Tra status e agency: Cina e Italia a 50 anni dalla normalizzazione delle relazioni

La Repubblica italiana e la Repubblica popolare cinese (Rpc) giungono a commemorare il 50° anniversario della normalizzazione delle relazioni diplomatiche in un frangente storico che appare tra i meno abilitanti dalla fine del secondo conflitto mondiale.

Sul fronte sanitario ed economico, dopo aver compromesso la mobilità tra i due paesi fino quasi ad azzerarla nella primavera 2020, la pandemia da COVID-19 sperimenta oggi una recrudescenza destinata ad aggravare la recessione dell’economia globale, con pesanti ricadute sociali che potranno incidere in modo significativo anche sugli equilibri globali reali e percepiti[1]. Una survey di recente pubblicata dal Pew Research Center,[2] condotta nel mese di agosto 2020, mostra come gli italiani riportino la percentuale più alta tra tutti i paesi sondati rispetto a coloro che ritengono che la Cina sia già oggi la prima potenza economica globale (57%). Mentre prende vigore il dibattito sul futuro della globalizzazione, tra contrastate dinamiche di reshoring e avventurose ipotesi di de-linking dalla Cina, l’opinione pubblica italiana appare dunque molto sensibile alle implicazioni problematiche della tensione tra vincoli di sicurezza nazionale e opportunità legate all’accesso al mercato e agli investimenti cinesi.

Tale dialettica è resa più stringente, anche per l’Italia, dal rapido deterioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Rpc. Il discorso del Segretario di Stato Mike Pompeo a Yorba Linda il 23 luglio 2020 ha sintetizzato la ragione di fondo per cui a Washington si considera esaurito l’approccio inclusivo inaugurato da Richard Nixon e Henry Kissinger nei primi anni Settanta del secolo scorso: l’engagement non ha prodotto i cambiamenti attesi all’interno della Cina e la sua crescente influenza globale va contrastata in quanto espressione di un regime politico leninista che per la propria stessa natura minaccia gli interessi statunitensi.[3] Una particolare ambizione maieutica è diffusa in parte dell’establishment e della società statunitense sin dal XIX secolo: trasformare la Cina in senso più affine alla modernità “americana”. Secondo questo approccio, le riforme economiche in Cina, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, andavano agevolate mediante investimenti e politiche di integrazione della Rpc nei mercati globali anche per consentire una diffusione del benessere materiale che avrebbe favorito una trasformazione in senso meno autocratico del regime politico cinese.[4] Questo slancio appare compromesso, essendosi consolidata una frustrazione bipartisan a Washington rispetto al fallimento, per il futuro prevedibile, di una prospettiva riformista in Cina che possa essere letta nei termini di un gioco a somma positiva per gli Stati Uniti.

Anche l’Unione Europea ha mutato atteggiamento verso la Cina della “nuova era” di Xi Jinping, tuttora considerata un partner su specifiche agende globali, ma anche qualificata – apertis verbis – come un concorrente sui mercati globali e un rivale che promuove sistemi di governance alternativi.[5] Non si tratta di una svolta improvvisa, né transitoria. Le dinamiche che portano le imprese cinesi a competere sempre più efficacemente in settori ad alto valore aggiunto e ragguardevole intensità tecnologica – insidiando ora anche i grandi operatori tedeschi e francesi – si inseriscono in una cornice più ampia di sfide che trascendono la dimensione commerciale e investono l’identità stessa dell’Unione Europea. La filosofia della concorrenza su cui si è storicamente fondato il mercato unico è chiamata a confrontarsi con l’esigenza che l’Europa non sia priva di “campioni continentali” capaci di reggere la pressione dei grandi gruppi statunitensi e cinesi in settori strategici.[6] I meccanismi di ponderazione del ruolo della mano pubblica nell’economia nazionale vanno aggiornati alla luce del superamento della tradizionale dicotomia Stato/mercato, come evidenziato dall’incipiente politicizzazione della governance delle imprese cinesi private, chiamate a perseguire finalità anche “patriottiche” e ad accogliere un ruolo incisivo nel loro management da parte delle organizzazioni del Pcc (che sono distinte dalle amministrazioni dello Stato).[7] Le politiche di allargamento e vicinato devono essere riallineate in rapporto alle agende di connettività euroasiatica della Belt and Road Initiative (BRI), proiettate da Pechino talora mediante strumenti che possono esaltare la frammentazione dello spazio politico europeo, come nel caso della piattaforma 17+1.[8] La pressione degli Stati Uniti sul dossier 5G evidenzia quanto sia complesso armonizzare le relazioni transatlantiche – e le politiche di sicurezza nazionale – dei singoli Stati membri con un approccio europeo che risponda a un quadro normativo organico e non all’idiosincrasia di specifiche tensioni geopolitiche con un paese terzo. Infine, per un soggetto come l’Unione, che ha a lungo supplito al basso profilo di molti Stati membri sulla gestione del dossier diritti umani nei rapporti con Pechino, e che presenta un Parlamento sensibile e proattivo sul tema,[9] è sempre più difficile trovare un posizionamento sostenibile rispetto alle oscure vicende che riguardano le politiche di assimilazione delle minoranze etniche cinesi[10] e alla plateale deviazione di Pechino dallo spirito e dalla lettera della Sino–British Joint Declaration che nel 1984 definì i termini del ritorno di Hong Kong sotto la sovranità cinese.[11]

