Il fattore umano nel decision making

Il decision making è l’arte di decidere. In altre parole, può essere definito come l’atto di scegliere tra possibilità alternative. Nello studio e nell’analisi dei conflitti è fondamentale prestare attenzione a questi processi con riferimento alle diverse fasi di genesi, sviluppo ed eventuale soluzione delle crisi, dove attori diversi (non limitati dunque ai soli stati) agiscono in uno spazio geopolitico multidimensionale, ossia non determinato dalle sole dimensioni geografica, politica ed economica. Comprendere il comportamento di tanti stakeholder in un conflitto combattuto su un terreno di scontro a più livelli richiede una conoscenza granulare della situazione, pur senza perdere la visione di insieme. L’impresa non è semplice, tantomeno se gli strumenti sono obsoleti.

Nel mondo occidentale, i metodi di lettura e di supporto del processo di decision making in situazioni di conflitto possono essere ricondotti principalmente a due macro-approcci: “classico” e “cibernetico”. Il primo mutua i suoi strumenti in gran parte dall’economia e dalla teoria dei giochi e fa della massimizzazione dell’utilità la propria stella polare. Il calcolo politico viene basato su due variabili principali, utilità e probabilità. Il decisore, idealmente a conoscenza di tutte le possibili alternative, sceglierà quella con il valore ponderato più alto – decisione associata alla nozione di razionalità. È noto ormai da tempo che un comportamento effettivo di questo genere non è possibile e che comunque si applica efficacemente soltanto in un “gioco a somma zero” fra due attori. In un gioco di tipo diverso o nel quale tre o più attori siano coinvolti, anche ammesso che ciascuno riesca a determinare con certezza il proprio “maximin” (cioè come massimizzare il guadagno minimo o minimizzare la massima perdita), il numero di variabili e di possibili strategie aumenta in misura esponenziale al crescere del numero degli attori. Non è difficile comprendere che i conflitti odierni non possono essere letti in maniera esaustiva attraverso questa lente, la quale ha faticato parecchio anche con i conflitti interstatali classici (per non parlare del fenomeno del terrorismo internazionale). Eppure una parte considerevole dei metodi analitici per la valutazione e la gestione del rischio si basano su indici legati linearmente al modello classico.

Il secondo macro-modello si fonda sulla critica del primo, e si basa sulla rivalutazione dei modelli cibernetici del decision making, basati sull’analisi qualitativa delle opzioni a disposizione. In questo caso, obiettivo dell’analisi non è provvedere degli indici di costo-opportunità, ma ridurre al minimo il numero di elementi da considerare. La complessità decisionale viene quindi scomposta in elementi più semplici. Questo processo avviene attraverso l’identificazione di alcuni driver principali per mezzo di un approccio olistico. Detto altrimenti, il decisore osserva un set limitato di variabili critiche e le usa come metro della situazione per tarare il proprio processo decisionale. La maggiore semplicità non risolve tuttavia i problemi legati a scenari di tipo complesso. Gli approcci cibernetici dipendono inoltre dalle preferenze del decisore, che valuterà in base a criteri soggettivi quali percezione, conoscenza del teatro e degli attori, convinzioni, pressioni politiche e perfino livello di stress.

Entrambi gli approcci e gli strumenti analitici che ne derivano sono limitati dal fatto che i decisori possono effettuare le loro scelte senza avere esatta consapevolezza dell’impatto del proprio operato per ciascuna opzione a disposizione, oppure semplicemente muoversi su una scala di obiettivi diversa dal ragionevole perseguimento del miglior interesse “razionalmente” definito. Inoltre il decision making nei conflitti contemporanei non è legato esclusivamente allo stato che decide come, quando e perché intervenire. I modelli di lettura – e quindi di supporto – della decisione politica, già in crisi precedentemente, ricevono dunque il colpo di grazia. Non si può leggere o prevenire il comportamento di attori per i quali l’elemento di razionalità pensato per schemi sociali rigidi e per gli apparati burocratici di stato non vale. Inoltre, a onor del vero, nemmeno per quel tipo di attori è stata mai raggiunta una sistematizzazione delle conoscenze sulla gestione delle crisi e dei conflitti tale da poter offrire al decisore una base di appoggio certa. Progetti ambiziosi come l’International Crisis Behaviour Project, che ha osservato un campione di 278 crisi internazionali in un periodo di cinquant’anni, sono stati rivelatori in tal senso. In sintesi, il moltiplicarsi degli attori (per numero e per tipologia), delle loro relative scale di valori (non sempre omogenee) e del numero degli elementi che un decisore deve tener presente, rende evidente il grande livello di imprevedibilità inerente crisi e conflitti.

