BRI e risoluzione delle controversie commerciali: un multilateralismo (ancora) necessario

A più di cinque anni dalla sua inaugurazione, la Belt and Road Initiative (BRI) continua a dispiegare i propri effetti su un mercato globale in profonda crisi d’identità. Oltre all’indubbio rilievo nel panorama degli investimenti internazionali, gli effetti dell’iniziativa cinese sono evidenti anche sul piano politico e sociale in tutti i paesi toccati dalle nuove Vie della Seta.

Tra paesi entusiasti dell’iniziativa e paesi più critici al riguardo, va preliminarmente considerato che le diverse posizioni sono state espresse al di fuori di un luogo deputato a contenerle. Non esiste un luogo condiviso, fisico o virtuale, dove le diverse opinioni possono trovare sfogo e spiegazione. Per la BRI, ad oggi, non esiste alcun agorà multilaterale dove la logica win-win proposta può essere soppesata in aperto contraddittorio, dove le tensioni possono essere stemperate. Ciò rende la BRI un’epifania reale di una nuova concezione di multilateralismo, diversa da quella costruita dai principali eventi geopolitici del secolo scorso. Sia esso “selettivo”, “diminuito” o “pragmatico” come definito da alcuni autori,[1] è in ogni caso chiaro che sono in atto profonde trasformazioni nel modo in cui la Repubblica popolare cinese (Rpc) intende concepire e gestire il multilateralismo del futuro. Trasformazioni che avranno un impatto anche in ambiti affini a quello economico, ambiti tradizionalmente low politics quali la risoluzione delle controversie commerciali ma comunque legati a core interests che la Cina desidera affermare con risolutezza.

Per decenni, la visione di un commercio globalizzato necessariamente multilaterale, frutto di un percorso storico culminato con la creazione dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) al termine dell’Uruguay Round, è stata dominante sulla scena politico-economica. Le promesse della globalizzazione rendevano attraente l’apertura dei mercati nazionali e la condivisione di nuove strategie abbracciate dal più ampio numero possibile di paesi. In tale visione, la risoluzione delle controversie di natura commerciale ha sempre rappresentato un fattore chiave. I traffici internazionali, travalicando i confini territoriali, sono maggiormente esposti a rischi di contenzioso: un contenzioso ancor più delicato, in assenza di istituzioni sovranazionali deputate ad evitarlo ovvero ad addomesticarlo nei canoni di un confronto aperto. Inoltre, le procedure nazionali di gestione del contenzioso risultavano inefficaci allo scopo, scontando limiti applicativi, ostacoli linguistici e diffidenze circa la loro parzialità.

I meccanismi di risoluzione delle controversie sono stati pertanto concepiti e costruiti in armonia con la visione multilaterale tipica del sistema. Si è così assistito alla creazione di una miriade di organizzazioni, istituzioni, commissioni e gruppi di lavoro multilaterali impegnati a trovare schemi efficaci per risolvere controversie sempre più complesse e di valore economico rilevante, in alternativa alle proposte di contenzioso giudiziario nazionale di ogni singolo Stato partecipante.

Tra i vari schemi a disposizione, l’arbitrato nelle sue diverse forme ha sicuramente goduto del maggior successo. Grazie alle proprie peculiarità di rapidità e flessibilità e ad una comunità di giuristi internazionale e specializzata, l’arbitrato commerciale internazionale si è imposto come il meccanismo più apprezzato dagli operatori economici. Merito di tale preferenza dev’essere reso anche alla Convenzione di New York sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere del 1958 e agli ulteriori strumenti di diritto internazionale privato negoziati in seno ad organizzazioni quali la United Nations Commission on International Trade Law (UNCITRAL) che ne hanno favorito l’ampia adozione. Inoltre, la diffusione peculiare di istituzioni arbitrali specializzate, tra le quali spicca per prestigio ed autorevolezza la Camera di commercio internazionale di Parigi, ha contribuito alla promozione costante dell’arbitrato nei rapporti commerciali internazionali. Accanto all’arbitrato commerciale internazionale di stampo classico, negli anni si è via via imposta anche la variante arbitrale sugli investimenti tesa a risolvere controversie tra Stati ed investitori esteri. Sebbene il presente contributo non abbia pretese di sviluppare compiutamente questo aspetto, è opportuno segnalare come i sistemi imperniati sull’International Center for the Resolution of Investment Disputes (ICSID) in seno alla Banca mondiale oppure sull’ASEAN Comprehensive Investment Agreement siano ormai realtà consolidate nelle controversie tra investitori e Stati.[2]

La Suprema corte del popolo della Repubblica popolare cinese ha istituito il Comitato di esperti della China International Commercial Court (CICC), incaricato di mediare i casi affidati dalla CICC per la risoluzione di controversie commerciali internazionali, fornire pareri consultivi ai Tribunali del popolo su questioni legali concernenti casi di controversie commerciali internazionali, ed esprimersi su interpretazioni giudiziarie e policy formulate dalla Suprema corte (immagine: CICC).

