Chi abbia familiarità con i tempi e la salienza dei cicli politico-istituzionali in Cina non può non interrogarsi sulla logica che ha portato la dirigenza di Pechino a dichiararsi, lo scorso 4 febbraio 2022, disponibile a una cooperazione “senza limiti” con il Cremlino, appena tre settimane prima dell’invasione russa in Ucraina.
Il 2022 non è, infatti, un anno qualunque per il Partito Comunista Cinese (PCC). A cent’anni dalla stesura del suo primo statuto, il Partito si appresta a celebrare il XX congresso nazionale e a selezionare i vertici della nomenklatura che dovrà guidarlo per il prossimo lustro, e dunque accompagnare la Repubblica Popolare Cinese all’ingresso nel novero delle grandi economie mondiali ad alto reddito. Pur se accuratamente preparato per mesi in una dialettica di vertice per lo più indecifrabile dall’esterno, ogni congresso nazionale è sempre un momento di estrema delicatezza. In questo particolare caso, poi, si arriverà all’appuntamento – previsto per l’autunno – in una condizione di assoluta eccezionalità. Per la prima volta dalla morte di Mao Zedong nel 1976, il Segretario generale uscente, Xi Jinping, potrebbe succedere a se stesso a dispetto dei due mandati quinquennali già esperiti (2012-2017, 2017-2022). Non si tratta di un mero tema di ricambio del personale politico: dopo gli eccessi del radicalismo monocratico di Mao, i dirigenti del PCC istituzionalizzarono procedure di avvicendamento al vertice della Repubblica Popolare Cinese (RPC) con il fine esplicito di garantire la stabilità del Partito – e dunque il suo monopolio sulle leve di controllo dello stato e della società cinese – assicurando una certa contendibilità intra-partitica del potere. In Cina la popolazione non vota per i propri leader, e anche i membri ordinari del Partito hanno una limitatissima capacità di incidere sui vertici; il vincolo del doppio mandato e un’età-limite per l’accesso alle cariche apicali fissata a 68 anni sono stati i meccanismi basilari che hanno agevolato la condivisione e il trasferimento relativamente pacifico del potere all’interno dell’élite del PCC nell’ultimo trentennio. Ciò ha mitigato la tossicità delle lotte tra fazioni nel Partito, preservandolo al contempo dai rischi della senilità autocratica.
La torsione personalistica impressa da Xi rispetto alla natura collegiale della leadership del PCC post-maoista sembra ora preludere a una nuova topografia politica per la Cina: una prospettiva in cui il vertice resta inamovibile e sovraordinato agli altri membri degli organi apicali del Partito, di per sé privi di una base autonoma di potere che prescinda dalla relazione personale con il “nucleo” (核心, hexin) del sistema, rappresentato dal Segretario generale. Questo scenario suscita una preoccupazione speculare rispetto a quella diffusasi, nel periodo 2002-2012, per l’apparente mancanza di incisività della dirigenza guidata da Hu Jintao e Wen Jiabao. Il PCC non è sopravvissuto per un secolo, né ha governato il paese più popoloso al mondo per oltre 70 anni, senza aver sviluppato una raffinata capacità di adattamento e, prima ancora, di apprendimento dagli errori propri e altrui. La minaccia dell’uomo solo al comando rispetto all’esigenza di flessibilità è dunque tema noto, sia per l’esperienza storica cinese nel periodo 1956-1976, sia per molte analoghe iterazioni nel campo socialista. Analogamente, basta richiamare l’Unione Sovietica di Brežnev o dell’ultimo Gorbačëv per cogliere i rischi insiti nella stasi del sistema politico-istituzionale o nella frammentazione incontrollata degli interessi economici e degli incentivi sociali.
