Gli accordi di libero scambio dell’Unione Europea con Singapore e Vietnam: trend anti-globalizzazione e opportunità per le imprese comunitarie

Le contraddizioni sono una costante della vita in generale e della politica in particolare. Un’evidente contraddizione che caratterizza gli ultimi anni, producendo numerose conseguenze sulle attività d’impresa, è rappresentata dalla sempre più elevata interconnessione tra persone, imprese, Paesi, e, al contempo, dal ritorno ai cosiddetti “sovranismi”, ossia dall’emergere di movimenti politici e governi che si propongono come campioni della propria nazione, da tutelare contro le “aggressioni” esterne causate dai processi globalizzanti che si materializzano in flussi di persone in entrata da altri luoghi e flussi di capitali e lavoro in uscita a vantaggio di altre nazioni.

 Come noto, sul piano politico e giuridico la globalizzazione è un fenomeno che si è sviluppato grazie agli accordi di libero scambio, che hanno reso più semplice il citato movimento di persone, merci e capitali, grazie all’adozione di regole comuni tra gli Stati contraenti e all’abbattimento dei dazi d’importazione. A questo riguardo, i Paesi fondatori dell’attuale Unione Europea e gli Stati Uniti d’America sono stati gli alfieri politici della globalizzazione.

La libera circolazione di capitali, merci e persone ha, parafrasando un noto adagio, evitato che a varcare i confini tra i vari Stati europei fossero i carri armati e gli eserciti.

Grazie al successo iniziale di questo modello, e al ruolo di superpotenza egemonica degli Stati Uniti d’America, l’adozione degli accordi di libero scambio si è diffusa su scala globale a partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, con il North American Free Trade Agreement (NAFTA) e con la nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Il modello è stato poi applicato in varie regioni del mondo e l’esempio più significativo è rappresentato proprio dalla Comunità Economica dell’ASEAN, che ricalca in parte l’idea del mercato unico europeo, pur con notevoli differenze, rappresentate in primo luogo dall’assenza di una moneta unica e di istituzioni comuni.

 La piena integrazione del Sud-est asiatico con il resto del mondo sarebbe stata raggiunta però con la ratifica del Partenariato Trans-Pacifico (TPP), l’accordo che gli Stati Uniti d’America avrebbero concluso con altri undici Paesi affacciati sul Pacifico

Come noto, eletto Donald Trump, Washington si è ritirata dal TPP, ponendo seri interrogativi sulla sopravvivenza dell’accordo senza la partecipazione degli Stati Uniti d’America. Il fenomeno Trump è il più evidente e significativo tra quelli che osteggiano la globalizzazione e dunque nello specifico gli accordi di libero scambio, anche alla luce di un ben visibile depauperamento del potere d’acquisto della classe media in Occidente. Se i “sovranisti” criticano tout-court l’essenza e la ratio di tali accordi, sostenendo dunque il primato e idealmente l’autarchia del singolo Stato, i critici moderati ne denunciano il troppo rapido ampliamento a Paesi che giuridicamente, economicamente e socialmente non erano sullo stesso piano (comparativamente parlando, senza che ciò rappresenti un giudizio di valore) dei fondatori. L’esempio sovente riportato è quello della Cina, che nel 2001, anno in cui venne ammessa all’OMC, imponeva assai pochi vincoli – ad esempio giuslavoristici o ambientali – alle proprie imprese, che si sarebbero perciò trovate in una posizione di vantaggio rispetto ai concorrenti occidentali, oberati da troppe regole e troppa burocrazia, senza contare il vantaggio rappresentato dalla debolezza, in parte mantenuta artificialmente, del renminbi rispetto all’euro e al dollaro. Per altri, considerato il primato dell’economia e della tecnologia sulla politica, la globalizzazione è un fenomeno inevitabile, e le risorse economiche e tecnologiche consentiranno il perseguimento dei medesimi effetti degli accordi di libero scambio, anche se questi ultimi dovessero essere revocati. I sostenitori del modello, infine, ne rimarcano i risultati straordinariamente positivi raggiunti in termini di pace nel mondo occidentale ed eradicazione della povertà da aree del pianeta dove fino a non troppi anni or sono la maggior parte della popolazione viveva in misere condizioni.

In ogni caso, pur essendo stato messo ormai in discussione dal Presidente americano il sistema degli accordi di libero scambio, almeno a livello multilaterale, l’Unione Europea continua ad utilizzare questo strumento con Stati collocati geograficamente oltre il vicinato.

Nel Sud-est asiatico in particolare, l’UE ha terminato di negoziare accordi di libero scambio con Singapore e Vietnam, accordi che dovrebbero essere sottoscritti ed entrare in vigore nel 2018, con effetti che si dispiegheranno nell’arco di svariati anni, poiché ad esempio la riduzione dei dazi su varie categorie merceologiche è progressiva e non immediata.