In tale sistema multilaterale, per lungo tempo, la Cina ha mantenuto un approccio silente, senza far sentire il suo peso specifico nella definizione dei metodi di risoluzione delle controversie applicati al commercio internazionale. Alcuni autori riconducono ciò, in maniera più o meno marcata,[3] al tradizionale scetticismo nei confronti di meccanismi di dispute resolution occidentali quali l’arbitrato, percepito come distante e non in linea con i valori morali tradizionali che tendono ad una visione del mondo armonica e fluida nel rispetto dei valori fondanti del confucianesimo.[4] Secondo altri autori, il disinteresse relativo rientrerebbe in una più generale avversione verso un ordinamento internazionale percepito nel periodo maoista come frutto di logiche imperialiste e coloniali.[5] Per altri commentatori di scuola socio-economica, le motivazioni sono di fatto comuni a quelle di altri paesi: la Cina ha tenuto un contegno più riservato perché soggetto ancora passivo nelle dinamiche commerciali internazionali e non direttamente interessata dalle medesime controversie,[6] pur avendo posto in essere le prime commissioni arbitrali già negli anni Cinquanta del secolo scorso.[7]

Soltanto a seguito dei primi contenziosi commerciali internazionali frutto della politica di riforma e di apertura del 1978, la necessità si è fatta virtù, con l’adesione alla Convenzione di New York nel 1987 e con il ricorso alla UNCITRAL Model Law per informare l’Arbitration Law del 1994. Tali innovazioni hanno fatto sì che l’arbitrato si imponesse di fatto come miglior strumento di risoluzione alternativa delle controversie a disposizione, portando la Cina a tollerare tale sistema in considerazione di alcune sue gradite peculiarità: ad esempio, la possibilità di mantenere fattori sostanziali e procedurali nella disponibilità delle parti ovvero la presa in carico di elementi di equità nel processo decisionale.[8] Tuttavia, il sistema cinese si è mantenuto contraddistinto dal resto degli altri paesi, coltivando un “dual-track approach”: l’Arbitration Law del 1994 ha infatti previsto due separati sistemi a regolamento degli arbitrati domestici ed internazionali, con regole e trattamenti differenziati sulla base dell’individuazione di elementi “stranieri” (foreign-related elements).[9] Tale peculiare approccio, frutto di quell’“adattamento selettivo” che negli anni a venire avrebbe consentito alla Cina di coniugare aperture internazionali e restrizioni locali,[10] ha certamente contribuito, assieme ad altre restrizioni applicative e procedurali, alla sua reputazione di paese non particolarmente favorevole all’arbitrato.

A seguito dell’ingresso nel sistema Omc nel 2001, una Cina ormai attiva nel panorama degli investimenti esteri non sembrava però disposta ad interpretare ancora a lungo il paradigmatico ruolo di “elefante nella stanza”, lasciato in disparte durante la redazione delle regole del gioco. Eppure, si è dovuta attendere la strategia BRI per un passaggio ad un ruolo di “rule making” internazionale anche nella risoluzione delle controversie commerciali, passaggio concretizzatosi soprattutto a partire dal 2015 nella pianificazione di revisioni di organi e strumenti procedurali propri e già esistenti, per renderli più competitivi ed appetibili rimediando allo stesso tempo alle lacune rimproverate all’Arbitration Law.

