All’indomani dell’ufficializzazione dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra Repubblica italiana e Repubblica popolare cinese (Rpc), tra i cinesi di Milano, che all’epoca erano 277 individui (verosimilmente la metà circa di tutti i cinesi allora residenti in Italia),[1] serpeggiava una certa inquietudine. A parte 27 naturalizzati italiani, i restanti erano ancora pressoché tutti cittadini della Repubblica di Cina (RdC), cioè detentori di un passaporto riferito a uno Stato cinese che non esisteva più, de facto, in forma unitaria. Dopo la vittoria del Partito comunista cinese nella guerra civile nel 1949, la nuova Repubblica popolare cinese, con capitale Pechino, esercitava la propria sovranità sull’intero territorio della Cina continentale, con l’eccezione delle colonie di Hong Kong e Macao, mentre la giurisdizione della Repubblica di Cina, governata dal Partito nazionalista cinese (Kuomintang), si era ristretta all’isola di Taiwan e a piccoli arcipelaghi ad essa contigui, sotto la protezione statunitense. Le logiche della Guerra fredda avevano congelato la situazione, facendo sì che i due governi di Pechino e Taipei continuassero a rivendicare la titolarità dell’autorità legittima sull’intera Cina.
In questo quadro, era dunque impossibile preservare la presenza istituzionale della Repubblica di Cina sul suolo italiano nel momento in cui si formalizzavano le relazioni diplomatiche con la Rpc. La chiusura delle sedi diplomatiche della Cina nazionalista, compreso il suo Consolato a Milano in piazza della Repubblica 25, lascia quindi improvvisamente orfana la piccola minoranza cinese d’Italia. Al giornalista Arnaldo Giuliani, inviato dal Corriere della Sera a sondare gli animi dei cinesi di via Canonica, nessuno dei cinesi del quartiere rilascia commenti che riflettano apertamente le diffuse preoccupazioni.[2] Ma nel ricordo dei cinesi che al tempo venivano considerati di “seconda o di terza generazione” – ossia i figli e i nipoti della “vecchia guardia”, i cinesi stabilitisi nel capoluogo lombardo in epoca fascista – i quindici anni che separano il riconoscimento del governo di Pechino, il 6 novembre 1970, dall’apertura di un Consolato generale della Rpc a Milano, nel luglio del 1986, saranno un’epoca segnata dalla più significativa lacerazione intestina che la comunità cinese abbia mai vissuto. Fino a quel momento, la comunità cinese o, più propriamente, “italo-cinese”, dato che era costituita in gran parte da uomini cinesi che avevano sposato donne italiane e dai loro figli e nipoti, in massima parte iscritti in anagrafe come cittadini cinesi (Repubblica di Cina), era stata pressoché compatta nella sua lealtà al Kuomintang. Questo non soltanto per il fatto di essere oriundi di una provincia cinese, il Zhejiang, che era stata una vera roccaforte per il Partito nazionalista, partito guidato dal 1925 e fino alla morte, avvenuta esattamente cinquant’anni più tardi, da Chiang Kai-shek, figlio illustre della medesima provincia. Ma anche per aver incarnato fedelmente la forma mentis e le aspirazioni di riscatto sociale dell’imprenditore cinese all’estero, la cui parabola “rags to riches” è testimonianza vivente, e multigenerazionale, di una mentalità che la Cina comunista bollava senza appello come capitalista e reazionaria.
