[CINESITALIANI] Se in Italia gli alunni cinesi non sono i primi della classe

Qualche anno fa, durante un incontro con il gruppo di ricerca sulle migrazioni cinesi in Europa del Dipartimento di Scienze umane dell’Università del Zhejiang, coordinato dal prof. Fan Jieping, la questione che più incuriosiva gli studiosi cinesi era fondamentalmente questa: perché il successo scolastico dei cinesi emigrati in Europa – e quello dei loro figli – è così basso? E ancora: come mai la mobilità sociale degli immigrati cinesi in Europa appare assai più lenta e di basso profilo se comparata a quella dei cinesi emigrati negli Stati Uniti?

Preoccupazioni legittime, se si guarda ai dati resi pubblici qualche settimana fa relativi alla condizione degli alunni stranieri nelle scuole di Prato, la provincia italiana che, grazie al cospicuo apporto della numerosa popolazione cinese, conta il più elevato tasso di studenti stranieri (il 24%, contro una media nazionale del 9% e un primato regionale della Lombardia pari al 14%). Tra questi ultimi, due terzi sono nati in Italia e la metà è di nazionalità cinese. Ma se si rileva un generale calo della dispersione scolastica (sebbene si attesti comunque a un preoccupante 17,8%), il più alto numero di studenti che abbandonano gli studi (in genere al primo anno delle scuole superiori) lo si registra proprio tra i cinesi. Seguono gli altri stranieri e, infine, gli italiani. Non è una novità. Nelle scuole milanesi, per esempio (il dato è riferito all’anno scolastico 2013-2014), gli alunni cinesi erano al terzo posto dopo romeni e salvadoregni per intensità degli eventi connessi al rischio di dispersione. Da molti anni ormai la dispersione scolastica colpisce gli alunni cinesi più della maggior parte degli altri alunni stranieri, tanto da suscitare la preoccupazione di osservatori cinesi già nel 2007. In quell’occasione un articolo pubblicato su Xinhuanet denunciò con toni accorati gli avversi effetti del precoce abbandono degli studi sull’integrazione sociale dei giovani cinesi in Italia.

In recenti rapporti, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca (Miur) ha riscontrato una progressiva stabilizzazione dell’incidenza della popolazione scolastica di cittadinanza non italiana. Dopo il boom di ricongiungimenti famigliari nel corso degli anni Duemila, l’andamento attuale delle nuove iscrizioni riflette fondamentalmente le dinamiche riproduttive di popolazioni immigrate sempre meno accresciute da nuovi apporti migratori. I dati relativi all’anno scolastico 2014-2015 mostrano che, rispetto all’anno scolastico precedente, l’incremento degli studenti con cittadinanza non italiana è pari a solo circa 3 mila unità, per un numero complessivo di 805.800 alunni. Anche la percentuale degli alunni con cittadinanza non italiana sul totale degli studenti rimane pressoché costante: sono il 9,2%. Mentre diminuiscono gli alunni stranieri nella scuola dell’infanzia e nella scuola secondaria di primo grado, aumentano quelli frequentanti la scuola primaria e la scuola secondaria di secondo grado e continua a crescere la quota di alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia. Il Miur ritiene che si vada consolidando il “sorpasso” delle seconde generazioni rispetto ai minori nati all’estero e ricongiunti in età scolastica. In totale, gli alunni con cittadinanza non italiana nati in Italia rappresentano il 51,7% degli alunni stranieri. Dalla lettura dei dati emerge che tale sorpasso ancora non riguarda la scuola secondaria di secondo grado (18,7%). Questo trend amplifica la gravità del dato relativo all’abbandono scolastico degli alunni cinesi: significa infatti che la mancata prosecuzione degli studi non è imputabile solo al fallimento dell’integrazione scolastica dei minori di recente ricongiuntisi ai genitori.

Di recente, i media cinesi preferiscono però raccontare success stories relative ai giovani di seconda generazione che “ce l’hanno fatta”, ovvero quelli che si iscrivono all’università con buoni risultati e che poi trovano rapidamente lavoro valorizzando la propria esperienza di persone spesso cresciute in paesi diversi, la propria conoscenza di più lingue e la propria capacità di “navigare” con disinvoltura tra diverse culture e società. Gli universitari cinesi con background migratorio però sono ancora molto pochi, appena il 3,2% di tutti gli studenti universitari con cittadinanza italiana, al settimo posto nella graduatoria delle nazionalità più rappresentante (dopo Albania, Romania, Marocco, Moldavia, Ucraina e Perù).

A sconcertare molti osservatori cinesi del fenomeno è l’incongruenza di queste “basse prestazioni” cinesi con il mito della cosiddetta model minority, l’idea cioè che uno specifico bagaglio culturale, alimentato da peculiari modelli educativi in seno alla famiglia cinese in emigrazione, produca tendenzialmente straordinari percorsi di riuscita sociale ed economica, suggellati da prestazioni scolastiche costantemente superiori alla media. Del resto anche l’elevato punteggio ottenuto dagli alunni cinesi nei test PISA (Programme for international student assessment) condotti dall’Ocse pare confermare l’idea che i giovani cinesi abbiano una marcia in più sul piano del rendimento scolastico: Shanghai-Cina, Singapore, Taipei-Taiwan e Hong Kong-Cina sono in cima alla classifica per le competenze in matematica, lettura e scienze. Com’è possibile che questo eccelso capitale culturale e umano, una volta trapiantato nei paesi dell’Europa continentale, precipiti tanto in basso?