Si segnala in particolare che, nel 2017, a testimonianza del nuovo ruolo assegnato alla Suprema corte del popolo quale promotore di rinnovamento a supporto delle istanze arbitrali dietro apposito mandato del Partito comunista cinese (Pcc), nuove interpretazioni da parte della stessa Corte hanno definitivamente chiarito e rimodulato alcuni aspetti dell’Arbitration Law (quali il procedimento di revisione ed esecuzione dei lodi arbitrali) in ottica arbitration-friendly.[11] La China International Economic and Trade Arbitration Commission (CIETAC), la Beijing Arbitration Commission (BAC), lo Shanghai International Arbitration Center (SHIAC) e la Shenzhen Court of International Arbitration (SCIA), le massime espressioni arbitrali cinesi,  hanno al contempo migliorato le loro procedure e servizi in ossequio agli standard internazionali di settore, arrivando a differenziarsi maggiormente tra loro e a riaffermare la loro indipendenza.[12] In particolare, i medesimi centri hanno promosso l’approvazione di nuove regole e procedure per amministrare arbitrati relativi ad investimenti, potendo giocare sulla definizione molto ambigua di “investimento” in ambito BRI. Ma solo nel 2018, con la China International Commercial Court (CICC),[13] si è assistito alla prima vera creazione di una corte a vocazione internazionale con caratteristiche inedite rispetto ai codici di procedura civile cinesi. Nell’intento dichiarato di proporre un centro specializzato in risoluzione di controversie legate alla BRI, la Suprema corte del popolo ha offerto l’opzione di due tribunali permanenti a Shenzhen e Xi’an, collocati rispettivamente sulla rotta marittima e terrestre della BRI, che potranno fungere da piattaforma per lo sviluppo internazionale del sistema giudiziario cinese. Inoltre, la stessa corte nel novembre 2018 ha pubblicato la prima lista di istituzioni arbitrali e di mediazione (tra le altre, CIETAC, BAC, SHIAC e SCIA) che andranno a comporre assieme alle CICC un inedito “one-stop shop” organizzato per la risoluzione delle controversie commerciali internazionali.

Nella sua peculiarità, il meccanismo imperniato sulle CICC può esser letto come espressione di un nuovo concetto di “legal hubs”: centri specializzati di risoluzione delle controversie promossi quali “zone franche” all’intero di Stati autoritari per attrarre investimenti fornendo alle parti interessate uno “sportello unico” con un’ampia gamma di soluzioni e strumenti per gestire il rischio di contenzioso: mediazione, arbitrato, contenzioso giudiziario.[14]  L’istituzione di “legal hubs” anche in altri paesi diversi dalla Cina sarebbe frutto del processo di “deglobalizzazione” in corso, dove diventa fondamentale attrarre consumatori di servizi legali qualificati mediante istanze costruite quali eccezioni nazionali, senza ricorrere a negoziazioni multilaterali ma semplicemente prendendo in prestito strumenti e prassi accreditate internazionalmente. Questa escalation di revisionismo interno ha di fatto reso superflua ogni multilateralità nel processo di costituzione e revisione delle procedure in essere. Dove prima i diversi portatori di interessi avrebbero promosso una conferenza internazionale per negoziare soluzioni condivise, ora la Cina consegna al mondo istituzioni e procedure cinesi riadattate ad un contesto multinazionale per le controversie in ambito BRI. Il tentativo è indubbiamente interessante e legittimo da una prospettiva politica interna, essendo la BRI una strategia economica di matrice cinese. Tuttavia, l’assenza di multilateralità causa evidenti problemi di legittimità e credibilità esterna.

Per un qualsiasi meccanismo di risoluzione delle controversie, la legittimazione diffusa nel settore di riferimento è assolutamente fondamentale. Chiarezza nelle regole, trasparenza nelle procedure e elevata competenza negli addetti compongono i blocchi sui quali si costruisce la reputazione dei meccanismi, una reputazione destinata a solidificarsi nel tempo. È comprensibile come meccanismi eccezionali all’interno di sistemi giuridici consolidati ispirino un’iniziale diffidenza, specie in una comunità giuridica internazionale formatasi per la quasi totalità al di fuori dai suddetti sistemi. Tuttavia, se ben concepiti e costruiti, essi possono superare e conquistare anche i più critici tra gli operatori. In questo specifico caso, la diffidenza purtroppo sembra destinata a rimanere.

In primo luogo, il modello CICC si configura come un’istanza giudiziaria specializzata ma nazionale. La genesi è tutta interna alla Suprema corte del popolo, la quale può costituire tribunali specializzati in presenza di esigenze determinate. Pertanto, la sua costituzione è stata puramente sino-centrica, il che gioca a sfavore nella predilezione delle controparti estere rispetto a meccanismi di risoluzione delle controversie che hanno visto genesi plurilaterali o, quantomeno, bilaterali.

