[CINESITALIANI] I dieci anni di Associna

Nel corso dell’Assemblea nazionale organizzata a Roma dal 9 all’11 ottobre per festeggiare il decennale della fondazione di Associna (Associazione di seconde generazioni italo-cinesi), il suo Presidente uscente Bai Junyi ha voluto condividere con la platea la sua personale interpretazione del logo dell’associazione, che pare raffigurare una figura umana stilizzata a braccia aperte posta tra due parentesi tonde: lo sforzo di una persona giovane per liberarsi dall’incasellamento della sua personale biografa e identità in categorie determinate da altri. Questa tensione autopoietica, espressa da figli di immigrati che, pur essendo in massima parte nati o cresciuti in Italia, sono formalmente ancora cittadini della Repubblica popolare cinese, dovrebbe far riflettere.

Forse non è un caso che la prima rete di “immigrati di seconda generazione” (termine di per sé ambiguo, mutuato dalla sociologia delle migrazioni statunitense, che non riesce a cogliere appieno la complessità dei vissuti e delle appartenenze dei giovani in questione) a nascere in Italia su impulso di una singola minoranza etnica sia proprio Associna. I giovani sino-italiani (insisto su questa definizione, perché gli “italo-cinesi” saranno forse un giorno i figli degli immigrati italiani in Cina), infatti, sono cresciuti nel confronto spesso sofferto con declinazioni dell’identità culturale e dell’appartenenza nazionale particolarmente esigenti, e hanno forse patito più di altri figli di immigrati l’implicita domanda di assimilazione che da sempre la società italiana esprime nei confronti dei suoi “nuovi cittadini”. La realtà familiare caratterizzata da vincoli ancestrali di lignaggio e parentela investiti di rinnovata forza in virtù dell’effetto che le migrazioni tipicamente esercitano sulle reti di consanguinei e compaesani impone loro fin da piccoli una forte assunzione di responsabilità nei confronti delle aspettative dei genitori, del proprio clan, della comunità allargata dei propri compaesani. Una robusta impronta culturale localistica – marcata dall’uso del dialetto e da pratiche tradizionali preservate in seno al nucleo famigliare (cucina, religione, costumi, ecc.) – che solo nell’ultimo decennio è andata gradualmente smorzandosi per cedere il passo al rafforzamento dell’identità pan-cinese, coniugata all’etica del lavoro del migrante di Wenzhou, imprimendo in loro il senso della propria specificità, dell’appartenenza a una narrazione più ampia, con caratteri sovranazionali: quella della storica diaspora dello Zhejiang, diffusa in tutta l’Europa continentale.

Da ultimo, l’ascesa economica e politica della Cina ha portato alla rinascita del sentimento nazionale cinese, riallacciando i fili con le aspirazioni delle figure fondative della Cina moderna. Personaggi che, come il “padre della nazione” Sun Zhongshan (Sun Yat-sen), furono essi stessi originariamente “cinesi della diaspora”. Chi nasce all’estero da cittadini cinesi difficilmente può sottrarsi alla vigorosa retorica nazionale della Cina di questi ultimi vent’anni. Alimentata dai principali veicoli culturali cinesi (cinema, serie televisive, canzoni di successo, romanzi, riviste, microblog online e in generale il palinsesto dei canali della tv di Stato cinese visibili in streaming o via satellite), questa narrazione è contagiosa nel suo fervore patriottico e di fatto colora le aspirazioni e il senso di sé della maggior parte dei giovani cinesi di oggi. Come – e perché – resistervi?

Eppure molti sino-italiani, soprattutto quelli che si esprimono preferibilmente in italiano e che hanno sentito presto l’urgenza di rivendicare uno spazio di legittimità per le proprie inusitate biografe – e dunque le proprie specifiche sensibilità, la propria intima relazione con il contesto sociale e culturale italiano – hanno scelto di “darsi spazio”. Spingendo sulle parentesi. Pretendendo attenzione, ma soprattutto scegliendo di non stare in disparte. Ricordo bene come, proprio a partire dal 2005, non ci fosse quasi più convegno o evento dedicato alla realtà sociale dell’immigrazione cinese o dell’immigrazione di seconda generazione in cui non fossero presenti, in prima fila e pronti a fare domande impegnative, questi giovani dall’aria seria e dallo sguardo vivace. La scelta di Associna è stata infatti anche quella di capire presto che il loro attivismo si sarebbe dispiegato soprattutto in campo culturale, dando volto e voce a un soggetto che fn troppo spesso nel nostro sistema mediatico è ridotto a sfinge, a maschera, a simulacro dell’incomunicabilità. I cinesi d’Italia in questi giovani hanno trovato i loro primi interpreti, ragazze e ragazzi pronti ad assumersi le fatiche di una mediazione che, dall’interazione con la labirintica burocrazia nazionale in aiuto ai propri famigliari fino al confronto con i mass media a supporto di una più dignitosa e corretta rappresentazione della propria comunità, sta lentamente modificando i parametri narrativi del discorso pubblico che troppo spesso li ha imprigionati nello stereotipo dell’immigrato “non assimilabile”, inconoscibile, “chiuso”.