La lettura “culturalista” delle ottime prestazioni conseguite dagli alunni cinesi nelle migliori scuole della Repubblica popolare cinese, della sfera culturale cinese più allargata e tra i cinesi emigrati negli Stati Uniti è decisamente quella più diffusa non soltanto in Cina, ma anche negli Usa, dove ai cinesi – e agli asiatici in generale – si attribuiscono capacità di apprendimento e di successo scolastico di gran lunga superiori alla media. Recentemente hanno fatto molto scalpore i libri di Amy Chua, professoressa di diritto alla prestigiosa Yale Law School, che ritiene che ciò si debba soprattutto alla capacità delle “mamme tigri” asiatiche di pretendere sempre il massimo dai propri figli in termini di successo scolastico. Questa prassi genitoriale sarebbe connessa a uno specifico bagaglio culturale, caratterizzato dall’interazione complessa di tre elementi: una radicata consapevolezza della propria superiorità culturale, un senso di insicurezza sociale acuito dalla propria condizione di minoranza oggetto di stereotipi e discriminazioni, nonché un condizionamento al “controllo degli impulsi”, ovvero all’autodisciplina e alla capacità di sacrificio. Questo triple package, scrive Chua nel suo ultimo libro pubblicato assieme al marito Jed Rubenfeld, non sarebbe appannaggio esclusivo del retaggio culturale cinese, ma caratterizzerebbe anche altre “minoranze di successo”. Questa tesi riecheggia l’analisi – contestatissima da studiosi più ferrati in materia socioantropologica – proposta venticinque anni or sono da Joel Kotkin in un suo fortunato saggio sulle “tribù” etnico-religiose di maggior successo nella società americana.

Il fatto è che questa visione tutta incentrata sulle “peculiarità culturali” non regge alla prova dei fatti, una volta che si impieghino metodologie di ricerca etnografica e sociale più strutturate. Lo mostrano molto bene due sociologhe delle migrazioni di grande spessore come Jennifer Lee e Min Zhou nel brillante saggio che hanno pubblicato lo scorso anno. Le innegabili success stories dei giovani cinesi di seconda generazione (e in generale dei figli di emigranti della cosiddetta “Asia sinica” in generale: coreani, taiwanesi, vietnamiti, singaporeani e giapponesi) negli Usa dipendono essenzialmente da due variabili che condizionano la specifica struttura di opportunità cui possono accedere crescendo e che sostengono le loro traiettorie di mobilità sociale verso l’alto. La prima è il loro status sociale di partenza (il fatto cioè che la maggior parte di essi è figlia di genitori laureati e appartenenti alla classe media già prima di emigrare). La seconda è l’iper-selettività del loro processo migratorio, condizionato da normative che di fatto consentono l’immigrazione negli Usa primariamente a persone con un elevato livello di istruzione. I loro genitori non soltanto appartengono a rarefatte èlite all’interno delle rispettive generazioni nei paesi di partenza, ma finiscono per rappresentare una minoranza altamente istruita anche nel paese di immigrazione. C’è da stupirsi che i loro figli vadano bene a scuola, con dei genitori così?

Aggiungiamo che in questo caso la disponibilità al sacrificio tipica del migrante di prima generazione unisce abbastanza normalmente i valori del “duro lavoro” a quelli della necessità di una formazione più elevata possibile, anche perché questa strategia, nella società statunitense, fino a pochi anni fa rappresentava realmente una solida strategia di riuscita sociale. Ma, obiettano Lee e Zhou, dal punto di vista della mobilità intergenerazionale forse i migranti che conseguono i successi più spettacolari negli Usa non sono gli asiatici, bensì i messicani di seconda generazione figli di mojados (emigranti clandestini) privi della licenza elementare, che con mille sacrifici propri e dei loro genitori riescono a conseguire un PhD in un’università prestigiosa. In fin dei conti le figlie di Amy Chua passano da una condizione borghese, benestante ed altamente istruita a… una condizione del tutto identica a quella dei loro genitori!

Giova ricordare che in Italia (come nel resto dell’Europa continentale) gli alunni cinesi sono prevalentemente figli di genitori originari di aree rurali o suburbane di provincia, con livelli di istruzione medio bassi, inseriti in segmenti del mercato del lavoro caratterizzati dall’alta intensità del lavoro, dove l’autoimpiego e la creazione di imprese famigliari rappresentano a un tempo le più efficaci strategie di mobilità sociale e la conditio sine qua non per partecipare a strutture di opportunità etnica che vertono sulla disponibilità a sovvenzionare la creazione di imprese di propri famigliari, parenti e amici. Nelle famiglie cinesi d’Italia (il cui reddito medio dichiarato, secondo recenti elaborazioni della Fondazione Leone Moressa, è tuttora inferiore ai 17 mila euro annui, posto che lavorino entrambi i genitori), i figli sono ancora chiamati a occuparsi delle imprese di famiglia accanto ai propri genitori, e non potrebbe essere diversamente. Il miracolo vero oggi lo fanno quei cinesi di seconda generazione che riescono a persuadere i propri genitori della dignità e dell’urgenza del proprio percorso di studi superiori, e che magari arrivano a conseguire un master o addirittura un dottorato di ricerca. Per una famiglia sino-italiana, quest’esito è l’esatto equivalente del figlio di contadini che supera con il punteggio più alto il massimo livello degli esami imperiali, figura semi-mitica tanto celebrata dalla letteratura cinese classica.

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