In un simile contesto, come interpretare l’indirizzo politico che nel 2019 – in evidente controtendenza – ha portato l’Italia a firmare il Memorandum of Understanding (MoU) per la collaborazione sulla Belt and Road Initiative? E quali prospettive è lecito attendersi per le relazioni sino-italiane nel prossimo futuro? La tesi di questo articolo è che per comprendere la logica che ha indotto il governo Conte I a un passo senza precedenti tra i maggiori paesi occidentali, tanto più in questa fase storica, occorra ragionare nei termini di concessione di status da parte dell’Italia a beneficio della Rpc, in cambio di agency.

Lo status nelle relazioni internazionali

Lo status è una dimensione centrale della vita sociale, tanto per gli individui, quanto per gli Stati. Esso è un “bene posizionale”, cioè definisce un posizionamento rispetto al quale gli Stati – vale a dire i loro governanti – sono estremamente sensibili.[12] Tale posizionamento può essere inteso come l’appartenenza, in assoluto, a un gruppo[13] che rafforza l’identità sociale dello Stato – si pensi alla vexata quaestio sullo status di grande potenza dell’Italia post-unitaria – oppure come collocazione, relativa, all’interno di una gerarchia sociale alla luce della maggiore o minore dotazione di attributi ritenuti significativi dalla collettività (ricchezza, capacità coercitive, coesione sociale, attrattività culturale, situazione demografica, organizzazione socio-politica, influenza normativa e diplomatica).[14] Lo status ha dunque una natura intrinsecamente comparativa – giacché assume senso nella misura in cui situa un attore rispetto ad altri soggetti rilevanti – e sociale: esso deriva da una convinzione generalizzata rispetto al fatto che le qualità di uno Stato e la sua condotta siano valutate in un certo modo dalla collettività e in particolare dalle “cerchie di riconoscimento” più salienti per lo Stato in questione.[15]

I governi tendono a ricercare per il proprio paese uno status commensurato alle sue capacità perché lo status è utile per coordinare le aspettative di prevalenza e deferenza nelle interazioni strategiche nel sistema internazionale.[16] Lo status è dunque tutt’altro che una risorsa di secondaria importanza e, poiché la sua acquisizione non può avvenire in modo unilaterale, in diversi momenti storici si sono innescati conflitti, più o meno estesi, intorno a questioni di status.[17] Quando i vertici di uno paese giungono a ritenere che esso non goda dello status che “merita” in ragione delle sue capacità – in termini di dotazioni militari, forza economica, strumenti di influenza, o risorse simbolico-normative – si determina infatti un’insoddisfazione che può trascendere in rivendicazione.[18] È questo, in particolare, il meccanismo sottostante le teorie della transizione di potenza, oggi frequentemente evocate con riferimento all’ascesa della Cina quale potenza globale.