Dato che in Italia, malgrado la prevalenza tra i minorenni cinesi della componente nata sul territorio nazionale, nella fascia dei 19-24enni domina invece tuttora la componente di immigrazione più recente, poco socializzata alla realtà italiana, la forza di queste nuove voci non è ancora compiutamente compresa. Ma ormai è questione di pochi anni, il tempo necessario perché le coorti nate negli anni Duemila raggiungano la maggiore età. Gradualmente ci vedremo circondati da giovani cinesi in età lavorativa che vivono l’italiano come la propria lingua madre e il paese in cui sono nati, giustamente, come casa propria. Dovremo forse – tutti – cominciare a ragionare in termini meno emotivi e più lucidi sul significato che attribuiamo al concetto di cittadinanza. Si tratta di un diritto? Di un valore? Di una scelta? Se possiamo dirci “fieri d’essere italiani”, come onoreremo coloro che, per diventare italiani, rinunciano alla cittadinanza che gli spetta in virtù dello ius sanguinis cinese? O forse l’idea stessa di cittadinanza per i ragazzi del millennio, cinesi e non, è piuttosto un corollario, il suggello delle opportunità che si perseguono per dare forma al proprio progetto di vita? La Cina, come a suo tempo l’Italia, scelse il nazionalismo come antidoto alla frammentazione e alla subalternità, in un’epoca in cui l’autodeterminazione dei popoli (le “nazioni”, appunto) sembrava la migliore garanzia di autonomia politica. L’avventura di Associna forse ci ricorda che il compito precipuo per le giovani generazioni di oggi – le cui vite sono più che mai esposte a fenomeni dirompenti la cui dimensione è globale e transnazionale – è quella di promuovere spazi di libertà per l’autodeterminazione delle persone.

Intervista a Bai Junyi, avvocato e docente universitario, presidente di Associna nel corso dei suoi primi dieci anni di attività (2005-2015).

  • Associna quest’anno compie dieci anni. Quando l’associazione si è formata, cosa volevate diventare?

Associna è nata grazie a persone che erano forse un po’ stanche di sentirsi “né carne né pesce”, percepite come “diverse” tanto dai cinesi nati e cresciuti in Cina, quanto dagli italiani assieme ai quali erano cresciute. I fondatori dell’associazione credo volessero soprattutto farsi forza reciprocamente. E a quel punto hanno anche voluto dare un segnale positivo a coloro che condividevano la medesima esperienza di vita: far loro capire che non erano soli, che quello che qualcuno poteva vedere come una minorità o una debolezza, era invece forse una conquista, una forza di cui andare fieri. Infatti abbiamo voluto fin da subito provare a mettere in evidenza come tra i cinesi d’Italia di seconda generazione ci fossero modelli positivi, persone in cui altri potessero riconoscersi.

  • E dunque cosa siete diventati, nel corso di questo decennio?

Abbiamo mostrato quanto si possa essere capaci di dare un contributo importante alla società italiana proprio a partire da un background migratorio. Noi siamo stati formati alla mediazione fin da piccoli: per tutto il corso della nostra infanzia e adolescenza abbiamo aiutato i nostri genitori a interagire con il mondo italiano. Con la scuola, con il lavoro, con le istituzioni. In un certo senso questo ci ha anche plasmato dal punto di vista della gestione dei confitti. Per noi mediare significa anche comprendere il valore della moderazione, capire che si ottiene di più e spesso in modo migliore se si propongono i propri argomenti evitando i toni dello scontro o della protesta, che invece dominano un po’ l’immaginario della comunicazione in Italia, probabilmente perché fanno audience in televisione. Noi abbiamo scelto di portare avanti alcune istanze che ci toccano molto da vicino, come quella della modifica della legge sulla cittadinanza o la lotta agli stereotipi dilaganti nei media ogni volta che si parla di cinesi, ma senza mai avere la pretesa di essere dei portabandiera in cerca di proseliti. Di fatto noi non facciamo alcuna attività di reclutamento: siamo aperti all’attivismo e al volontariato di chi si sente coinvolto dai temi che ci sembrano importanti, ma senza imporre l’adesione a una specifica visione politica. Oggi Associna ha circa un centinaio di membri, con un’articolazione regionale e locale che dispone di ampia autonomia di azione. Ci sono giovani donne e uomini di età, estrazione sociale e opinioni politiche molto variegate.