In secondo luogo, questo esperimento s’inserisce in un sistema processuale cinese ancora poco incline ai mutamenti, sicché tensioni e contraddizioni tra lo scopo professato e le tradizioni del sistema ospitante sono risultate immediatamente evidenti agli operatori di settore. Per un esempio concreto, basti pensare alla tensione esistente tra l’apertura conclamata verso gli investitori stranieri e le limitazioni di nazionalità previste nelle norme procedurali cinesi e nelle regole delle istituzioni arbitrali riguardo alla partecipazione di legali difensori stranieri ai procedimenti.[15] Certamente molte di queste tensioni possono essere risolte con interventi legislativi, ma ancor qui sulla base di uno sforzo interno unilaterale che può non rassicurare del tutto.

Infine, trattandosi di un’istanza nazionale, il modello CICC potrebbe risentire negativamente tanto di condizionamenti politici quanto di fattori sociali interni quali l’elevato grado di corruzione percepita nella funzione pubblica, nonostante le iniziative e le campagne anti-corruzione messe in atto dall’attuale dirigenza del Pcc. Pertanto, il modello CICC avrà oggettive difficoltà ad essere percepita come neutrale su progetti BRI con investitori cinesi, soprattutto in caso di controversie politicamente sensibili come quelli vertenti su infrastrutture e trasporti.[16]

In difetto di riscontri convincenti circa il futuro modello di sviluppo sotteso, le “caratteristiche cinesi” delle CICC non potranno essere presentate come peculiarità socio-culturali bensì continueranno ad essere lette come incongruità di uno sviluppo irrisolto ovvero come veri presidi di controllo del sistema sull’esperimento stesso, tali da minare la necessaria legittimità diffusa di cui dovrebbe godere per poter essere presa in considerazione dalle controparti private estere. A riprova di ciò, è possibile osservare come i casi attualmente in discussione a Shenzhen e Xi’an siano ancora limitati nel numero e non strettamente legati alla BRI.[17]

In ragione di quanto precede, la frizione tra desiderio cinese di portare il proprio contributo determinante e lo scetticismo della comunità internazionale sembra potersi risolvere ad oggi nell’adozione ancora necessaria di un multilateralismo mitigato, limitato allo stretto necessario ma pur sempre presente. A questo approccio sono riconducibili una serie di iniziative che hanno avuto luogo nella cornice offerta dalla BRI, focalizzate sulla promozione di nuove intese multilaterali e di procedure di risoluzione alternativa delle controversie con caratteristiche non solo cinesi, bensì orientali.

Un primo ambito di iniziativa si è registrato nella promozione, all’interno di organizzazioni internazionali riconosciute, di meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie più consoni al comune sentire asiatico, quali la mediazione commerciale. L’esempio più recente si è avuto con la firma nell’agosto 2019 della Convenzione di Singapore, approvata in seno all’UNCITRAL. La convenzione mira alla promozione dell’istituto della mediazione commerciale internazionale, dove un terzo mediatore invita le parti a ricomporre il loro rapporto proponendo una soluzione negoziale, la quale non potrà essere imposta alle parti ma dovrà essere da queste accettata per divenire effettiva. La filosofia sottesa alla mediazione è molto più vicina agli standard di condotta orientali che non a quelli occidentali, sebbene la mediazione commerciale moderna debba molto agli Stati Uniti. Inoltre, la mediazione è evidentemente in linea con le inclinazioni degli arbitri cinesi,[18] come dimostrato da alcune ricerche.[19] Il paragone con la Convenzione di New York del 1958, più volte avanzato da diversi organi di stampa, è sicuramente fuorviante ed appare al momento impossibile da sostenere. Sebbene ai blocchi di partenza la Convenzione di Singapore abbia raccolto più firmatari della Convenzione di New York, il successo di tali meccanismi è ponderabile solo sul lungo periodo sulla base delle effettive ratifiche nazionali e sull’incremento delle procedure favorite da tali strumenti. È in ogni caso importante rilevare come la Convenzione di Singapore sia frutto di un multilateralismo diverso, nel quale la Rpc ha fatto sentire la sua presenza ed è stata attivamente partecipe nelle negoziazioni.[20] La diversità si evidenzia ancora di più nella lista dei 46 paesi firmatari della Convenzione, per gran parte asiatici. Da questi paesi ci si attende ora, oltre alla ratifica dello strumento convenzionale, anche un’armonizzazione delle disposizioni interne relative alla mediazione, secondo una tendenza già ravvisata nelle legislazioni sull’arbitrato commerciale nei paesi toccati dalla BRI.[21] Ciò potrebbe definitivamente consacrare le procedure di mediazione o di mediazione-arbitrato quali nuovi meccanismi prediletti dagli operatori di settore nei paesi asiatici.

