I think tank in Cina: da “penne di partito” a “imprenditori di idee”?

Il concetto di “think tank”, di matrice anglosassone, è oggi ampiamente diffuso nel mondo politico ed accademico occidentale, che, in senso lato, intende con tale termine tanto gli istituti impegnati in analisi e advocacy nel campo delle politiche pubbliche, quanto i centri di ricerca che si concentrano su temi di politica internazionale. Minore attenzione si è prestata, invece, alle realtà che operano nel contesto della Repubblica popolare cinese dove, nel corso degli ultimi anni, il numero dei think tank è cresciuto in modo esponenziale. Secondo l’ultimo rapporto del “Think Tanks and Civil Society Program”, considerato tra le indagini più attendibili in materia, la Cina conterebbe al momento 429 istituti. Ma cosa sono davvero i think tank nella Cina di oggi?

Il “Rapporto sullo sviluppo dei Think Tank in Cina” (ovvero il libro blu dei think tank cinesi), distingue due differenti tipologie di istituti: i think tank “ufficiali” (guanfang zhiku,官方智库), e dunque direttamente collegati al governo cinese a seconda della loro appartenenza ai sistemi di governo centrali (zhong yang zheng fu xitong, 中央政府系统) o locali (difang xitong, 地方系统), e i think tank “semi-ufficiali” (ban guanfang zhiku, 半官方智库) come gli istituti di ricerca (keyan jigou, 科研机 构), gli istituti privati (minjian zhiku, 民间智库) e le organizzazioni sociali (shehui zuzhi, 社会组织). Sebbene il report parli di una vera e propria industria di think tank (zhiku chanye, 智库产业), è bene ricordare le forti differenze che esistono tra i vari istituti. Tra quelli definiti come “ufficiali” vi è il Central Compilation and Translation Bureau (sito in cinese) istituito nel 1953 e collegato direttamente al Comitato Centrale del PCC. L’istituto si occupa principalmente della traduzione di testi stranieri e documenti del Partito, ma conduce anche ricerche relative allo sviluppo della dottrina marxista. Diversamente, il China Institute of International Studies, fondato anch’esso in epoca maoista (1956), è direttamente collegato al Ministero degli Affari Esteri e si occupa di ricerche relative alla politica internazionale. Tra gli istituti definiti “semi-ufficiali”, l’Unirule Institute of Economics è invece tra i pochi think tank privati in Cina e proprio per questo unisce all’attività di ricerca in ambito economico servizi di consulenza. Spesso il governo commissiona a questi istituti ricerche su diverse tematiche di natura politica, giuridica ed economica; oppure, possono essere gli stessi think tank a suggerire direttamente quali politiche adottare in merito a questioni sensibili nel caso in cui il governo necessiti del contributo di esperti, come ad esempio per questioni relative all’ambiente.

È interessante notare che, come già accaduto nel 2003 con riferimento alla dottrina della “ascesa pacifica” della Cina – idea ancora oggi alquanto influente nel dibattito internazionale e concepita da Zheng Bijian durante il proprio mandato di Vice presidente della Scuola Centrale del Partito (think tank sommamente autorevole tra quelli classificati come “ufficiali”) – anche la recente idea di una possibile “Marcia verso Ovest” proposta dall’insigne professore Wang Jisi sembrerebbe esser stata lanciata, o perlomeno formalmente strutturata, tra le mura di un altro think tank, definito invece come “accademico” (gaojiao zhiku, 高教智库), affiliato con l’Università di Pechino (si veda il numero di ottobre di OrizzonteCina). La prospettiva di Wang Jisi è di tale portata da aver stimolato fortemente il dibattito interno sulla questione tra accademici ed esperti, che si sono confrontati apertamente sul tema con un simposio accademico svoltosi a Pechino agli inizi di marzo 2013, secondo quanto riportato da Xiya Feizhou (西亚非洲) (sito in cinese), rivista dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali.

In tale contesto, sospinti da un processo di turbo-globalizzazione in cui la Cina appare sempre più inestricabilmente coinvolta, i think tank cinesi ormai da alcuni anni si sono organizzati su scala internazionale con forum ed incontri formali di alto profilo, svolgendo un ruolo fondamentale in quella che viene conosciuta come Track II diplomacy, ovvero un tipo di diplomazia informale dove individui non necessariamente parte di istituzioni governative possono partecipare attivamente al dialogo politico-diplomatico internazionale svolgendo un ruolo significativo nella condivisione e trasmissione di idee e valori tra le diverse parti. Tra i più recenti vale la pena notare il forum “Think Tank China-Africa 10+10” tenutosi a Pechino nel mese di ottobre 2013 e giunto quest’anno alla sua terza edizione: iniziativa volta a definire un’agenda strategica per il partenariato tra i think tank cinesi e quelli africani, il forum è incaricato di sviluppare gli scambi bilaterali tra accademici, diplomatici ed esperti al fine di rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le due realtà.

In passato la maggior parte dei think tank cinesi godeva di scarsa considerazione da parte del mondo politico occidentale, da un lato per i limiti imposti alla libertà di pensiero di molti intellettuali ed esperti, e, dall’altro, per la presunta assenza di pluralismo di vedute e agende. Oggi tuttavia, i sempre più numerosi contatti con il mondo esterno e un ampliarsi dei margini di dibattito, fanno sì che i think tank cinesi rappresentino uno dei canali più importanti disponibili in Cina per poter seguire con attenzione il dibattito che circonda le élite politiche, altrimenti limitato alle trattazioni sovente addomesticate o poco approfondite disponibili sui media tradizionali e non. Il ruolo degli esperti emerge dunque come sempre più fondamentale nel processo di generazione delle politiche e, sebbene non sussistano le condizioni per la libera condivisione di prospettive e agende in contrasto con gli interessi irrinunciabili del Partito-Stato, nondimeno le pressioni imposte dal sistema si traducono sovente in una sofisticatezza del dibattito – tra il detto e il sottinteso – la cui complessità costituisce una delle sfide più affascinanti per i China watchers di tutto il mondo.

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