Se, dunque, i mesi che preludono al congresso nazionale del PCC sono il momento cruciale in cui si definiscono le vere partite di potere in Cina, prima delle liturgie formali dei giorni in cui si riuniscono i delegati, ne consegue che è prioritario preservare un contesto stabile e abilitante in particolar modo in questa fase del ciclo politico. Della Cina di inizio 2022, invece, tutto si può dire fuorché che essa stia attraversando una fase di ordinaria amministrazione: le più recenti varianti della pandemia da COVID-19, cui Pechino fa fronte con una stringente politica “zero-COVID”, hanno portato in lockdown la più rappresentativa e cosmopolita città cinese, Shanghai, con i suoi 26 milioni di abitanti, suscitando malumori diffusi nella popolazione. Sul versante economico, i mercati finanziari cinesi hanno sperimentato volatilità acuta, richiedendo rassicurazioni verbali da parte del governo rispetto a una politica economica accomodante per il resto dell’anno. È in questo quadro già problematico che si inserisce l’ostentato consolidamento della partnership cinese con la Russia alla vigilia della guerra d’Ucraina.
Le relazioni sino-russe hanno sperimentato un costante approfondimento negli ultimi anni. Per la Cina, la Russia gioca un ruolo decisivo per la sicurezza energetica, alimentare, militare e normativa del Partito-stato, tanto più in un contesto di crescenti frizioni con gli Stati Uniti. Nel 2021 Pechino e Mosca hanno rinnovato il Trattato ventennale di buon vicinato e cooperazione amichevole originariamente firmato nel 2001. Già all’epoca inquadrato come allineamento tattico a contrasto dell’egemonia statunitense, il rinnovo del Trattato va letto nei termini dell’impegno dei due paesi a propugnare un ordine internazionale plurale commisurato a un sistema ormai post-unipolare. Si tratta, cioè, di costruire un mondo ospitale e abilitante anche per regimi politici non-democratici. Che tale progetto politico abbia assunto una centralità più spiccata a Pechino da che la dirigenza cinese è guidata da Xi Jinping è plasticamente dimostrato dalla condotta cinese sulla guerra Ucraina. Il confronto con il recente passato è eloquente: nel 2008, in occasione dell’attacco russo alla Georgia, era stata proprio la Cina a osteggiare l’adozione di una posizione favorevole a Mosca da parte della Shanghai Cooperation Organization (che all’epoca riuniva, oltre a Cina e Russia, anche Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan e Uzbekistan).
Al netto del maquillage diplomatico, nel caso dell’attuale conflitto non appare plausibile una lettura in cui i vertici cinesi non fossero informati delle intenzioni russe. Non occorre scomodare le eccellenti competenze analitiche di cui Mosca dispone sulle questioni cinesi per cogliere come la mancata condivisione di un’informazione così decisiva in occasione del vertice Putin-Xi del 4 febbraio sarebbe stata letta da parte cinese come una oltraggiosa perdita di “faccia” ( 面子, mianzi) per il leader. Sarebbe stato alquanto improbabile, a quel punto, per il governo russo poter contare sulla benevola neutralità abilitante che le autorità cinesi hanno invece sin qui scelto come propria linea di condotta sulla guerra. Più realistico appare uno scenario secondo il quale il livello apicale russo rende edotta la controparte cinese del prossimo avvio delle operazioni militari, prospettando una campagna-lampo capace di decapitare la resistenza ucraina e prevenire lo scivolamento di Kiev verso l’approdo europeo e, in prospettiva, euro-atlantico. Come noto, questo piano è fallito, compromettendo anzitutto il disegno strategico russo, ma anche, in quanto derivato di quest’ultimo, quello perseguito dall’attuale dirigenza cinese.
Pechino si trova così più esposta di quanto previsto, e in una posizione alquanto scomoda: l’impegno, a lungo profuso, per una maggiore autonomia strategica europea dagli Stati Uniti risulta vanificato dalla rivitalizzazione della NATO; gli alleati asiatici degli Stati Uniti – Giappone e Corea del Sud, ma anche Singapore – hanno visibilmente preso posizione in allineamento con l’asse euro-atlantico, frustrando gli auspici di quanti vorrebbero un’Asia orientale svincolata dall’influenza statunitense; la rivendicazione di un primato morale cinese in politica internazionale in ragione della categorica difesa del principio di sovranità contro l’interferenza di potenze esterne risulta gravemente compromessa; infine, la contraddizione tra l’ostentato avvicinamento cinese a partner politici autocratici e la perdurante necessità di preservare i colossali interessi economici nelle relazioni con l’Occidente appare di sempre più difficile riconciliazione.