Un secondo ambito riguarda la stipula accordi internazionali di cooperazione tra centri arbitrali cinesi e non cinesi per la gestione congiunta delle procedure di risoluzione alternativa delle controversie. Esempi in questo ambito sono l’intesa tra Singapore International Arbitration Center (SIAC) e CIETAC del 2018 sulla promozione degli sforzi congiunti sulla BRI, oppure l’istituzione di sotto-commissioni CIETAC all’estero (Unione europea e Canada, tra le prime) mediante cooperazione con istituzioni ed associazioni arbitrali locali. Queste iniziative presentano interessanti profili di ibridazione tra centri di risoluzione alternativa delle controversie, destinati a far crescere la condivisione di esperienze e best practices nonché a definire nuovi protocolli di cooperazione. Quanto alla richiamata intesa tra SIAC e CIETAC, l’elemento di novità risiede appunto nella costituzione di un gruppo di lavoro paritetico per la definizione di regole comuni di consolidamento di procedure arbitrali diverse all’interno del medesimo arbitrato, spesso determinante in presenza di contenziosi complessi.

Un terzo ambito d’iniziativa si intravede infine nella stipula di accordi internazionali per favorire la creazione di nuovi centri di risoluzione delle competenze. In particolare, durante il 2° Belt and Road Forum dello scorso aprile, la Cina ha inserito tra i deliverables anche l’istituzione di un International Commercial Dispute Prevention and Settlement Organisation (ICDPASO), firmata da un numero di paesi partner della BRI. Sebbene il centro non abbia ancora visto la luce, anche tale iniziativa supporta la visione di un multilateralismo selettivo tra i soli stati partecipanti alla BRI, volta a creare un’organizzazione (e non già un tribunale) deputato non soltanto a risolvere ma a prevenire controversie commerciali.

I tre ambiti sopra segnalati non esauriscono tutte le potenziali iniziative ma denotato la BRI come catalizzatore di un multilateralismo diverso da quello nel quale l’arbitrato commerciale internazionale ha finora prosperato. Un multilateralismo che si muove lungo le linee di frattura del sistema multilaterale finora dominante e al di sotto di mutati rapporti di forza, replicando una geometria regionale variabile. La comunità arbitrale internazionale sembra aver recepito il messaggio proveniente dall’Estremo Oriente ed è pronta ad attrezzarsi per farvi fronte. La recente dichiarazione di Pechino sottoscritta dalle principali istituzioni arbitrali mondiali nel corso del Belt and Road Arbitration Institutions Roundtable Forum nel novembre 2019 sottolinea l’interesse della comunità arbitrale internazionale nell’essere parte di questa affermazione della Cina quale produttore di nuove regole internazionali, comprendendone le peculiarità. Un esempio fra tutti è l’istituzione della Belt and Road Commission in seno alla Camera di commercio internazionale. Al pari di iniziative simili adottate dalle principali istituzioni arbitrali occidentali, la previsione di commissioni di studio apposite denota un interesse marcato per una parte del mondo ormai fondamentale per il commercio mondiale. Inoltre, essa fornisce al contempo una più sottile suggestione che trascende dai discorsi qui svolti in ambito BRI. Le istituzioni arbitrali occidentali dovranno presto prepararsi ad una nuova fase di concorrenza agguerrita. Non soltanto in Cina, anche nei paesi un tempo noti come “tigri asiatiche” (Hong Kong e Singapore sopra tutti) nuove istanze arbitrali specializzate si stanno affermando nella gestione delle controversie internazionali, un mercato nel mercato globale nel quale l’Asia, tra antiche tradizioni e nuovi “legal hubs”, non è più disposta soltanto a guardare.

[1] Si vedano al riguardo i contributi di Jürgen Rüland, “«Principled Multilateralism» versus «Diminished Multilateralism»: some general reflections”, nonché di Yeo Lay Hwee, “The EU’s and ASEAN’s Responses to «Multilateralism» in a Changing World”, entrambi in Multilateralism in a Changing World Order, a cura di Christian Echle, Patrick Rueppel, Megha Sarmah, e Yeo Lay Hwee (Singapore: Konrad-Adenauer-Stiftung, 2018).

