Primavere e autunni, lo straordinario graphic essay di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte dedicato alle vicende biografiche del nonno di Matteo, Wu Lishan, uno dei primi cinesi a stabilirsi in Italia negli anni Trenta del Novecento, sta facendo molto parlare di sé. Dopo un’anteprima sul Corriere della Sera, quasi tutte le principali testate italiane hanno recensito questo “documentario a fumetti”, pubblicato nel settembre del 2015, che è la prima opera rivolta al grande pubblico dedicata alle origini dell’esperienza sino-italiana, per di più realizzata da chi di questa esperienza è discendente diretto. A poco più di quattro mesi dalla sua pubblicazione, è in preparazione la sua terza ristampa e gli autori hanno da poco ceduto l’opzione per i diritti di una sua trasposizione in film d’animazione. Ciaj e Matteo sono una coppia di videomaker milanesi, e la loro idea iniziale era proprio quella di realizzare un cartone animato a sfondo storico-biografico. L’incontro con la casa editrice padovana Becco Giallo, nota per il suo impegno nei confronti del fumetto come strumento di denuncia, reportage e riflessione politica, li orienterà verso la carta stampata.
L’inizio della storia dei cinesi d’Italia ha per protagonista soprattutto una città, Milano, e un quartiere: el bôrgh di scigolatt, il “borgo degli ortolani” (scigolatt, in milanese, letteralmente signifca “cipollari”). Si tratta del quartiere oggi noto come “la chinatown di via Paolo Sarpi”, ma nella seconda metà degli anni Venti il fulcro dell’insediamento cinese era piuttosto via Canonica. In alcune vecchie case di ringhiera affacciate su questa via, come pure in alcune delle sue traverse (via Cesariano, via Morazzone, via Rosmini) si stabilirono i primi cinesi che scelsero di risiedere stabilmente in Italia. I pionieri di questo insediamento furono probabilmente alcuni commercianti che visitarono l’Esposizione universale di Milano del 1906, ma è nel marzo 1926 che l’arrivo dalla Francia di oltre un centinaio di commercianti ambulanti di perle artificiali, impiegati da un’impresa franco-nipponica che li aveva reclutati a Shanghai e a Parigi, segnerà l’inizio di una filiera migratoria avente l’Italia come meta. I protagonisti di questo flusso furono, fin dall’inizio, giovani uomini provenienti da pochi villaggi di montagna del distretto di Qingtian, nel Zhejiang meridionale. Quelli giunti dalla Francia erano commercianti ambulanti che nel primo dopoguerra si erano insediati nelle adiacenze della Gare de Lyon, nel XII arrôndissement parigino. Ma una volta creato un punto di appoggio stabile nel capoluogo lombardo e consolidati i contatti con alcuni grossisti di chincaglieria, cravatte e maglieria in diverse città italiane (Milano, Torino, Genova, Livorno, Roma, Napoli ecc.), i cinesi del borgo degli ortolani fecero da trampolino per le carriere migratorie di loro parenti e compaesani negli anni successivi, disseminando la presenza cinese in tutto il paese. Nel 1936 la popolazione cinese di Milano contava già 133 persone, mentre alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, il 20 maggio 1940 un censimento dei cittadini stranieri “sudditi di paesi nemici” registrerà 431 cittadini cinesi residenti sul territorio nazionale, di cui quasi la metà residenti a Milano, il 15% a Bologna, con contingenti minori in altre città (Torino, Trieste, Napoli, soprattutto) e in altre venti province italiane.
Da questa originaria piccola popolazione di commercianti, artigiani e marittimi prenderà vita il susseguirsi di generazioni e ricongiungimenti tra parenti del secondo dopoguerra. Figli e nipoti dei primi immigrati torneranno in Cina negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, riallacceranno i contatti con i loro villaggi ancestrali e faciliteranno l’emigrazione dei loro parenti. Ma pochi ricordano che tutto questo ebbe luogo anche grazie alla prima generazione di cinesi nati in Italia, la prima a potersi dire genuinamente sino-italiana, poiché la stragrande maggioranza di essi nacque dalle unioni tra uomini cinesi e donne italiane. In questa fase dell’immigrazione infatti le donne erano estremamente rare, mentre i nostri venditori ambulanti avevano spesso occasione di frequentare donne di umile condizione, quasi sempre di origine rurale, che erano però il nuovo volto femminile del lavoro nelle città industriali italiane: sartine, venditrici ambulanti, lavandaie, operaie, cameriere e ostesse delle numerose trattorie e locande dove spesso alloggiavano nel corso del loro incessante peregrinare per fiere e mercati. Le relazioni che ne nascevano sfociavano sovente in gravidanze che la morale del tempo imponeva di “legittimare” con il matrimonio: la Chiesa cattolica interveniva proponendo ai giovani cinesi la conversione e il battesimo per permettere loro di sposarsi, una operazione che, grazie a una specifica clausola del diritto canonico (il cosiddetto “privilegio paolino”), permetteva contemporaneamente di annullare favor fidei eventuali matrimoni preesistenti, perché contratti fuori dalla religione. Per la Chiesa di allora, la preoccupazione principale pare fosse innanzitutto quella di proteggere il buon nome e la sicurezza sociale della giovane donna coinvolta e dei suoi bambini, guadagnando inoltre questi ultimi alla vera fede. Ma nel contempo questa pratica otteneva altri due risultati importanti, anche se di segno opposto. Da un lato la donna italiana assumeva la nazionalità del marito, facendo di lei e dei suoi figli dei cittadini della Repubblica di Cina e dunque degli stranieri in patria. Dall’altro il marito diventava cattolico e si guadagnava di buon diritto un posto nella società e, soprattutto, nella famiglia della moglie.