  • Avete anche membri che non sono di origine cinese?

Sì, anche se l’associazione è nata per dare voce – e un punto di riferimento in termini di partecipazione sociale – soprattutto a persone di origine cinese: i figli dell’immigrazione cinese “di prima generazione”, quella dei nostri genitori. Anche se poi l’intento è quello di dialogare con la società italiana tutta, e magari anche con quella cinese di origine. Infatti molte delle nostre attività di maggior successo, come l’iniziativa di scambio linguistico-culturale China hour, si rivolgono tanto a studenti italiani attratti dalla lingua e dalla cultura cinese, quanto a studenti universitari giunti dalla Cina per studiare in Italia.

  • Quali obiettivi di lungo termine vi siete dati dopo questo primo giro di boa?

Certamente quello di perseguire in modo sempre più ampio la progressiva “normalizzazione” della nostra esperienza in seno all’Italia ridefinita nella sua composizione demografica, etnica e culturale dalle migrazioni di questi ultimi decenni. Sensibilizzare rispetto alla normalità – e alla dignità – dell’essere sino-italiani. Adottando possibilmente sempre lo stile che più ci appartiene, quello di proporre modelli di ruolo positivi, per mostrare che non esistono definizioni univoche della nostra identità, che siamo tutti, come vuole il nostro motto, “liberi di essere”. Abbiamo giudicato molto positivamente, in questo senso, esperienze di notevole impatto mediatico come quella del reality Italiani made in China, che in modo molto ironico e leggero è riuscito a rendere famigliare a molti giovani italiani la realtà dei loro coetanei sino-italiani. Valutiamo positivamente anche il fatto che comincino a emergere tra noi persone che riescono a proporsi in modo convincente nell’ambito della politica italiana, come Angelo Hu, consigliere comunale a Campi Bisenzio, oppure nel mondo degli affari, della cultura, dello spettacolo. Continueremo a svolgere un ruolo di sensibilizzazione e di promozione nei confronti delle seconde generazioni cinesi, di condanna delle stereotipie negative, di rapporto e di raccordo con i soggetti che in Italia si occupano di immigrazione cinese o di Cina. Non aspiriamo a diventare un’associazione-ombrello, ma piuttosto un volano di cittadinanza attiva che ispiri chi ci incontra a fare la sua parte per le cause in cui crede nei contesti che ritiene più consoni: partiti, movimenti, sindacati, media, nel mondo dell’impresa come in quello dell’arte o dello spettacolo.

  • Come si va sviluppando il vostro rapporto con le associazioni dei cinesi di prima generazione e con le rappresentanze diplomatiche della Repubblica popolare cinese?

In questi anni è cresciuto gradualmente l’apprezzamento da parte delle associazioni più “senior” nei nostri confronti. È chiaro che le loro finalità sono in parte diverse, perché queste realtà hanno più i connotati delle camere di commercio che non delle organizzazioni di promozione sociale. I rapporti con esse sono perlopiù veicolati da singoli membri di Associna che, per il proprio personale percorso imprenditoriale e politico-culturale, possono efficacemente fungere da ponte e magari anche da raccordo attorno a specifiche istanze. Lo stesso discorso vale grosso modo anche per quanto riguarda le relazioni con la diplomazia della Rpc. L’auspicio è che in futuro si possano ulteriormente arricchire le opportunità di dialogo e di interazione, soprattutto nel quadro di attività di promozione culturale in cui una buona cooperazione potrebbe andare a vantaggio di tutti. Questo dipenderà molto anche dai percorsi di crescita che i giovani sino-italiani saranno effettivamente in grado di intraprendere in seno alla società italiana.

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