[2] Si rimanda sul punto a Gary Born, International arbitration: law and practice (Alphen aan den Rijn: Kluwer Law International, 2016), 417 e ss.

[3] Si veda Joshua Karton, “Beyond the «Harmonious Confucian»: International Commercial Arbitration and the Impact of Chinese Cultural Values”, in Legal Thoughts Between the East and the West in the Multilevel Legal Order: Liber Amicorum in Honor of Professor Herbert Han-pao Ma, a cura di Chang-fa Lo, Nigel Li e Tsai-Yu Lin (Singapore: Springer, 2016), 522-524.

[4] Anne Judith Farina, “Talking disputes into harmony – China approaches international commercial arbitration”, American University International Law Review 4 (1989) 1: 139.

[5] Simon Chesterman, “Asia’s ambivalence about international law and institutions: past, present and futures”, The European Journal of International Law 27 (2017) 4: 951-953.

[6] Zachary Mollengarden, “One-stop dispute resolution on the Belt and Road: toward an international commercial court with Chinese characteristics”, UCLA Pacific Basin Law Journal 36 (2019) 1: 72.

[7] Per un excursus storico, si veda Benjamin P. Fishburne III e Chuncheng Lian, “Commercial arbitration in Hong Kong and China: a comparative analysis”, University of Pennsylvania Journal of International Economic Law 18 (1997) 1: 301 e ss.

[8] Anne Judith Farina, “Talking disputes into harmony – China approaches international commercial arbitration”, American University International Law Review 4 (1989) 1: 155-156,

[9] Fan Kun, “Arbitration in China: practice, legal obstacles and reforms”, ICC International Court of Arbitration Bulletin 19 (2008) 2: 26.

[10] Heng Wang, “China’s new paradigm to the Belt and Road Initiative and beyond: the selective innovation of institutions and rules?” (giugno 2019): 4. Disponibile all’Url https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3404881.

[11] Si veda Jingzhou Tao e Mariana Zhong, “Resolving Disputes in China: New and Sometimes Unpredictable Developments”, in International Organization and the Promotion of Effective Dispute Resolution – AIIB Yearbook of International Law 2019, a cura di Peter Quayle e Xuan Gao (Leida e Boston: Brill Nijhoff, 2019), 59.

[12] Ibid., 63.

[13] “Provisions of the Supreme People’s Court on several issues regarding the establishment of the international commercial court”, adottate nel corso del 1743° meeting del Adjudication Committee della SPC in data 25 giugno 2018, disponibile all’Url http://cicc.court.gov.cn/html/1/219/199/201/817.html.

[14] Si veda la ricerca condotta da Matthew S. Eire, “The new legal hubs: the emergent landscape of international commercial dispute resolution”, Virginia Journal of International Law 59 (2019) 3 (in corso di pubblicazione).

[15] Zachary Mollengarden, “One-stop dispute resolution on the Belt and Road: toward an international commercial court with Chinese characteristics”, UCLA Pacific Basin Law Journal 36 (2019) 1: 106.

[16] Patrick Norton, “China’s Belt and Road Initiative: challenges for arbitration in Asia”, University of Pennsylvania Asian Law Review 13 (2018) 87.

[17] Matthew S. Eire, “Update on the China International Commercial Court”, China Law and Development Research Brief (2019) 1: 4.

[18] Si veda al riguardo Danny McFadden, “Developments in international commercial mediation: US, UK, Asia, India and EU”, Contemporary Asia Arbitration Journal 8 (2015) 2: 302 e seguenti.

[19] Sul punto si vedano Gabrielle Kaufmann-Kohler, Fan Kun, “Integrating mediation into arbitration: why it works in China?“, Journal of International Arbitration 25 (2008) 4; Fan Kun, “An empirical study of arbitrators acting as mediators in China”, Cardozo Journal of Conflict Resolution 15 (2014): 777-811.

[20] Si vedano le diverse posizioni e dichiarazioni della Rpc segnalate da Timothy Schnabel, “The Singapore Convention on Mediation: a framework for the cross border recognition and enforcement of mediated settlements”, Pepperdine Dispute Resolution Law Journal 19 (2019) 1.

[21] Weixia Gu, “China’s Belt and Road development and a new international commercial arbitration initiative in Asia”, Vanderbilt Journal of Transnational Law 51 (2018) 5: 1323.

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