Per un grande paese emergente il tema dello status è particolarmente saliente quando la distribuzione di potenza nel sistema internazionale è tale da configurare una condizione di unipolarità: in un sistema unipolare l’affermarsi di un paese che acquisisce risorse percepite come sufficienti, in prospettiva, a circoscrivere il primato dello Stato titolare della posizione egemonica – se non a sostituirlo – è di per sé destabilizzante.[19] Se, poi, la potenza in ascesa presenta un regime politico e un profilo valoriale eterogenei rispetto all’egemone – cioè se oltre all’unipolarità viene meno anche l’omogeneità del sistema[20] – si determina il contesto più problematico per l’attore emergente: quello in cui è il suo stesso sviluppo a qualificarlo come revisionista, a prescindere dall’indirizzo della sua politica estera. Ben consapevole di questo rischio, assai precocemente la dirigenza cinese ha elaborato e proiettato verso l’esterno un discorso di rassicurazione in merito all’“ascesa pacifica” della Cina.[21]

In un simile contesto un paese emergente focalizzato su obiettivi di sviluppo di lungo periodo, e perciò bisognoso di mitigare il rischio di contenimento, opterà per un indirizzo di politica estera che eviti sia intempestive prove di forza, sia un’acquiescenza troppo marcata rispetto a un ordine che riflette le preferenze istituzionali e valoriali dell’egemone. La letteratura scientifica ha messo in luce una varietà di condotte prudenziali che consentono a uno Stato emergente di segnalare[22] – tanto verso l’esterno, quanto verso i pubblici interessati all’interno del paese – la propria insoddisfazione, consentendo al contempo la negazione plausibile di un’agenda attivamente revisionista, soprattutto in campo geopolitico. La tesi di questo contributo è che, tra queste, la dirigenza cinese abbia scelto di adottare una strategia di creatività sociale, puntando a ridefinire le metriche di valutazione dello status per elevare il profilo della Cina rimarcando al contempo le differenze che la distinguono dall’egemone. Pur essendo posizionale, infatti, lo status può non essere un gioco a somma zero: adottando metriche differenziate, per un attore è possibile migliorare il proprio status senza che un altro debba contemporaneamente vedere pregiudicato il proprio.[23] Per un paese emergente, ad esempio, acquisire uno status preminente al di fuori dell’arena geopolitica – attraverso la promozione di nuovi modelli di sviluppo o mediante la rivalutazione di norme in precedenza marginalizzate – significa poter sperimentare l’attivazione di meccanismi di “soft-bandwagoning” non tacciabili di vocazione anti-egemonica. La sua capacità di leadership si desumerà dall’efficacia nel generare consenso intorno all’integrazione delle metriche di valutazione dello status presso le cerchie di riconoscimento più rilevanti. Nel caso cinese, l’articolazione di un modello di “modernità sovrana” declinato, sul piano internazionale, lungo la direttrice sviluppista della “globalizzazione inclusiva” e lungo quella pluralista della “democratizzazione delle relazioni internazionali” corrisponde a questo approccio creativo.[24]

Per la dirigenza cinese è dunque strategico che si accreditino come valori primari nelle relazioni internazionali l’efficacia della governance nella promozione del benessere materiale della collettività e principi come quello dell’“armonia”, intesa come coesistenza pacifica tra paesi con regimi politici irriducibilmente differenti tra loro ma titolari di eguale legittimità.[25] Da questi presupposti normativi possono infatti scaturire metriche di valutazione dello status che consentono alla Rpc di guadagnare un primato che non può dirsi in opposizione all’ordine liberale internazionale, se non al prezzo di un’interpretazione che riflette la natura egemonica dell’ordine assai di più di quella liberale.[26] È in questo quadro che si può cogliere appieno la portata delle ambizioni cinesi con riferimento alla Belt and Road Initiative: essa assume il suo pieno senso se interpretata come coerente con la strategia di promozione di principi e valori funzionali alle ambizioni di status di Pechino.