Sebbene una “teoria delle crisi” non possa verosimilmente esistere né avere dei risvolti esecutivi, vale la pena tentare una nuova chiave di lettura che non sia basata sull’analisi del comportamento degli attori macroscopici ma che parta dalla lettura in profondità dello spazio geopolitico nel quale la crisi o il conflitto prende luogo. Il concetto di human terrain è interessante a questo proposito, perché permette di penetrare un contesto dalla sua dimensione macro agli aspetti più granulari. Oggi la libertà di accesso alle informazioni e ai social media fanno di ciascun individuo un potenziale combattente. I gruppi di hacker sono combattenti nel cyberspazio, il facoltoso potente locale può avere la propria milizia personale, e così via. In un ambiente del genere, i dilemmi sul decision making sono amplificati di diversi ordini di grandezza e lo scenario nel quale si svolge l’azione politico-militare non è più uno spazio geografico dato ma una dimensione in divenire. Questo rivoluziona il concetto di intervento politico-militare e di Marco Giulio Barone “A differenza di un campo di battaglia, il campo delle decisioni non si può riassumere con un plastico” soprattutto la validità dello stesso in assenza di una lettura chiara di quali siano i ruoli di combattimento (o cinetici) e non, e di come il decisore (statale o non) possa assegnare i ruoli da svolgere a ciascuna risorsa di cui dispone (sia esso un ingegnere informatico a contratto, un foreign fighter, un ufficiale militare).

Mettere il “terreno umano” al centro del processo di decision making comporta una rivoluzione potenzialmente strutturale del crisis/conflict management: l’attore che intendesse agire da erogatore di sicurezza (security provider) deve articolare tale attività a tutti i livelli e le decisioni da prendere devono essere ripartite tra tutti i soggetti coinvolti, dal singolo uomo sul terreno al decisore di vertice. Questa rivoluzione si articola in quattro punti fondamentali:

