C’era un periodo in cui pubblicitari ed esperti di strategie di marketing s’interrogavano sul cosiddetto “China’s X Brand Blues”, il fenomeno per il quale la Cina produce di tutto ma non riesce a creare un marchio capace di imporsi a livello globale.
Mentre Pechino cerca i mezzi più innovativi per risolvere questo dilemma, i brand italiani in Cina soffrono di un problema uguale e opposto: dopo essere stati ai vertici per anni, sembrano entrati in una crisi di credibilità.
Alle origini del tracollo c’è una lunga scia di eventi, passi falsi e strategie sbagliate. Si comincia nel luglio scorso con il famigerato “caso Da Vinci”: la maison cinese importatrice di mobili di lusso italiani è oggetto di una devastante campagna mediatica ad opera della tv di Stato CCTV, che accusa la società di etichettare come “made in Italy” prodotti di scarsa qualità fabbricati in Cina. L’impressione emersa da un’intervista con la proprietaria di Da Vinci Doris Phua realizzata all’epoca per AgiChina24 è che la signora Phua avesse pestato i piedi a qualche concorrente con fortissime protezioni, ma che non volesse rivelare i retroscena della vicenda. Qualche mese dopo una contro-inchiesta ha fatto balenare la possibilità che Peng Jie – la donna che con le sue accuse ha avviato l’inchiesta della CCTV (NdR) – fosse vittima di un elaborato ricatto, ma la frittata ormai era fatta: oltre 50 aziende italiane si sono trovate coinvolte senza colpa in uno scandalo dai risvolti indecifrabili, ma che ha occupato un notevole spazio sui media cinesi.
I casi successivi coinvolgono la moda: se la storia dell’ex direttrice generale Prada in Giappone che accusa il gruppo di discriminare gli impiegati meno attraenti sembra avere avuto effetti tutto sommato limitati, la clamorosa gaffe di Dolce & Gabbana a Hong Kong tocca un nervo scoperto dell’opinione pubblica locale nel momento peggiore, e causa una vera bagarre sulla casa di moda. Vietare agli abitanti di Hong Kong di fotografare le vetrine mentre questo viene consentito ai compatrioti della Cina continentale, si è rivelato un clamoroso autogol, che denota anche un’enorme ignoranza da parte del management. Risultato: residenti dell’ex colonia britannica feriti nell’orgoglio, manifestazioni davanti al flagship store di D&G, contro-campagne dei concorrenti a base di slogan come “qui potete fotografare quello che volete”. E un enorme danno d’immagine all’Italian style: i media cinesi non dimenticano e si sono messi a seguire da vicino le vicissitudini della coppia di stilisti con il fisco italiano. Infine, la vicenda dei produttori accusati dalla Cina di vendere oli fabbricati con olive provenienti da altri paesi, sulla quale le autorità italiane a Pechino stanno facendo chiarezza.
“Lo dico con franchezza: trovo estremamente difficile relazionarmi con le aziende italiane” racconta ad AgiChina24 una giovane cinese che ha studiato in Italia e lavora nel settore della moda. “Molto spesso m’inviano rendering sbagliati e devo chiedere quelli esatti più e più volte. Con questa gente, l’immagine del vostro paese sta peggiorando”.
Gli inglesi vivono di rendita da anni su “Cool Britannia” e il logo della Spagna è diventato riconoscibile ovunque. Forse i tempi sono maturi. Forse, dopo fiaschi clamorosi come il portale Italia.it, è venuto il momento di investire su una campagna di country-branding che renda l’immagine del nostro paese più fresca e accattivante, soprattutto sui mercati emergenti.
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