[Cineresie] Esperimenti per una riforma della cittadinanza

Uno degli aspetti più spinosi e complessi delle riforme nella Cina contemporanea riguarda la questione del sistema di registrazione famigliare, il cosiddetto hukou (户口). Nato alla metà degli anni Cinquanta come strumento di controllo della popolazione, questo meccanismo ancora oggi vincola la popolazione cinese al proprio luogo d’origine, distinguendo tra una forma di cittadinanza “agricola” (农业户口, nongye hukou) e “non agricola” (非农业户口, fei nongye hukou). Se i residenti delle aree urbane, in quanto portatori di hukou non rurale, godono di un trattamento preferenziale dal punto di vista della sanità, degli alloggi, dell’educazione e delle pensioni, i detentori di hukou rurale continuano ad avere un accesso molto limitato ai servizi pubblici, quasi fossero cittadini di seconda classe. Se poi si considera che attualmente decine di milioni di contadini – le ultime cifre parlano di oltre 220 milioni – sono emigrati nelle città per lavorare, la portata di questo problema sociale appare evidente.

Fin qui niente di nuovo. Da anni la comunità internazionale e i media cinesi e stranieri criticano costantemente la discriminazione derivante da questo sistema. Meno notati sono però gli esperimenti con cui le autorità cinesi hanno cercato nell’ultimo biennio di cambiare la situazione. Come di consueto, si è deciso di partire da specifici esperimenti su base locale in alcune aree “campione”. In particolare, nel solo 2010 ben quattro località sono finite sotto i riflettori per le proprie innovazioni in questo campo: Shanghai, Chongqing, Chengdu e l’intera provincia del Guangdong.

Se Shanghai si è limitata ad adottare misure per attrarre e trattenere manodopera qualificata, permettendo ad alcune categorie professionali di richiedere lo hukou urbano, decisamente più interessante è l’esperimento attuato dalla provincia del Guangdong, dove nel giugno del 2010 è stato adottato in via sperimentale uno “hukou a punti”. Si tratta in sostanza di un sistema che consente ai lavoratori migranti, una volta raggiunto un determinato punteggio, di richiedere lo hukou urbano. I criteri di valutazione comprendono un misto di indicatori decisi a livello provinciale e cittadino, come la partecipazione ai fondi previdenziali, il contributo alla società e la situazione occupazionale e fiscale dei singoli individui. Il tutto con l’obiettivo dichiarato di assorbire a pieno titolo nei centri urbani oltre 1,8 milioni di migranti entro la fine del 2012, una cifra non poi così notevole, se si considera che nell’intera provincia del Guangdong i lavoratori migranti sono quasi 30 milioni.

Risonanza ancora maggiore hanno avuto gli esperimenti di riforma in atto a Chongqing e Chengdu. Le autorità di Chongqing hanno deciso di adottare un approccio graduale alla riforma, impegnandosi a creare nuovi alloggi, nuove scuole e nuovi posti di lavoro per accogliere la popolazione proveniente dalle campagne. I numeri sono massicci: si parla di 5-6 milioni di nuovi posti di lavoro nel giro di cinque anni, così come di oltre 30 milioni di metri quadri di nuove abitazioni e cento scuole medie ed elementari nello stesso arco di tempo. L’obiettivo è avere 7 milioni di nuovi residenti urbani entro il 2020, il 60% della popolazione totale. Al contrario, Chengdu ha adottato un approccio più radicale, attuando una serie di politiche mirate alla completa abolizione di ogni distinzione tra hukou rurale ed urbano entro il 2012.

La società cinese segue con grande interesse e partecipazione questi tentativi di cambiamento. Con un’iniziativa senza precedenti, il primo marzo del 2010 ben tredici differenti testate sparse in tutto il paese hanno pubblicato uno stesso editoriale richiedendo a gran voce un’accelerazione della riforma. Secondo uno studio dell’Accademia cinese delle scienze sociali, nel maggio del 2011 erano oltre 18mila gli articoli sulla riforma dello hukou disponibili su Baidu News, per la maggior parte focalizzati sulla descrizione delle nuove politiche, ma con una non trascurabile vena critica. Secondo un sondaggio d’opinione condotto nel giugno del 2010 dal portale web Sohu.com, su 47.932 intervistati il 49% riteneva che fosse necessario abolire il sistema dello hukou, permettendo ai cittadini una totale libertà di movimento; il 39% si schierava a favore di un avanzamento delle riforme, al fine di separare i diritti e il welfare collegati al sistema della registrazione e trovando un sistema di gestione della popolazione alternativo in modo da garantire flussi migratori ordinati; il 9% era assolutamente contrario a qualsiasi riforma; il 3% semplicemente non era interessato al problema.

Eppure, nonostante tutta quest’attenzione, nella società cinese rimangono notevoli resistenze ad una riforma radicale dello hukou. Da un lato, la popolazione urbana teme gli effetti che una mobilità incontrollata potrebbe avere sui servizi pubblici, dall’altro i migranti temono di perdere il diritto alla terra, unica forma di sicurezza sociale che sostiene le loro famiglie in caso di crisi o disoccupazione. Di fatto, la riforma dello hukou non è solamente una questione astratta di diritti, ma anche e soprattutto un processo strettamente legato alla questione della riforma della terra e alla disponibilità di risorse pubbliche da erogare nella forma di servizi. La complessità del problema rischia a volte di sfuggire all’osservatore straniero, ansioso com’è di articolare il discorso esclusivamente in termini di “diritti”. Il punto è che la situazione sta cambiando, lentamente ma sta cambiando. Sta a noi cogliere il significato e la portata di questo cambiamento.

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