Le imprese si trovano al centro di questa contraddizione e non hanno necessariamente una posizione comune, nemmeno all’interno dello stesso Paese: ad esempio, se per chi esporta prodotti italiani per cui v’è domanda in Vietnam l’accordo di libero scambio è una grande facilitazione, per altri significa fronteggiare nuovi concorrenti, che magari producono merci simili a prezzi assai inferiori.

Vietnam e Singapore sono due Paesi straordinariamente diversi tra loro, ma entrambi ricchissimi di opportunità per le imprese italiane: il primo, come luogo di manifattura e come nuovo e popolosissimo mercato da oltre 90 milioni di abitanti, sicuro, culturalmente affascinante e relativamente frequentato dagli italiani, in crescita impetuosa da almeno dieci anni; il secondo, come hub per tutta l’Asia (città-Stato multietnica, avanzatissima, anch’essa sicura, con l’inglese come lingua ufficiale, ottima base logistica, dove v’è certezza del diritto e consuetudine agli affari internazionali, con una fiscalità vantaggiosa). Entrambi contavano sulla stipulazione del TPP per ampliare i propri confini di riferimento per gli affari e anche, in ottica geopolitica, per contenere l’avanzata cinese. La mancata attuazione del TPP non significa di per sé una diminuzione degli affari con gli Stati Uniti d’America o una decrescita dell’economia, visto che sia Singapore, sia il Vietnam si sono sviluppati e hanno fatto affari oltreoceano in assenza di un simile accordo, ma certamente la prossimità geografica, culturale e, per quanto concerne Singapore, linguistica con la Cina, unitamente all’accordo di libero scambio con Pechino, pongono il Regno di Mezzo in una posizione privilegiata.

Perse, per ora, le speranze di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti d’America e con gli altri Stati americani affacciati sul Pacifico, le imprese vietnamite e di Singapore possono riversare alcune di queste aspettative sulle imprese dell’Unione Europea, che nel suo complesso rimane ancora la seconda economia mondiale.

Per le imprese italiane le minacce principali sono la maggiore concorrenza potenziale in casa propria (soprattutto dal Vietnam) e forse la riduzione della profittabilità degli investimenti, per esempio nel settore immobiliare, come conseguenza di ingenti flussi di capitale provenienti da Singapore.

Le opportunità, però, dovrebbero di gran lunga superare le minacce. Fermo restando che già oggi è possibile fare impresa da, in e con Singapore e Vietnam, l’accordo di libero scambio faciliterà tale attività, soprattutto grazie alla riduzione dei dazi. L’accordo prevede anche regole in ambito ambientale che in teoria dovrebbero favorire le nostre imprese più virtuose in tal senso e scoraggiare le diffuse pratiche di inquinamento senza regole attuate da troppi operatori vietnamiti e asiatici in generale.

Dovrebbe essere più semplice costituire altresì una sede regionale che faccia perno su Singapore, con tutti i vantaggi giuridici, fiscali, lavorativi, logistici che questo comporta.

Per chi investe nella manifattura, il Vietnam diventerà ancora di più un luogo di produzione di elevata qualità e a costi contenuti di primaria importanza, dal quale vendere i prodotti ivi realizzati in una molteplicità di mercati interessantissimi: Unione Europea, Paesi membri della Comunità Economica dell’ASEAN e Paesi con cui l’ASEAN intrattiene accordi di libero scambio come Australia, Cina, India e altri.

La relativamente nuova legislazione vietnamita sull’e-commerce, unita appunto all’accordo con l’Unione Europea, dovrebbe poi rendere assai più agevole vendere prodotti italiani online. Lo stesso vale per gli investimenti immobiliari, ora maggiormente liberalizzati anche per gli stranieri in Vietnam.

Un ulteriore vantaggio potrebbe provenire dalla momentanea crisi del sistema sudcoreano, che ha visto la collusione dei principali chaebol (gruppi di interesse) con il governo, che ha causato l’impeachment dell’ex Presidente Park. Essendo la Corea del Sud uno dei principali investitori nella regione, la sua temporanea battuta d’arresto potrebbe rappresentare una buona opportunità per le nostre imprese.

Se sulla carta sembrerebbe che le opportunità siano maggiori rispetto alle minacce, giova però sempre ribadire, a costo di apparire pedanti, come proprio in un mondo sempre più interconnesso e con concorrenti più numerosi, motivati e forti, non solo la qualità, in cui molte nostre imprese sono campioni, ma anche la cura della comunicazione, la presenza diretta e duratura, la capacità di investimento, la conoscenza delle culture e delle lingue, l’affiancamento con persone e professionisti di reale capacità, la seria strutturazione fiscale e legale di un’attività di impresa, siano fattori essenziali per il successo, quale che sia il quadro di riferimento degli accordi di libero scambio in vigore.

Non possiamo prevedere cosa accadrà dopo la firma dell’entrata in vigore di questi accordi, ma a nostro avviso il futuro non sarà tanto un mero aggiornamento del presente, quanto piuttosto un invito alle imprese a pensare con nuovi paradigmi, che auspicabilmente includano nel loro orizzonte anche i mercati del Vietnam e di Singapore.

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