Poco meno di vent’anni prima, qualcuno era in effetti tornato in Cina, con moglie italiana e figli al seguito. Chi era riuscito a sfuggire all’internamento aveva investito i proventi dei lunghi anni di duro lavoro in Italia nell’acquisto di immobili e terreni tanto nel proprio villaggio natio, dove era imperativo costruire una dimora più confortevole (e una tomba monumentale) per i propri genitori, quanto nei centri urbani di Qingtian e di Wenzhou. In questa città, il più importante porto della zona, sorse un quartiere in stile moderno “straniero” in cui alloggiare era anche un attributo di distinzione e di status. Le famiglie “europee” erano spesso domiciliate in quest’area della città, dove nel breve interludio tra la fine della Seconda guerra mondiale e il successo della Rivoluzione comunista, fiorì una piccola società meticcia e cosmopolita, in cui accanto alla lingua cinese di Wenzhou (l’impenetrabile wenzhouhua, che diverse mogli italiane impararono a parlare) si sentiva parlare anche il francese, l’olandese e il tedesco. A chi era stato internato e riuscì a far valere le proprie istanze di risarcimento, la neonata Repubblica italiana erogò anche una somma considerevole (da 100.000 a 180.000 lire, un ammontare equivalente a circa un anno dello stipendio di un operaio italiano a fine anni Quaranta) a titolo di compensazione per le angherie e i danni economici subiti durante la guerra: i cinque anni di prigionia, il bombardamento delle proprie abitazioni e botteghe, la bancarotta delle proprie piccole attività artigiane, ecc.[3]
Tuttavia, quel che nella Repubblica di Cina era considerato riscatto sociale e status symbol, nella Cina comunista – specie durante i difficili anni della riforma agraria e delle campagne contro i controrivoluzionari – era un chiaro marchio d’infamia: qualcuno riuscì a trasferirsi a Taiwan al seguito dell’esercito nazionalista in evacuazione, oppure a scampare le persecuzioni in tempo per tornare in Italia nei primi anni successivi alla fondazione della Repubblica popolare cinese. Per i vent’anni seguenti, i rapporti tra i cinesi rimasti in Italia e i loro parenti in Cina si diradarono considerevolmente, perché durante le ripetute campagne di mobilitazione politica di massa dell’epoca maoista avere parenti all’estero esponeva l’intera famiglia al sospetto di accogliere nel proprio seno pericolosi elementi controrivoluzionari, quando non addirittura spie nazionaliste. Le liturgie dell’associazionismo comunitario del tempo contemplavano la regolare celebrazione del “doppio dieci”, la festa della fondazione della Repubblica di Cina, che ricorre ogni dieci di ottobre. Le testimonianze fotografiche di queste celebrazioni, conservatesi negli album delle famiglie cinesi di più antico lignaggio migratorio, non lasciano adito a dubbi sui sentimenti di lealtà alla madrepatria nazionalista dei cinesi d’Italia negli anni della ricostruzione e del miracolo economico.
Ma vi erano anche, tra loro, persone che da tempo guardavano con aperta simpatia alla giovane Repubblica popolare cinese, come il più influente leader della comunità cinese di Milano del dopoguerra, il signor Hu Suzan (Hu Xizhen). A fine agosto del 1945 egli fondò l’Associazione dei commercianti e lavoratori cinesi in Milano (Mǐlán Huáqiáo gōngshāng liánhéhuì 米蘭華僑工商聯合會), che è tuttora la principale associazione di riferimento per i cinesi di Milano, e nei primi vent’anni del dopoguerra lo fu per i cinesi di tutta Italia. Hu Xizhen era uno dei veterani dell’epopea migratoria che ha visto protagonisti i cinesi di Qingtian e di altri distretti dell’entroterra di Wenzhou negli anni Venti del secolo scorso. Giovanissimo, nel 1923 emigrò in Giappone e sopravvisse miracolosamente ai tremendi eventi del terremoto del Kantō. Oltre al sisma violentissimo, un cataclismico incendio e il successivo massacro di migliaia di coreani e centinaia di cinesi, innocenti capri espiatori di una rabbia popolare che assunse subito le tinte del più brutale odio razziale, decimarono la piccola colonia di cinesi del Zhejiang insediatasi nelle circoscrizioni di Kanagawa e Ōshima, nei pressi di Yokohama, il principale porto di Tokyo[4]. La durezza del trattamento inflitto ai lavoratori cinesi anche prima del terremoto ne stimolò non solo i sentimenti nazionali, ma anche la coscienza di classe. Hu fu tra i primi cinesi del Zhejiang a trasferirsi in Francia nel 1926, con la migrazione dei venditori ambulanti di perle finte. Negli anni Trenta si spostò in Italia, a Milano, dove nel 1941 fondò una delle prime e più prospere aziende di manifattura di articoli in finta pelle, la S.C.I.C.E.N (Società cinese in Italia per il commercio estero e nazionale). Nel dopoguerra, come racconta il figlio Ivo e come testimoniano molti italocinesi che lo conobbero da vicino, fu fin da subito tra coloro che approvavano l’avvento della “nuova Cina” – la Rpc – ai suoi occhi vera erede dell’afflato rivoluzionario della prima Repubblica di Cina, prima cioè della svolta anticomunista di Chiang Kai-shek e del cosiddetto “decennio di Nanchino” (1927-1937).