Naturalmente, a distanza di oltre un mese dall’inizio di un’invasione che sarebbe dovuta durare pochi giorni, un riposizionamento cinese non sarebbe di per sé inconcepibile. Occorre tornare alla dinamica politica interna per ricostruire le ragioni per cui tale riposizionamento sembra improbabile, nonostante gli evidenti costi reputazionali a carico di Pechino presso il pubblico occidentale, già esposto a dibattiti tutt’altro che encomiastici sulle politiche del governo cinese a Hong Kong, in Xinjiang, e, soprattutto, riguardo alla gestione delle fasi iniziali di quella che diverrà la pandemia da COVID-19. Un mutamento di orientamento in questa fase costituirebbe una smentita della linea politica avallata dal Segretario generale proprio nel momento in cui si definiscono i nuovi equilibri di potere all’interno del Partito. Non mancano, infatti, coloro che ritengono avventato il nuovo corso della politica estera cinese, vuoi contestando la scelta dei tempi e dei toni utilizzati per proiettare verso l’esterno le ambizioni di una Cina “rigenerata” (复兴, fuxing) – troppo assertiva troppo presto –, vuoi negando che il riemergere della Cina a una posizione di centralità globale debba essere perseguito come un gioco a somma zero rispetto all’ordine internazionale imperniato sugli Stati Uniti.
Poiché, dunque, un mutamento di linea potrebbe essere strumentalizzato e presentato come cedimento o ammissione di erronea valutazione politica a carico dei decisori, occorre concludere che affinché si realizzi una discontinuità nella condotta di Pechino il calcolo politico interno dovrà presentare alla leadership uscente maggiori benefici derivanti da un cambio di approccio rispetto ai verosimili costi in termini di rischio di delegittimazione. Non sembrano esservi più di due vie per cui si potrebbe presentare uno scenario del genere, e dunque un cambio di passo nella condotta cinese. La prima è quella di un accrescimento dei costi collegati al mantenimento dell’attuale postura, oggi evidentemente considerati a Pechino inferiori ai benefici: la Cina è già colpita, indirettamente, dalle sanzioni occidentali alla Russia, e la pressione in questo senso potrebbe aumentare rendendo sempre meno desiderabile l’attuale politica di neutralità abilitante. Questa traiettoria presenta, però, la contro-indicazione di poter suscitare una reazione inversa di arrocco, in cui la dirigenza cinese inibisce le critiche all’interno del sistema invocando unità dinnanzi alla minaccia occidentale agli interessi cinesi. La seconda via richiede di lavorare sul versante dell’accrescimento dei benefici attesi da un cambio di approccio, investendo sulla prospettiva di dividendi politici importanti per i vertici cinesi da acquisirsi mediante un’azione diplomatica decisiva per la risoluzione del conflitto. Un simile risultato richiederebbe, tuttavia, l’impiego congiunto di ingente capitale politico da parte di Washington e Pechino, e con un notevole pericolo di fallimento dinnanzi all’idiosincratica leadership di Vladimir Putin. Pur in un quadro internazionale strutturalmente diverso, c’è da augurarsi che il 50° anniversario del clamoroso viaggio di Richard Nixon in Cina nel febbraio 1972 sia oggi d’ispirazione per un’azione diplomatica tanto coraggiosa quanto creativa da ambo le parti. Il momento non richiede nulla di meno.
Per saperne di più
García Herrero, A. (2022) China can only offer an immediate respite for the Russian economy. Bertelsmann Stiftung GED.
Kirchberger, S. (2017) The end of a military-industrial triangle: Arms-industrial co-operation between China, Russia and Ukraine after the Crimea crisis. SIRIUS – Zeitschrift für Strategische Analysen.
Ownby, D. (n.d.) Zheng Yongnian, Ukraine and the New World Order. Introduction and translation. Reading the China Dream.
US-China Perception Monitor (2022) Possible outcomes of the Russo-Ukrainian war and China’s choice. US-China Perception Monitor Commentaries.
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