  1. L’azione politico-militare non si svolge in reazione a un dato evento in uno spazio geopolitico per quanto possibile conosciuto. Piuttosto, il campo di azione va rimodellato preventivamente dal security provider se questi vuole che la sua azione sia efficace. In alternativa, come abbiamo evidenziato, le variabili da tenere in considerazione sono talmente tante che anche le strategie più sofisticate soffrono un rischio di fallimento sempre più elevato. Questo approccio non è certo semplice, ma ci sono già degli esempi di attori che, con risorse molto inferiori a quelle di uno stato, fanno scuola su come il terreno umano possa essere ripensato e applicato per permettere al proprio strumento politico-militare di esprimere meglio le proprie capacità. L’esempio più permeante è quello dello Stato Islamico (Daesh). Difficile valutare quanto coscientemente Daesh abbia perseguito il pervertimento dello spazio geopolitico tra Siria e Iraq attraverso narrative di tipo ideologico e militare, ma chiaramente è riuscito nella creazione di un ambiente fisico, mediatico, politico (soprattutto locale), e così via, congeniale al proprio modus operandi. Paradossalmente, ha costretto l’avversario a scontrarsi sul proprio terreno preferito, sia in “Siraq” che in Europa. Questo terreno non sempre è materiale, ma ha anche una dimensione cyber, una economica ed una psicologica. La preparazione ex-ante dello spazio geopolitico sul quale esprimere la propria decisione è fondamentale per garantire maggiori probabilità di successo e non subire lo scenario.
  2. L’azione politico-militare non può più svolgersi focalizzandosi sui centri di gravità tradizionalmente intesi. Lo hanno ben compreso gli Stati Uniti, dopo aver ripetutamente applicato, fallendo, un impianto strategico-dottrinale derivato da quello della seconda guerra mondiale: colpire il nemico ai suoi centri nevralgici puntando sulla superiorità numerica e tecnologica. Un concetto difficile da applicare in teatri sui quali insistono attori multipli, sistemi di alleanze variabili, asimmetria e ibridità tra stato e non-stato e spazio geopolitico multidimensionale. Il centro di gravità di un moderno scenario non è dato ma mutevole, l’ambiente operativo potrebbe non apparire come un conflitto aperto, nondimeno richiedere il dispiegamento dell’elemento militare. La seconda guerra del Golfo è stata combattuta in maniera esemplare dalle truppe statunitensi, che hanno preso Baghdad in tempo record. Tuttavia, lo spazio geopolitico iracheno non è stato rimodellato prima, durante e dopo l’operazione per garantirne la massima efficacia. Al successo militare non è seguito quello politico, mentre la mancanza di controllo sullo spazio geopolitico ha per contro sbilanciato gli equilibri locali in favore di attori più abili a crearne uno nuovo.
  3. Come conseguenza del punto di cui sopra, l’azione militare (reale o potenziale) rimane il cuore di un intervento in situazione di crisi o di conflitto, ma senza rimodellare il campo di battaglia prima e durante l’impiego della forza, l’elemento militare perde di impatto. Questo crea serie difficoltà di attribuzione dei ruoli. Il security provider avrà mansioni sia civili che militari. Infatti, le expertise necessarie per modellare lo scenario provengono prevalentemente dal mondo civile (comunicazione, psyops, diplomazia, ecc.) e devono plasmare, per quanto possibile, l’ambiente operativo all’interno del quale la componente militare deve svolgere la sua missione per fare in modo che questa sia più efficace possibile nel conseguimento dei suoi obiettivi. Chi volesse abbracciare un impianto dottrinale basato sul terreno umano dovrà essere in grado di trovare un bilanciamento ottimale tra “civili in divisa” e “militari con expertise civili”.
  4. Un contesto multidimensionale dinamico richiede che le risorse civili e militari siano estremamente flessibili. Maggiore è la capacità di modellare lo scenario in funzione dello strumento di cui si dispone, minore sarà lo sforzo richiesto per adeguare lo strumento allo scenario. Il concetto di Human Terrain System (HTS) utilizzato dagli Stati Uniti con l’inserimento di figure professionali non strettamente militari è stato talvolta additato come non etico. Anche in questo caso il decisore deve valutare se subire il contesto esterno per scelta etica sia più accettabile che volgerlo a proprio vantaggio. Ad esempio, l’operato degli attori non statali dimostra quanto l’impatto mediatico o le leve psicologiche siano relativamente economiche da utilizzare. Al contrario, i costi di una missione di peacekeeping sono esosi e difficili da sostenere per periodi prolungati, per non parlare del costo di sistemi d’arma sofisticati o dei programmi di ricostruzione. Un security provider impegnato in una crisi o in conflitto ha degli obiettivi da raggiungere e per farlo deve trovare un bilanciamento tra il rimodellamento dello scenario e le operazioni (economiche, politiche, militari) che si svolgono al suo interno.

I modelli di decision making legati alle relazioni internazionali sono in forte crisi per via della loro inadeguatezza agli scenari contemporanei. Modelli di analisi sempre più sofisticati e tecnologie in grado di minare grandi quantità di dati provano a sopperire a questa inadeguatezza con la promessa di poter gestire efficacemente un numero sempre maggiore di variabili. A oggi questi modelli hanno fallito nell’evitare disfatte politico-militari – sia interne che estere – di attori con pur grandi disponibilità di risorse, capacità e mezzi. Sorge il dubbio che il gap sia di natura strutturale. Concetti quali quelli di human security e di human terrain permettono di vedere la sicurezza come un oggetto complesso, aprendo nuove prospettive sul tema, di grande interesse tanto a livello accademico quanto politico-militare. Tuttavia le caratteristiche che più rivoluzionerebbero il processo di decision making sono oggi controverse, in quanto potrebbero richiedere approcci assertivi in politica estera che molti attori – soprattutto quelli democratici – difficilmente trovano appetibili (e traducibili in programmi politici graditi). Ma la complessità degli spazi geopolitici odierni potrebbe mettere la questione sul piano esistenziale per molti di essi.

PER SAPERNE DI PIÙ:

Pfaltzgraff, Jr., R. L. (2008), Crisis Management: Looking Back and Looking Ahead. Disponibile su: http://www.ifpa.org/pdf/athena_08.pdf

*a cura di Il Caffè Geopolitico

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