Affinché una simile strategia di creatività sociale abbia successo è decisivo che le nuove metriche di valutazione su cui si fondano le convinzioni in merito allo status di un paese emergente siano validate in particolare dalla cerchia di riconoscimento dominante. Tale processo di legittimazione è però una dinamica sociale che richiede un lasso di tempo prolungato, coerente con il sedimentarsi delle nuove convinzioni collettive, che non sempre è compatibile con i tempi della politica. Per accelerarlo occorrono atti manifesti di forte valenza simbolica da parte di un paese appartenente alla cerchia dominante, che riflettano una “gerarchia di deferenza”[27] in cui il paese emergente appare sovraordinato. Deferenza non equivale qui a un tributo occasionale di kudos, ma a un sistema di prescrizioni di ruolo che si palesano mediante interazioni reiterate tra attori collocati in posizione asimmetrica.[28]  Simili interazioni non si determinano spontaneamente, soprattutto tra Stati particolarmente esposti sul piano internazionale. Esse sono il frutto di una dinamica negoziale in cui la gerarchia di deferenza che viene volontariamente generata dalla condotta degli Stati evidenzia l’interdipendenza asimmetrica tra i due. In un’ottica transattiva, il paese emergente ha un interesse politico nell’ottenere dal paese membro della cerchia egemonica una condotta deferente espressa mediante atti di elevata visibilità pubblica per velocizzare la valorizzazione del proprio status, e sarà disposto in cambio ad allinearsi ad alcune preferenze di quest’ultimo. La firma del MoU per la collaborazione sulla Belt and Road Initiative da parte dell’Italia – paese occidentale membro del G7, alleato degli Stati Uniti e fondatore dell’Unione Europea – rivela pienamente la sua portata proprio quando si coglie il ruolo tutt’altro che marginale che essa ha avuto nel progresso della strategia di “status-building” di Pechino.

L’agency italiana nelle relazioni con Pechino a cinquant’anni dalla normalizzazione

La più parte degli osservatori che hanno commentato il Memorandum of Understanding per la collaborazione sulla Belt and Road Initiative firmato dall’Italia il 23 marzo 2019 si è concentrata sulle ragioni che hanno indotto il governo italiano a questa scelta, anche considerato il fatto che, come si è già rilevato, essa risultava fuori sincrono rispetto all’andamento delle relazioni tra Rpc e Stati Uniti e tra Rpc e Unione Europea. La riflessione presentata in questo contributo muove dalla domanda opposta, focalizzando le motivazioni che hanno spinto la dirigenza cinese a cercare questo risultato. L’incipit “a braccio” del discorso pronunciato dal Presidente della Rpc Xi Jinping durante la colazione di Stato a Villa Madama, immediatamente a valle della cerimonia di firma e scambio delle intese bilaterali, conferma l’intento politico perseguito proattivamente dal governo cinese: “Sono venuto in Italia per rafforzare le relazioni politiche tra i nostri due paesi; ci sono riuscito.”[29]

Naturalmente, le implicazioni politiche dell’accordo non sono limitate alla valorizzazione dello status della Rpc nel medio periodo. Gli osservatori cinesi hanno evidenziato anche altre ricadute, più immediate: sebbene l’Italia non sia stata né il primo paese europeo, né il primo paese dell’Europa occidentale, e neanche il primo paese mediterraneo a firmare un MoU sulla BRI – tali primati spettano rispettivamente a Ungheria (2015), Portogallo (2018) e Grecia (2018) – essa rappresenta certamente la più grande economia occidentale ad aver compiuto questo passo, potenzialmente facilitando la successiva adesione di altri Stati europei (Lussemburgo e Svizzera, ad esempio, hanno siglato documenti simili poco dopo). Parte della letteratura scientifica cinese sottolinea l’importanza di questi atti in una fase in cui le istituzioni comunitarie, a partire dalla Commissione Europea, paiono voler superare l’identità dell’Unione quale potenza “civile” o “normativa”, perseguendo un orientamento più realista che la qualifichi come attore geopolitico e non mero “campo di gioco” (yóulè chǎng; 游乐场) su cui si scontrano gli interessi di potenze extra-regionali.[30] Il lessico che emana da Bruxelles, con inediti riferimenti a concetti quali “autonomia strategica” ed “Europa sovrana”, viene letto in continuità con le azioni che le istituzioni europee stanno intraprendendo per assicurare un approccio più organico verso la Cina,[31] a discapito delle singole relazioni bilaterali favorite da Pechino, che più di un autore vede esposte a turbolenze soprattutto nella fase post-pandemia, quando l’ascesa cinese sarà ancora più manifesta.[32] In un simile quadro, le intese sulla collaborazione per lo sviluppo della BRI con i diversi paesi europei potranno contribuire a mitigare il rischio di un inasprimento delle relazioni sino-europee, rafforzando gli incentivi alla coltivazione dei rapporti bilaterali da parte degli Stati membri.

