Gli investimenti cinesi in Italia: le sfide per il made in Italy

A partire dall’anno 2000 il governo cinese ha formalizzato la politica Go Global volta a stimolare le imprese nazionali a intraprendere percorsi di globalizzazione. Investimenti greenfield e acquisizioni all’estero mirano ad assicurare l’accesso a risorse, sia materiali sia immateriali, fondamentali per il nuovo ruolo della Cina nell’economia mondiale.

Per diventare più competitive le imprese cinesi devono migliorare le loro capacità manageriali e approfondire la conoscenza dei mercati occidentali, oltre ad acquisire una maggiore padronanza delle tecnologie disponibili. Una maggiore internazionalizzazione consentirebbe alle imprese cinesi, fra l’altro, di affrancarsi dall’immagine di produttori low cost e di qualità ridotta.

Grazie anche agli incentivi, non solo fiscali, e alla consulenza assicurati dal governo, gli operatori cinesi sono stati in grado di accrescere in modo esponenziale gli investimenti all’estero: da flussi di poco superiori ai 2 miliardi di dollari fino al 2000, si è arrivati a oltre 50 miliardi di dollari nel 2008. Nel 2009, essendo stata toccata dalla crisi finanziaria molto meno di altre potenze economiche, la Cina è balzata al sesto posto tra gli investitori globali per flussi generati. Soprattutto le acquisizioni sono aumentate (+41%), anche spinte da un clima molto più accomodante e amichevole per le iniziative cinesi, soprattutto nei paesi industrializzati. Sono state realizzate circa 300 operazioni, che hanno coinvolto in maggioranza imprese statali. L’espansione cinese è poi proseguita a ritmo accelerato: tra novembre 2010 e marzo 2011 le acquisizioni in Europa sono ammontate a 64,3 miliardi di dollari (più del 100% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente).

Questo trend si manifesta anche in Italia, che pure è ancora una destinazione marginale nelle strategie cinesi. Il nostro paese assorbe appena lo 0,008% delle risorse investite dalla Cina all’estero, ma le iniziative d’investimento sono in forte crescita. A fine 2010 risultavano presenti in Italia oltre 70 società a partecipazione cinese. Nel 2007 erano meno di 30. L’Italia, che è povera di risorse naturali, ma è un ampio mercato di sbocco ed è ricca di competenze specialistiche, è divenuta solo di recente un target della strategia di internazionalizzazione cinese. Il nostro Paese è interessante anche per la sua posizione geografica che facilita la diffusione dei prodotti cinesi in Europa, nei Balcani e nei territori del Comunità degli Stati Indipendenti (Csi). Inoltre, le medie imprese cinesi possono far leva sulle risorse immateriali ad alto valore delle piccole e medie aziende e dei territori italiani (immagine, marchi, ricerca, innovazione) per crescere rapidamente e affermarsi sui mercati occidentali.

La presenza, sempre più consistente, degli investitori cinesi in Italia solleva vari problemi, anche sotto il profilo normativo. In particolare, un investitore cinese in Italia può apporre e/o mantenere sui suoi prodotti l’etichetta made in Italy, malgrado la stessa etichetta sia cinese d’appartenenza e solo italiana d’origine. La conseguenza, di immediata intuizione, è proprio la messa in discussione del made in Italy, del suo significato e valore unanimemente riconosciuto, che deriva da un’indicazione d’origine con una portata commerciale di gran lunga superiore agli altri “made in…”. Detto ciò, va rilevato che il quadro normativo non aiuta: la disciplina nazionale e quella comunitaria sono ancora poco incisive. È consentito, infatti, apporre la denominazione “made in Italy” quando sono soddisfatti parametri che non necessariamente implicano qualità italiana. Non c’è una normativa che tuteli giuridicamente pratiche e competenze che hanno fino ad oggi qualificato il made in Italy e in virtù della quale il made in Italy è divenuto rinomato nel mondo.

Il problema di fondo risiede nella difficoltà tecnica di dare una definizione di made in Italy. Non c’è accordo sull’aspetto che lo caratterizza. La normativa comunitaria, ancor più di quella nazionale, si mostra poco sensibile al problema: secondo il codice doganale comunitario (cfr. Reg. n. 2913/1992, Reg. n. 2454/1993, Reg. n. 450/2008), il made in Italy altro non sarebbe se non una mera indicazione geografica, attribuibile nei fatti anche a prodotti non necessariamente realizzati da “mano italiana” e con esperienza italiana. Con la possibile (e oggi sempre più probabile) conseguenza che il made in Italy possa svilirsi in “made in Italy…by Chinese”.

Il legislatore italiano e con esso l’intero sistema produttivo, invece, riconoscono al made in Italy un valore che va ben oltre la mera indicazione geografica e che racchiude al suo interno una tradizione unica di marchi, brevetti, know-how, sapienza artigianale e imprenditoriale esclusivamente italiana. Vari sono stati i tentativi di protezione, volti ad attribuire al made in Italy un significativo plusvalore: negli ultimi dieci anni si è cercato di individuare strumenti normativi adeguati che fossero in grado di raggiungere tali obiettivi, nel rispetto dei regolamenti comunitari in materia di origine dei prodotti e di libertà negli scambi. Dal 2009 si è assistito ad una fervida attività normativa del nostro legislatore, che però non è giunta a conclusione (dalle leggi 99 e 166 del 2009 alla Legge 55/2010 meglio nota come Legge “Reguzzoni-Versace” fino all’ultimissima legge 4/2011 in ambito agroalimentare). La legge Reguzzoni-Versace, in particolare, è stata congelata, perché giudicata non in linea con la legislazione europea.

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