[China Policy Lab] I dilemmi strategici del Mar cinese meridionale

Il China Policy Lab (Cpl) è un’iniziativa di condivisione delle agende di ricerca sulla Cina contemporanea, organizzata e ospitata dal Center for Italian Studies dell’Università Zhejiang.

I l 20 marzo scorso il China Policy Lab ha ospitato il prof. Liu Wei, docente di Storia cinese contemporanea presso la School of Media and Cross-cultural Communication della Zhejiang University. Nel suo intervento Liu Wei ha esaminato la dimensione storica della disputa sul Mar cinese meridionale, un’area di potenziale conflitto tra la Cina e i vicini del sud-est asiatico. Al centro della disputa vi è il controllo sulle Isole Paracel (in cinese Xisha Qundao, 西沙群岛) contese tra Cina e Vietnman, e sulle Isole Spratly (Nansha Qundao,南沙群岛) reclamate da Cina, Vietnam e Filippine e, con meno enfasi, da Malesia, Brunei e Indonesia. Tensioni minori ma persistenti tra Cina e Filippine agitano, inoltre, le acque intorno a Scarborough Shoal (Huangyan Dao, 黄岩 岛), reclamata in egual misura da Pechino e Manila. Oltre al controllo della superficie delle isole, motivo di contesa sono le rispettive acque territoriali e, conseguentemente, le zone economiche esclusive che si estendono fino a 200 miglia nautiche dalla costa.

Secondo Liu Wei la vera origine della disputa risale al 1946, quando la Cina, allora governata dal Guomindang (il partito nazionalista guidato da Chiang Kai-shek), inviò due navi per mappare gli arcipelaghi, considerati inclusi negli antichi confini imperiali. Nel dicembre dello stesso anno furono inviate truppe a presidiare Woody Island (rinominata dai cinesi Yongxing Dao, 永兴岛), l’isola principale delle Paracel orientali. Un anno dopo il governo cinese pubblicò una mappa che tracciava una “linea a undici tratti” (in seguito ridotti a nove) entro cui includeva le isole e gran parte del Mar cinese meridionale. Le forze franco-vietnamite occuparono invece le Paracel occidentali e la situazione rimase pressoché in stallo fino al 1974. In quell’anno, la Repubblica popolare cinese (Rpc) occupò con la forza il resto delle Paracel occidentali e inviò ulteriori truppe nella parte orientale, in uno scontro con la Repubblica del Vietnam che causò oltre settanta vittime. Nel marzo 1988 un altro grave episodio si verificò in seguito all’occupazione cinese di Johnson Reef, all’interno delle Isole Spratly. La battaglia tra la marina cinese e quella vietnamita provocò di nuovo oltre settanta vittime e i cinesi riuscirono a occupare de facto sei isole dell’arcipelago, mantenendo tale status quo fino a oggi.

Nel 2002 Cina e Asean firmarono un importante documento, la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar cinese meridionale, in cui espressero l’intento di risolvere pacificamente la disputa, oltre che l’impegno a rispettare la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (1982) e la libertà di navigazione nell’area. Secondo Liu Wei la Cina ha tutto l’interesse a rispettare tali impegni. Tuttavia alcuni fattori rischiano di ritardare una risoluzione pacifica della vicenda: i crescenti sentimenti nazionalisti cinesi, rinforzati dalla necessità del Partito di riaffermare la propria legittimità distogliendo l’attenzione dalle crescenti tensioni interne; la paura nel vicinato regionale di un’ascesa cinese che potrebbe rivelarsi non così pacifica come vuole la retorica del Partito; la mancanza di una chiara linea di condotta da parte di Pechino, che sembra temporeggiare e mantenere una posizione volutamente opaca e ambigua. Non più tardi dello scorso 20 giugno, durante una visita al porto del Pireo, il primo ministro Li Keqiang ha dichiarato l’impegno della Cina per lo “sviluppo pacifico degli oceani”. Ma il giorno seguente il vertice della diplomazia della Rpc, il consigliere di Stato Yang Jiechi, segnalava – dopo colloqui in Vietnam – l’indisponibilità della Cina a “ingoiare la pillola amara” della rinuncia alla sovranità sul territorio nazionale.

Diverse sono le interpretazioni di osservatori e studiosi sui reali interessi in gioco nella regione. In una prospettiva economica si stima che le Isole Spartly giacciano sopra significative riserve di gas naturale. Tuttavia investimenti esplorativi su larga scala non sono ancora stati compiuti e lo sfruttamento economico è ben lontano dal concretizzarsi. La posizione di queste acque rispetto alle rotte del commercio globale è un ulteriore motivo d’interesse per i paesi contendenti: secondo stime governative statunitensi, più di metà del volume commerciale mondiale che viaggia su nave, così come circa un terzo del greggio e oltre metà del gas naturale liquefatto, passano attraverso il Mar cinese meridionale. Le interpretazioni più accreditate si concentrano però sulla grandissima valenza simbolica e strategica di un controllo cinese sulle isole, che favorirebbe la proiezione marittima di Pechino nella regione e la difesa del principio d’integrità territoriale, punto su cui la Cina non transige.

Tuttavia, sostiene Liu Wei, vi è forse un’altra interpretazione possibile. L’attuale leadership avrebbe ereditato malvolentieri questo stallo geopolitico, ma qualsiasi arretramento di fronte alle pressioni del vicinato assesterebbe un colpo durissimo alla legittimità interna al Partito, così come all’immagine del paese nello scacchiere regionale. In quest’ottica il temporeggiamento e la mancanza di una chiara linea strategica andrebbero letti come un tentativo di mantenere lo status quo, senza forzare alcuna risoluzione drastica della vicenda.

Gli sviluppi più recenti risalgono alla fine di marzo, pochi giorni dopo lo svolgimento del seminario. Le Filippine si sono infatti rivolte alla Corte permanente di arbitrato dell’Aja, cui hanno inviato un dossier di 4.000 pagine denunciando l’illegalità della “linea a nove tratti” cinese e richiedendo una soluzione definitiva della controversia. Poi, gli inizi di maggio, la compagnia petrolifera statale cinese Cnooc ha dato il via all’installazione di un impianto di trivellazione non distante dalle Isole Paracel, a 120 miglia nautiche dalla costa vietnamita. I lavori hanno riacceso le preoccupazioni da parte del Vietnam e scatenato violente proteste anti-cinesi nella città di Ho Chi Minh, dove negli attacchi contro alcune fabbriche taiwanesi, erroneamente identificate come appartenenti alla Rpc, si sono registrati ventuno morti e più di cento feriti.

Il seminario di Liu Wei si è contraddistinto per la ricchezza della ricostruzione storica: non è infatti possibile comprendere appieno la posizione di tutte le parti coinvolte se non tramite un’attenta analisi degli episodi e degli incidenti che si sono susseguiti nel tempo. Per inquadrare la vicenda in tutte le sue dimensioni sarebbe utile arricchire l’analisi con una panoramica sulla recente evoluzione della dottrina militare e sul riposizionamento delle forze armate di Pechino nel corso degli ultimi decenni. L’Esercito popolare di liberazione sta infatti modificando gradualmente il proprio assetto, passando da un orientamento prettamente continentale a un ribilanciamento verso il mare.

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