La plausibilità di questo calcolo risulta confermata esaminando il nucleo della posizione italiana nell’ambito della dinamica negoziale che ha portato alla firma dell’accordo. A fronte di quella che il Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA ha pubblicamente definito un’“azione di legittimazione dell’approccio predatorio cinese nel campo degli investimenti” da parte italiana,[33] Roma ha rivendicato un incremento della propria agency, anzitutto nelle relazioni bilaterali con Pechino.[34]

Il tema dei margini di manovra di cui l’Italia dispone in politica estera, e della sua capacità di incidere sulle dinamiche regionali e globali, è oggi oggetto di rinnovato dibattito, alla luce del repentino mutamento del sistema internazionale e della crescente instabilità nel vicinato mediterraneo.[35] La posizione che emerge tra gli specialisti cinesi di questioni italiane è che, negli ultimi anni, l’influenza internazionale dell’Italia si sia progressivamente ridotta, in corrispondenza di un generalizzato indebolimento del paese anche sotto il profilo economico.[36] Il riflesso di questa tendenza, con riferimento ai rapporti italo-cinesi, è una perdita di salienza: nell’interazione con Pechino, l’Italia dispone di un numero limitato di asset per indurre la Rpc a considerare le sue priorità nell’elaborazione delle proprie politiche. Tra questi, un peso di rilievo nel processo decisionale in senso all’Unione Europea, una posizione geopolitica centrale e una storica competenza nella regione del Mediterraneo allargato, un comparto industriale tuttora di notevole valore strategico, un profilo di rischio sistemico per la tenuta dell’eurozona, e una riconosciuta statura mondiale in ambito culturale, che ne fanno appunto un attore significativo nella cerchia egemonica di cui si è trattato nella sezione precedente. Non tutti questi asset presentano la medesima capacità di trazione o sono agevolmente spendibili in ogni fase politica: partecipazioni rilevanti in gruppi industriali italiani controllati dallo Stato sono già state cedute a partire dal 2014 e un’ulteriore cessione di quote appare problematica, ad esempio.

 Il Governo Conte I ha dunque sostenuto la propria scelta di addivenire al MoU per la collaborazione sulla BRI[37] argomentando l’opportunità di concedere a Pechino un riconoscimento politico, giuridicamente non vincolante, al fine di ottenere agency in tre ambiti in cui l’Italia registra una cronica carenza. Questi sono evidenziati nel Comunicato congiunto diramato in occasione della firma:[38] il commercio bilaterale, rispetto al quale Roma attende un “graduale riequilibrio e un incremento degli investimenti reciproci”, le infrastrutture (in particolare portuali) per favorire connessioni che portino gli attesi benefici di sviluppo economico in territori potenzialmente molto promettenti per il transito di merci verso il cuore del mercato europeo, e l’interlocuzione politica bilaterale a livello apicale, da rendere più frequente e approfondita.

A distanza di poco più di 18 mesi, lo scenario internazionale è radicalmente mutato, ma non così i presupposti della firma. Sebbene sia prematuro – e comunque intempestivo, data l’attuale congiuntura sanitaria ed economica – stimare l’efficacia della scelta politica compiuta dal precedente governo, è importante riconoscere la cornice entro la quale tale valutazione dovrà essere elaborata nel tempo. Questo contributo si è quindi proposto di problematizzare l’affermazione del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, secondo cui il MoU costituisce un’intesa “squisitamente economico-commerciale”.[39] Al contrario: il valore intrinseco dell’accordo, e il motivo per cui Pechino l’ha fortemente voluto, risiede proprio nella natura politica di un atto che porta un grande paese occidentale a sostenere un’iniziativa che incarna i valori e i principi a fondamento della strategia della dirigenza cinese per la ridefinizione dello status internazionale della Rpc. Quando si tratterà di tirare le somme, l’Italia potrà considerare di aver ben operato se la sua maggiore agency verso Pechino le avrà consentito di maturare – negli ambiti dichiarati dai suoi governanti – benefici commisurati al risultato acquisito dalla controparte.