All’indomani del riconoscimento della Rpc da parte del governo italiano, Hu Xizhen divenne presto un punto di riferimento per le prime visite di notabili della Cina comunista in Italia. Nel 1972 Hu accolse a Milano il sindaco di Shanghai: pochi anni più tardi, nel 1979, Milano e Shanghai stipuleranno un accordo di gemellaggio. In quest’opera di rapprochement politico-economico, si fece intermediario dei primi accordi per l’avvio di scambi economici tra i due paesi, lavorando a stretto contatto con la Camera di commercio italo-cinese di Vittorino Colombo. La sua deliberata politica di convincimento all’adesione alla Rpc finì per persuadere o cooptare buona parte dei cinesi d’Italia, che come lui rinunceranno al “passaporto blu” della Repubblica di Cina per acquisire il “passaporto rosso” della Repubblica popolare cinese. Questa svolta fu grandemente agevolata dal nuovo corso della politica cinese verso la diaspora, ora sempre più vista da Pechino come possibile sostegno al rilancio dell’economia cinese, sfinita dalla fase più turbolenta della Rivoluzione culturale. Queste dinamiche subiranno una fortissima accelerazione dopo l’avvento al potere di Deng Xiaoping nel 1978, e i cinesi del Zhejiang rimasti fedeli alla Cina nazionalista diventeranno presto un’esigua minoranza. Tra di loro vi furono però figure chiave della diaspora del Zhejiang in Italia, come Umberto Sun (Sun Yaoguang) a Bologna, che militò nei ranghi del Guomindang fin dal 1959 e nel 1973 divenne il rappresentante ufficiale dei cinesi cittadini della Roc residenti in Europa, oppure Hu Bunko, detto Gionsà (Hu Zhongshan), fondatore della celeberrima fabbrica di borse Nanchino e del primo ristorante cinese di Milano, La Pagoda, nel 1962.[5]
I “taiwanesi” d’Italia sarebbero rimasti numericamente un’esigua minoranza, destinata presto a scomparire nel mare magnum dei flussi migratori sempre più impetuosi che avrebbero raggiunto l’Italia dal Zhejiang a partire dagli anni Ottanta. Entrambi i gruppi, tuttavia, erano uniti da vincoli di lignaggio, compaesanità, amicizia e parentela: condividevano il medesimo retaggio ancestrale, la stessa lingua (varianti locali della lingua di Qingtian e della lingua di Wenzhou, tra le lingue sinitiche che vantano la minore intellegibilità con il cinese moderno standard e con altre lingue e dialetti della Cina), lo stesso travagliato passato intessuto dei maggiori drammi che avevano scosso e riconfigurato il continente eurasiatico nel Novecento. Lo strappo fu tanto più doloroso e difficile da sanare e le relazioni tra queste due anime della storica immigrazione cinese in Italia rimangono ancora oggi in balìa delle ondivaghe – e ora decisamente tempestose – relazioni tra i governi della Rpc e di quella che oggi si chiama “Repubblica di Cina (Taiwan)”. Sul piano politico, economico e sociale, prevalsero nettamente i “cinesi d’oltremare patriottici” (àiguó huáqiáo, 爱国华侨), bene inquadrati nei dispositivi di raccordo politico e ideologico della Rpc, le qiao-lian e le qiao-ban, ossia le organizzazioni dei cinesi d’oltremare sottoposte al coordinamento dell’Ufficio per gli affari dei cinesi d’oltremare del Consiglio per gli affari di Stato della Rpc. Nel trentennio della politica di riforma e apertura, queste realtà agirono soprattutto sul desiderio duplice di tornare a far visita alle famiglie rimaste nei propri villaggi ancestrali e di contribuire allo sviluppo della madrepatria, magari cogliendo anche qualche importante occasione per fare affari. Spinte più che sufficienti a motivare la stragrande maggioranza dei cinesi d’Italia degli anni Settanta a cambiare bandiera, per ritrovare la via di casa, rilanciare la migrazione dal Zhejiang all’Europa e partecipare da protagonisti all’ascesa della Cina nel mondo.
[1] La stima è modellata sulla base della distribuzione territoriale dei cinesi d’Italia all’epoca del censimento del 1961. Purtroppo per il censimento dell’anno 1961 non è disponibile il dato sui cittadini soggiornanti (“temporaneamente presenti”), mentre per i censimenti degli anni 1971 e 1981 manca il dato relativo agli stranieri residenti disaggregato per nazionalità.
Il primo dato ufficiale nazionale è relativo ai cittadini cinesi soggiornanti in Italia nel 1980, 730 persone, cfr. dati Istat riportati in: Antonio Cortese, Le particolari vocazioni professionali di una comunità immigrata. I cinesi: dalla pelletteria alla ristorazione – Quaderni di Economia, Matematica e Statistica, Facoltà di Economia e Commercio, n. 18 (Urbino: Università degli Studi di Urbino, 1991).
[2] Arnaldo Giuliani, “Dopo il riconoscimento di Pechino. Alla finestra i cinesi di Milano”, Corriere della Sera, 7 novembre 1970, p. 8.
[3] Si veda Daniele Brigadoi Cologna, Aspettando la fine della guerra. Lettere dei prigionieri cinesi nei campi di concentramento fascisti (Roma: Carocci, 2020), pp. 83-93.
[4] J. Charles Shencking, The Great Kantō Earthquake and the Chimera of National Reconstruction in Japan (New York: Columbia University Press, 2013).
[5] Si vedano le testimonianze raccolte in: Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, Chinamen. Un secolo di cinesi a Milano (Padova: Becco Giallo, 2017). Si veda anche Mario Tschang, E finalmente imparerò il cinese (Padova: CasadeiLibri, 2011).
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