L’impatto di questi matrimoni sulle future fortune di questi primi immigrati non può essere sottovalutato: le mogli italiane furono i loro principali agenti di integrazione, insegnando loro la lingua (o meglio il dialetto di famiglia), gli usi e i costumi della vita quotidiana nei contesti locali. Fecero dei cinesi di Milano dei milanesi, di quelli di Bologna dei bolognesi. Diedero ai propri mariti fondamentali consigli su come gestire le proprie attività. Alcune, come quella della confezione artigiana di cravatte, nacquero anche in virtù delle pregresse abilità delle giovani sartine andate spose al cravatèe cinès, che prima di sposarsi le cravatte le vendeva soltanto. Procurarono loro protezione in tempo di guerra. Con rare eccezioni, infatti, i cinesi che si erano sposati con donne italiane e avevano figli piccoli non vennero coinvolti nell’internamento di massa dei cinesi (considerati “sudditi di un paese nemico” perché avversari dell’Impero del Giappone, cui l’Italia di Mussolini era legata fin dal Patto anti-Comintern del 1937) che prese il via nel luglio-agosto del 1940. Oltre il 65% dei cinesi d’Italia passò gli anni della guerra confinato in campi di concentramento, soprattutto a Isola del Gran Sasso (Teramo) e a Ferramonti di Tarsia (Cosenza), in condizioni di notevoli privazioni e isolamento. Ma è altrettanto vero che i mariti, una volta stabilizzata la propria attività imprenditoriale, spesso fecero la fortuna delle loro giovani mogli e delle loro famiglie.
Se la storia dei padri e delle madri è poco nota, lo è per certi aspetti ancora meno quella dei loro figli e delle loro figlie, quella “prima generazione sino-italiana” che crebbe radicata nei propri contesti di vita italiani per lingua, formazione e consuetudini sociali, ma conservò aspetti del proprio retaggio cinese in cucina e nell’abitudine alla frequentazione di un microcosmo – la “vecchia” comunità cinese del dopoguerra – che era in realtà un fitto intreccio di relazioni familiari, sociali, lavorative e ricreative sino-italiane. Ne ha dato una toccante testimonianza l’autobiografia scritta dal figlio del primo matrimonio tra un commerciante cinese e una sartina milanese a Milano, Mario Tschang, imprenditore di grande successo (fondatore della celebre marca di cancelleria Osama) e uno degli artefici delle prime relazioni economiche tra l’impresa italiana e la Cina del nuovo corso, negli anni Ottanta del secolo scorso. Alla presentazione di Primavere e autunni presso la libreria della Triennale di Milano, c’era anche lui. Anzi, c’erano praticamente tutti: i figli e le figlie dei cinesi immigrati a Milano durante il Ventennio, e i loro figli e nipoti. Alcuni di loro, come Angelo Ou, figlio di Wu Lishan (alias Ou Lisiang) e zio di Matteo Demonte, o Luigi Sun sono voci attive e illustri della realtà cinese d’Italia, di cui custodiscono la memoria storica, proponendosi anche come portavoce e mediatori con le istituzioni italiane. Ma la maggior parte di loro ha pochi contatti con l’immigrazione cinese di più recente arrivo, che con la forza dei suoi numeri, ma anche a causa delle diverse condizioni del loro inserimento sociale (oggi i matrimoni misti sono assai più rari), ha contribuito a mettere in ombra il loro vissuto. La narrazione della vicenda di uno dei loro padri ha così reso possibile un incontro che mancava da decenni. Una conversazione interrotta, i cui fili Ciaj e Matteo, presentando in pubblico il loro lavoro, provano a riannodare nelle città d’Italia in cui la diaspora cinese ha radici più antiche: a Bologna, a Firenze, a Torino. È l’inizio di una riscoperta con implicazioni profonde, che ci ricorda quanto l’epopea dei cinesi d’Italia sia un capitolo importante, seppure ancora in gran parte misconosciuto, della storia sociale del Novecento italiano.