 


Note bibliografiche

[1] Secondo l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, Josep Borrell, la pandemia da COVID-19 avrà conseguenze “enormi” sul piano geopolitico: “Josep Borrell : « L’Europe n’a aucun intérêt à mener une croisade antichinoise»”, Le Monde, 15 ottobre 2020, disponibile all’Url https://www.lemonde.fr/international/article/2020/10/15/josep-borrell-il-faut-batir-l-europe-puissance_6056111_3210.html.

[2] Laura Silver, Kat Devlin e Christine Huang, “Unfavorable views of China reach historic highs in many countries”, Pew Research Center, 6 ottobre 2020, disponibile all’Url https://www.pewresearch.org/global/2020/10/06/unfavorable-views-of-china-reach-historic-highs-in-many-countries/#in-europe-more-see-china-as-worlds-top-economic-power-than-u-s

[3] Si vedano, in particolare, Michael Pompeo, “Communist China and the Free World’s Future”, discorso tenuto a Yerba Linda, 23 luglio 2020, disponibile all’Url https://www.state.gov/communist-china-and-the-free-worlds-future e Presidenza degli Stati Uniti d’America, National Security Strategy of the United States of America, Washington DC, dicembre 2017, disponibile all’Url https://www.whitehouse.gov/wp-content/uploads/2017/12/NSS-Final-12-18-2017-0905.pdf.

[4] Sottolinea il punto, tra gli altri, Henry Kissinger nel suo Cina (Milano: Edizioni Mondadori, 2011).

[5] Commissione Europea e Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, “EU-China – A strategic outlook”, Bruxelles, 12 marzo 2019, disponibile all’Url https://ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/communication-eu-china-a-strategic-outlook.pdf.

[6] Elisa Braun et al., “EU big four press Vestager to clear path for champions”, Politico, 6 febbraio 2020, disponibile all’Url https://www.politico.eu/article/eu-big-four-france-germany-italy-poland-press-executive-vice-president-margrethe-vestager-to-clear-path-for-champions.

[7] Consiglio per gli affari di Stato della Rpc, “Ye Qing: si promuova l’integrazione organica del ruolo dirigente dell’organizzazione di Partito con il sistema di governance delle imprese private” (Yè Qīng: tuīdòng dǎng dí lǐngdǎo zhìdù tǐxì yǔ mínqǐ zhìlǐ tǐxì yǒujī rónghé), Pechino, 17 settembre 2020, disponibile all’Url http://www.acfic.org.cn/ldzc_311/jzhld/yq/yqgzhd/202009/t20200917_245057.html.

[8] Anastas Vangeli, “China’s Engagement with the Sixteen Countries of Central, East and Southeast Europe under the Belt and Road Initiative”, China and the World Economy 25 (2017) 5: 101-124.

[9] La scelta compiuta dal Parlamento Europeo di attribuire il Premio Sakharov al Consiglio di coordinamento dell’opposizione democratica bielorussa (22 ottobre 2020) mostra quanto l’unica istituzione comunitaria eletta direttamente dalla cittadinanza europea sia disposta a intervenire su dossier di stringente attualità politica ed estrema delicatezza diplomatica: Parlamento Europeo, “The 2020 Sakharow Prize awarded to the democratic opposition in Belarus”, comunicato stampa del 22 ottobre 2010, disponibile all’Url https://www.europarl.europa.eu/news/en/press-room/20201016IPR89546/the-2020-sakharov-prize-awarded-to-the-democratic-opposition-in-belarus.

[10] Liu Zhen, “Xi Jinping defends ‘totally correct’ Xinjiang policies despite growing human rights concerns”, South China Morning Post, 26 settembre 2020, disponibile all’Url https://www.scmp.com/news/china/politics/article/3103187/xi-jinping-defends-totally-correct-xinjiang-policies-despite.

