Commercio: Washington preme su Pechino

Mentre il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti rimane elevato, si avvicinano le elezioni di metà mandato, e l’amministrazione americana, con l’obiettivo almeno di arginare la prevedibile sconfitta dei democratici, cerca di rispondere alla pressioni protezionistiche del Congresso adottando misure contro alcune pratiche commerciali cinesi, giudicate scorrette.

A metà settembre il Dipartimento del Commercio americano ha imposto dazi antidumping dal 48,99% al 98,74% e dazi a effetto equivalente dal 13,66% al 53,65% sull’importazione dalla Cina di tubi d’acciaio senza giunture, e ha chiesto consultazioni in sede di Organizzazione mondiale del commercio (Omc) – il primo passo del procedimento che si potrebbe concludere con l’applicazione di sanzioni – sui dazi applicati dai cinesi alle esportazioni dell’acciaio elettrico statunitense, e sulla discriminazione ai danni dei fornitori di servizi di pagamento elettronico nell’accesso al mercato interno. Pechino sostiene che i dazi siano giustificati perché questo tipo di acciaio sarebbe venduto in dumping, grazie a un evidente sussidio all’esportazione, e che l’accusa di discriminazione sui servizi di pagamento sia infondata. Nel 2009 la Cina è divenuta il terzo mercato per le esportazioni Usa ma, nello stesso anno, gli Stati Uniti hanno adottato 23 misure commerciali contro la Cina, con un aumento del 53% rispetto al 2008.

Huo Jianguo, direttore dell’Accademia cinese del commercio internazionale e della cooperazione economica, un think tank affiliato al ministero del commercio, ha apertamente messo in relazione la mossa statunitense in sede Omc alle elezioni congressuali del prossimo novembre. Il timing in effetti tende a suffragare una simile interpretazione: negli stessi giorni, infatti, il sindacato della United Steelworkers chiedeva al governo di indagare sui sussidi cinesi al settore dell’energia pulita, e alcuni esponenti del Congresso riproponevano disegni di legge per autorizzare il Dipartimento del Commercio ad adottare misure contro la Cina, accusata di tenere artificialmente sottovalutato lo yuan. Infatti, malgrado Pechino abbia annunciato a luglio (non a caso, alla vigilia del Vertice del G20) lo sganciamento dello yuan dal dollaro per consentirne la rivalutazione, la moneta cinese si è rivalutata solamente dello 0,3%, e nonostante la riduzione del surplus del commerciale verso gli Stati Uniti del 20% su base annua nei primi sette mesi di quest’anno, il continuo aumento delle riserve cinesi e la difficile congiuntura economica danno il destro a deputati e senatori per reclamare azioni contro Pechino. Malgrado i toni concilianti del primo ministro Wen Jiabao, a New York per l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la tensione non si è smorzata.

Un invito a non rimanere inattivi è venuto anche da Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute di Washington, che in un’audizione al congresso ha sostenuto che, per avere un tasso di cambio equo, lo yuan dovrebbe rivalutarsi del 25%. Una rivalutazione del 20% contribuirebbe, secondo Bergsten, alla diminuzione del deficit commerciale di 50-120 miliardi di dollari, il che genererebbe a sua volta dai 300.000 ai 700.000 nuovi posti di lavoro. Bergsten suggerisce anche di considerare, insieme agli altri partner commerciali, se alcune regole dell’Omc e del Fmi non consentano in realtà di adottare misure a effetto equivalente contro gli stati che palesemente intervengono sul mercato acquistando valute (nel caso cinese, acquistando dollari) per sostenerne artificialmente il prezzo. L’audizione contiene quindi una malcelata critica all’amministrazione Obama, che non ha ancora pubblicato (v. OrizzonteCina vol. 1 n. 2) l’atteso rapporto del Dipartimento del Tesoro che dovrà stabilire se la Cina sia o meno un manipolatore di valuta. Chi ha orecchie per intendere…

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