Il 24 aprile 2013 l’agenzia di stampa Nuova Cina ha annunciato che nei pressi della città di Kashi (Kashgar) quindici tra operatori civili e poliziotti sono stati vittime di un assalto. A queste vittime di etnia han si aggiungono sei attentatori, di cui non è stata resa nota l’etnia. La strage non è avvenuta esattamente in prossimità di Kashgar, ma a più di cento chilometri dal centro urbano, nell’area di Bachu, in una zona in prossimità del confine kirghiso ove Pechino da tempo cerca di rafforzare il controllo del territorio da parte del proprio apparato di sicurezza.
Al di là dell’identità delle persone coinvolte e dei fini degli attentatori – siano essi di matrice terroristica di stampo islamico, o invece legati a strutture criminali transnazionali dedite al traffico di oppiacei e armi – il gesto alimenta ulteriormente l’attenzione di Pechino sull’oramai prossimo ritiro delle truppe ISAF dall’Afghanistan, previsto per il 2014. Il vuoto di potere che si andrà a creare non sarà certo colmato né dall’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai né dall’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, poiché è evidente che nessuna delle due organizzazioni è intenzionata ad assumere il ruolo di Nato dell’Est. Se durante la guerra fredda gli obiettivi legati alla sicurezza regionale rimanevano chiaramente definiti, oggi la transizione verso un equilibrio multipolare ha incrementato incertezza e insicurezza.
La questione afghana non è del resto l’unica minaccia alla sicurezza regionale e all’integrità territoriale dello Xinjiang. Vanno infatti tenuti in considerazione anche i nuovi equilibri interni al Pakistan, così come le dispute che coinvolgono le giovani repubbliche centroasiatiche – a partire dalle controversie riguardanti l’uso di risorse naturali, i diritti di transito dell’energia e l’accesso alle risorse idriche. La fragilità dei vari governi centro- e sud-asiatici potrebbe per altro essere acuita da un effetto domino innescato da un prossimo collasso dell’Afghanistan e dal ritorno di militanti islamici filo-talebani, come il Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp) in Pakistan o l’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu) in Uzbekistan.
La politica di sviluppo intrapresa da Pechino nella zona economica preferenziale dello Xinjiang – nonché i progetti infrastrutturali finalizzati a collegare la capitale regionale Urumqi con i mercati e le risorse naturali dell’Asia Centrale – hanno ottenuto risultati positivi, ma resta ancora molto da realizzare sul lato della sicurezza. Ciò è vero non tanto per i quasi 100 chilometri di frontiera che la Cina condivide con l’Afghanistan, bensì per i ben più permeabili 2800 chilometri che separano la Cina da Tajikistan, Kirghizistan e Kazakhstan. Pur rimanendo legata alla linea di non intervento negli affari interni di un altro paese, la Cina è sempre più preoccupata delle spinte indipendentiste all’interno del proprio territorio e dagli effetti negativi derivanti da un incremento del traffico di oppiacei, di armi e di capitali illeciti provenienti dall’Afghanistan. Ne è stata una riprova – a settembre 2012 – la pur breve visita a Kabul di Zhou Yongkang, allora membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico (con un ampio portfolio in materia di sicurezza dello Stato), massima autorità cinese ad aver visitato l’Afghanistan negli ultimi 50 anni.
Per altri versi l’incognita afghana può servire come catalizzatore regionale, spingendo Uzbekistan e Kazakhstan a una cooperazione sino ad ora considerata improbabile. Su scala internazionale Cina e Russia, al di là di una permanente diffidenza reciproca, concordano sui rischi che per entrambi i paesi sono rappresentati dalle cosiddette “tre forze diaboliche”: terrorismo, separatismo ed estremismo religioso.
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