[11] Per una sintetica trattazione del tema e delle sue implicazioni di politica estera si veda Giovanni B. Andornino (a cura di), La Cina: sviluppi interni, proiezione esterna, approfondimento per l’Osservatorio di Politica Internazionale, ottobre 2020, disponibile all’Url http://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/repository/affariinternazionali/osservatorio/approfondimenti/PI0163.pdf, pp. 141 e seguenti.

[12] William Wohlforth, “Unipolarity, Status Competition, and Great Power War”, World Politics 61 (2009) 1: 28-57.

[13] David Lake, “Authority, Status, and the End of the American Century”, in T.V. Paul, Deborah Welch Larson, e William C. Wohlforth (a cura di), Status in World Politics (New York: Cambridge University Press, 2014), 246–270.

[14] Deborah Welch Larson et al., “Status and world order”, in T.V. Paul, Deborah Welch Larson, e William C. Wohlforth (a cura di), Status in World Politics, (New York: Cambridge University Press, 2014), 7.

[15] Lo status riflette dunque convinzioni di second’ordine: le convinzioni di un attore rispetto a un altro sono convinzioni di prim’ordine; le convinzioni di un attore rispetto alle convinzioni di altri attori sono convinzioni di second’ordine.

[16] Allan Dafoe et al., “Reputation and Status as Motives for War”, Annual Review of Political Science (2014) 17: 371–393.

[17] Michael Horowitz et al., “Leader Age, Regime Type, and Violent International Relations”, Journal of Conflict Resolution 49 (2005) 5: 661–685.

[18] Jonathan Renshon, “Status Deficits and War”, International Organization 70 (2016) 3: 516.

[19] Randall Schweller e Xiaoyu Pu, “After Unipolarity. China’s Visions of International Order in an Era of U.S. Decline”, International Security 36 (2011) 1: 41–72.

[20] Raymond Aron, Paix et guerre entre les nations, (Parigi: Calmann-Lévy, 1962).

[21] Zheng Bijian, “China’s «Peaceful Rise» to Great-Power Status”, Foreign Affairs (2005) 84: 5.

[22]  Xiaoyu Pu e Randall Schweller, Status Signaling, Multiple Audiences, and China’s Blue-Water Naval Ambition”, in T. V. Paul et al., Status and World Politics, (Cambridge: Cambridge University Press, 2014).

[23] Deborah Welch Larson e Alexei Shevchenko, “Status Seekers: Chinese and Russian Responses to U.S. Primacy”, International Security 34 (2010) 4: 63-95.

[24] Sull’importanza del MoU tra Rpc e Italia quale banco di prova per il “nuovo tipo di relazioni internazionali” (xīnxíng guójì guānxì; 新型国际关系) che Pechino intende promuovere si veda Men Honghua e Jiang Pengfei, “Zhòng-Yì quánmiàn zhànlüè huǒbàn guānxì de lìshǐ yǎnjìn yǔ shēnhuà lùjìng” [L’evoluzione storica e il percorso di approfondimento del partenariato strategico globale tra Cina e Italia], Global Review (2020) 5: 1-22.

[25] Quella di “armonia nella diversità” (hé ér bù tóng, 和而不同) è una delle articolazioni del concetto di “armonia”, concetto centrale nel poliedrico e stratificato sistema di pensiero confuciano, che oggi è oggetto di un recupero selettivo e non di rado strumentale come parte dell’apparato ideologico e di propaganda del Pcc.

[26] Per un’articolata riflessione sull’operazionalizzazione del concetto di “ordine” e, conseguentemente, di “revisionista” si veda Alastair Iain Johnston, “China in a World of Orders: Rethinking Compliance and Challenge in Beijing’s International Relations”, International Security 44 (2019) 2: 9-60.

[27] Reinhard Wolf, “Taking interaction seriously: Asymmetrical roles and the behavioral foundations of status”, European Journal of International Relations 25 (2019) 4: 1186–1211.

[28] Kalevi Jaakko Holsti, “National role conceptions in the study of foreign policy”, International Studies Quarterly 14 (1970) 3: 240.

