinese a un atterraggio morbido (softlanding) è di gran lunga la sfida più impegnativa cui il Partito comunista cinese è chiamato da molti anni a questa parte e il margine di errore, in presenza di un sistema politico autoritario relativamente bloccato e di una società in costante sommovimento e percorsa da significative linee di faglia (reddituali, geografiche, etnico-religiose…), appare minimo.

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