Intervista a Matteo Demonte, co-autore di Primavere e autunni
No. Quando ero piccolo mi rendevo conto che c’era un senso di comunità: ricordo queste cene di famiglia nei ristoranti cinesi, i pomeriggi in cui andavamo in via Canonica a incontrare mio nonno… Era tutto legato al gioco, però… a una dimensione che potremmo dire di “animazione sociale”, che i cinesi mettevano in atto attorno al tavolo di mah jong . Ricordo che spesso andavamo a mangiare al ristorante Ta Hua di via Fara, che ai tempi sotto il ristorante aveva un locale con il tavolo da gioco. Nulla di losco, era più che altro un ritrovo per amici e familiari. E mio padre, che era italiano ed era un fisico di formazione, era molto affascinato dagli aspetti matematici e combinatori di questo gioco. Il percorso per essere accettato in questo mondo, in questa famiglia allargata cinese, per mio padre è passato anche dal fatto che accompagnava mio nonno a giocare. Mio nonno all’epoca camminava con il bastone, perciò papà lo portava con la sua Fulvia coupè in via Fara, in via Canonica o in via Farini a giocare a mah jong. Quello era il senso di comunità che vedevo io da piccolo: una grande famiglia allargata, in cui il mondo cinese entrava nella parte italiana della mia famiglia in maniera molto quotidiana e famigliare. Ma giunto ai miei dieci anni, il mondo cui apparteneva mio nonno era ormai agli sgoccioli…
Esatto. Una nuova era. Il mio rapporto con la comunità cinese da adulto, che ho ripreso dopo che mi sono dotato degli strumenti linguistici e culturali necessari, era più un rapporto con una nazione che con una comunità. Certo, è sempre stato importante potermi qualificare come “il nipote di Angelo”, perché questo permetteva alle persone più in vista della nuova immigrazione di collocarmi. Anni fa per esempio mi occupai di organizzare a Milano un’importante mostra di artisti contemporanei dello Yunnan, e in quell’occasione condussi l’intero gruppo a cenare ogni sera in un ristorante cinese diverso. E abbiamo fatto un po’ il giro dei ristoranti storici, con tutto il coté di notabili e con il blasone del consolato cinese. In quell’occasione mi sono reso conto che il fatto di essere d’origine cinese aveva la sua importanza, ma anche che il mondo con cui mi interfacciavo era ormai diventato enormemente più grande della piccola comunità che ricordavo. Non c’entrava quasi più nulla con quello che conoscevo.
Non più di tanto, anche perché i miei genitori mi avevano mandato a scuola dalle suore: un contesto molto elitario, avevo solo amici italiani. Non incontravo mai i fgli cinesi delle amiche di mia madre… quello era il mondo dei grandi, non era il mio. Nel mio contesto scolastico questa mia identità si è un po’ connotata quando eravamo più grandi, e magari si andava al ristorante cinese… allora questo mio lato esotico incuriosiva. Anche i miei devo dire che non la esibivano molto. Forse l’unico contesto in cui mi sia mai sentito “quello diverso” era la Puglia, dove andavo in vacanza dai parenti paterni. Lì i miei coetanei magari chiamavano mia mamma “Mao Tsetung”, e noi eravamo “i cinesi”. Ma questo in un contesto molto provinciale, di campagna. Invece in famiglia la mia identità cinese stava nella normalità di alcuni piatti presi dalla cucina cinese della quotidianità milanese, dove magari alcune pietanze cinesi si mangiavano anche con il pane.
La vita di mia nonna, anche quando dopo la morte del marito è venuta a stare con noi, gravitava tutta attorno al quartiere cinese. Era molto legata a quelle persone italiane che vivevano e lavoravano a stretto contatto con i cinesi di Milano. Andava a comprare il doufu (il tofu) nel quartiere, che lei chiamava dìviu, nel dialetto di Qingtian. Il momento d’oro della sua vita è stato proprio quello che ha vissuto in questo mondo sino-italiano, in cui ha celebrato anche una certa conquista sociale. Quando partecipava a questi banchetti, a questi ritrovi della comunità cinese di allora, si sentiva parte di un mondo che andava oltre la sua famiglia di origine, fatto di persone che avevano saputo trasformare le proprie vite.
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