[29] Appunti di lavoro dell’autore, presente alla colazione di Stato in quanto firmatario di una delle intese istituzionali scambiate in occasione della visita di Stato del Presidente cinese: Ministero dello sviluppo economico della Repubblica italiana, “Elenco delle intese istituzionali sottoscritte a Villa Madama”, Roma, 23 marzo 2020, disponibile all’Url http://www.governo.it/sites/governo.it/files/documenti/documenti/Notizie-allegati/Italia-Cina_20190323/Intese_istituzionali_Italia-Cina.pdf.

[30] Jie Nannan e Zhang Xiaotong, “Dìyuán zhèngzhì Ōuzhōu”: Ōuméng lìliàng dì dìyuán zhèngzhì zhuǎnxiàng?” [“L’Europa geopolitica”: una svolta geopolitica per il potere dell’Unione Europea?], Chinese Journal of European Studies (2020) 2: 5.

[31] Jin Ling, “«Zhǔquán Ōuzhōu»: Ōuméng xiàng «yìng shi lì» zhuǎnxíng?” [«Europa sovrana»: una transizione dell’Unione Europea verso l’«hard power»?], International Studies (2020) 1: 67-88.

[32] Men Honghua e Jiang Pengfei, “Zhòng-Yì quánmiàn zhànlüè huǒbàn guānxì de lìshǐ yǎnjìn yǔ shēnhuà lùjìng” [L’evoluzione storica e il percorso di approfondimento del partenariato strategico globale tra Cina e Italia], Global Review (2020) 5: 1-22.

[33] Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA, tweet in data 9 marzo 2019, ore 16:25, disponibile all’Url https://twitter.com/WHNSC/status/1104402719568203776?s=20.

[34] L’allora Vice Presidente del Consiglio, Luigi Di Maio, si spinse oltre, qualificando la scelta di firmare il MoU sulla BRI come un atto che ha reso l’Italia “più sovrana”. “Conte: «Si firma Memorandum Cina»”, Adnkronos, 15 marzo 2019, disponibile all’Url https://www.adnkronos.com/fatti/politica/2019/03/15/via-della-seta-verso-intesa_OMr5xpsr2VHt31xlkO0JVL.html?refresh_ce.

[35] Si vedano, ad esempio, Federico Romero, “Rethinking Italy’s Shrinking Place in the International Arena”, The International Spectator 51 (2016) 1: 1-12; Alessandro Aresu e Luca Gori, L’interesse nazionale: la bussola dell’Italia (Bologna: Il Mulino, 2018).

[36] Zhong Zhun, “Ōuzhōu biānyuán de juézé. Shì xī Yìdàlì, Xīlà míncuì zhèngfǔ de duìwài zhèngcè” [Le scelte della periferia dell’Europa. Un’analisi delle politiche estere dei governi populisti di Italia e Grecia], Chinese Journal of European Studies (2020) 4: 131. Si veda anche Zhong Zhun, “Yìdàlì wàijiāo zhèngcè jí qí zài Ōuméng zhōng de xīn juésè” [La politica estera italiana e il suo nuovo ruolo nell’UE], Chinese Journal of European Studies (2016) 4: 118.

[37] Governo della Repubblica italiana, “Memorandum d’intesa tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica popolare cinese sulla collaborazione nell’ambito della «Via della seta economica» e dell’«iniziativa per una Via della seta marittima del XXI secolo»”, disponibile all’Url http://www.governo.it/sites/governo.it/files/Memorandum_Italia-Cina_IT.pdf.

[38] Governo della Repubblica italiana, “Comunicato congiunto tra la Repubblica Italiana e la Repubblica popolare cinese sul rafforzamento del partenariato strategico globale”, Roma, 23 marzo 2019, disponibile all’Url http://www.governo.it/sites/governo.it/files/ComunicatoCongiunto_Italia-Cina_20190323.pdf.

[39] Camera dei Deputati, “Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione al Documento di intesa tra il Governo della Repubblica italiana e il Governo della Repubblica popolare cinese sulla collaborazione all’interno del progetto economico «Via della Seta» e dell’iniziativa per le vie marittime del XXI secolo”, resoconto stenografico dell’Assemblea, seduta n. 144, 19 marzo 2019, disponibile all’Url https://www.camera.it/leg18/410?idSeduta=0144&tipo=stenografico#sed0144.stenografico.tit00030.sub00040.int00060.


 

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