Gli Usa rispondono all’attivismo commerciale cinese

Mentre l’Unione europea fatica a voltare pagina dopo un biennio di agonia finanziaria e Bruxelles si prodiga in uno sfacciato corteggiamento dei capitali cinesi, una partita importante per il futuro del commercio globale – e non solo – si sta giocando, sotto traccia, nella regione dell’Asia Pacifico. Si tratta dei negoziati per il Trans-Pacific Partnership Agreement (Tpp), un accordo che mira a un’ambiziosa liberalizzazione degli scambi in un’area del mondo che già oggi genera il 50% del commercio e il 60% del Pil mondiale, e che il Fondo monetario internazionale prevede rimarrà motore della crescita globale per i prossimi decenni. A margine dell’ultimo summit Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) di Honolulu (8-13 novembre 2011), i leader dei paesi coinvolti hanno impresso nuovo impulso alle trattative, che si auspica possano giungere a conclusione nel 2012.

Per la prima volta da molti anni, la Cina brilla per la propria assenza da un tavolo in cui si dibattono cruciali strategie commerciali regionali. Pechino ha giocato un ruolo guida nella promozione di accordi di libero scambio nella regione fin dall’inizio del secolo: nel 2009 si contavano 54 accordi siglati e 78 in corso di negoziazione (rispetto ai tre del 2000). Al progressivo esaurirsi del dinamismo dell’Apec facevano da contrasto nuove formule di regionalismo est-asiatico a traino cinese, come, ad esempio, l’Apt (Asean Plus Three, ossia Cina, Giappone e Corea del Sud). La logica est-asiatica di molti di questi accordi – non pensati per integrare l’altra sponda del Pacifico – ha spinto vari osservatori a sottolineare una progressiva, pericolosa biforcazione nelle dinamiche regionali, con i circuiti economici sempre più legati alla Cina e gli allineamenti di sicurezza ancora imperniati sugli Stati Uniti. Ora l’impeto delle discussioni intorno al Tpp segnala il possibile ritorno della leadership di Washington sulla scena commerciale nell’Asia Pacifico. Si darebbe così contenuto anche economico la vocazione pacifica cui Obama ha improntato la propria presidenza, e che il segretario di Stato Clinton ha reiterato di recente in un robusto articolo su Foreign Policy.

I negoziati per il Tpp non nascono dal nulla: esiste già un accordo tra le economie di Brunei Darussalam, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. A queste verrebbero ad aggiungersi, nel formato Tpp, Australia, Malaysia, Perù, Stati Uniti e Vietnam, per un totale di circa il 26% del Pil e il 17% del commercio globale. Un accordo di questa portata avrebbe significative ramificazioni economiche e geopolitiche. Per gli Stati Uniti, che guidano le trattative con maggior autorevolezza dopo che il Congresso ha ratificato uno storico accordo di libero scambio con la Corea del Sud il mese scorso, si tratta di elaborare una solida cornice normativa in grado di modificare in futuro le relazioni commerciali tra le due sponde del Pacifico. Il Tpp, infatti, è pensato come progetto aperto ad altri membri dell’Apec, soprattutto i due pesi massimi: Giappone e Cina. Per questo è essenziale che le regole siano fissate fin dall’inizio in modo tale da indurre cambiamenti strutturali nell’economia cinese, nell’eventualità che Pechino ritenesse in futuro di non poter rimanere estranea all’accordo quando questo iniziasse a manifestare effetti positivi sugli aderenti. Come ha lasciato intendere il sottosegretario Usa Robert Hormats, si tratta di una strategia multilaterale per ottenere indirettamente da Pechino cambiamenti dell’attuale modello di “capitalismo di Stato”, ritenuto pregiudizievole alla libera e neutra competizione tra imprese (e svantaggioso agli operatori statunitensi).

Il Tpp non è quindi pensato soltanto per ridurre i dazi sui prodotti commerciati tra i vari aderenti: i negoziati in atto contemplano anche elevati standard di tutela della proprietà intellettuale, maggiore facilità di investimento, forte apertura del mercato dei servizi e un esplicito riferimento alle logiche di mercato che devono valere in egual misura per imprese private e statali. Sebbene autorevoli voci statunitensi, a partire dal trade representative Ron Kirk, sottolineino i benefici che la Cina otterrebbe nel lungo periodo da riforme che promuovano competizione, economia della conoscenza e innovazione (mediante la tutela della proprietà intellettuale), i gruppi di interesse che negli ultimi anni hanno prosperato all’ombra delle innumerevoli commistioni tra Partito comunista cinese (Pcc) e sistema economico sono un ostacolo formidabile che taluni ritengono insuperabile. In questo senso, pressioni esterne analoghe a quelle esercitate per l’accesso della Repubblica popolare cinese all’Organizzazione mondiale per il commercio potrebbero giungere da incentivi esogeni cui i vertici di Pechino potrebbero richiamarsi per imporre aggiustamenti politicamente impopolari.

È improbabile che il Tpp, nella sua composizione iniziale, possa avere una capacità di attrazione tale da forzare la mano alla Cina. Decisivo sarebbe l’ingresso della Corea del Sud e, soprattutto, del Giappone. Terza economia al mondo, il Giappone vale da solo il 5% del commercio globale e il premier Noda si è dichiarato favorevole ad accedere ai negoziati Tpp per poterne influenzare la direzione. Anche a Tokyo, però, le resistenze interne sono forti, in particolare per l’ostilità della potente lobby agricola nipponica: le tutele di cui il settore si è avvantaggiato per decenni verrebbero meno in caso di adesione al Tpp, portando ad una sua ristrutturazione radicale. Se in molti dubitano della capacità del debole governo nipponico di imporre una scelta così radicale, il terremoto-tsunami del marzo scorso ha stravolto l’agenda economica nazionale aprendo spazi a riforme prima impensabili. D’altra parte, come notato di recente da Gilbert Rozman, l’episodio del blocco delle esportazioni di terre rare dalla Cina nel settembre scorso, in occasione di una querelle diplomatica minore legata a rivendicazioni territoriali, ha mostrato alle autorità nipponiche la necessità di riequilibrare i rapporti economici con la Cina. Il Tpp potrebbe essere uno degli strumenti per promuovere questo riequilibrio, il che avrebbe conseguenze di vasta portata nella regione.

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