L’inquinamento da plastica, flagello che affligge tanto la terraferma quanto gli oceani, è da tempo una costante nelle cronache globali. Le ragioni sono evidenti: i danni irreversibili inferti all’ambiente, alla vita marina e agli ecosistemi nel loro complesso sono sotto gli occhi di tutti. A ciò si aggiungono le devastanti ripercussioni sociali derivanti da inadeguate pratiche di raccolta, trattamento e gestione dei rifiuti, che si accumulano, direttamente o indirettamente, in determinate aree del pianeta. Il Sud-Est asiatico si configura come una delle regioni più colpite, una situazione esacerbata da una cronica penuria di risorse e infrastrutture, unitamente alla vastità di acque territoriali scarsamente sorvegliate e difficilmente controllabili.
La persistenza della plastica nell’ambiente è un dato di fatto allarmante. La struttura molecolare di gran parte dei polimeri in circolazione, basata su legami di idrogeno e carbonio, conferisce loro una longevità elevatissima, richiedendo decenni, se non secoli, per avviare il processo di decomposizione. Incenerimento e discarica rimangono le strategie di gestione più diffuse, a fronte di una percentuale di riciclo globale che si attesta su un misero 9%. Si stima che annualmente tra i 4 e i 12 milioni di tonnellate di plastica non riciclata finiscano incenerite, interrate o disperse in mare[1]. Urge, dunque, l’implementazione di piani di contenimento efficaci, specialmente in quei Paesi che, di fatto, fungono da discariche globali.
La Cina, per anni principale importatore di rifiuti plastici, ha intuito il potenziale ruolo di questi materiali di scarto all’interno della filiera produttiva. Tuttavia, il nodo cruciale non risiede nella plastica in sé, bensì nell’ingente volume di rifiuti plastici di bassa qualità o contaminati, difficilmente riciclabili e destinati inevitabilmente alle discariche. Nel 2013, Pechino ha introdotto la restrittiva campagna del “recinto verde”, un freno all’importazione di plastiche non riciclabili, sia attraverso canali legali sia tramite contrabbando e commercio illecito. Nonostante ciò, nel 2017 la Cina importava ancora quasi nove milioni di tonnellate di plastica all’anno[2]. Nello stesso anno, una svolta: venne decretato il divieto di importazione per ventiquattro tipologie di rifiuti solidi, inclusa la plastica. Questo evento ha innescato un radicale cambiamento nei flussi di rifiuti in tutta l’Asia, con una proliferazione incontrollata di discariche illegali nel Sud-Est asiatico, in particolare in zone remote, sia terrestri sia marine. Indonesia, Thailandia, Vietnam, Filippine e Malaysia si collocano ai primi cinque posti nella triste classifica dei Paesi produttori di rifiuti solidi a livello globale, con una media di circa 1,14 kg pro capite al giorno[3]. Paradossalmente, nessuno di questi Paesi dispone di un sistema di gestione all’avanguardia in grado di smaltire efficacemente rifiuti contaminati o non riciclabili, né di sufficienti aree da destinare a discarica.
La produzione di plastica è indubbiamente un problema di portata globale, così come globali sono le variabili che ne influenzano la gestione. Negli ultimi anni, si è assistito a un pericoloso incremento della produzione di plastica monouso a livello mondiale, un trend esacerbato dalla pandemia di Covid-19, soprattutto nelle economie più avanzate.
Il Sud-Est asiatico, con i suoi circa 150.000 km di coste, oltre 25.000 tra isole e isolotti, la presenza del 34% delle barriere coralline e del 30% delle foreste di mangrovie mondiali, unita a una cronica carenza di risorse e personale per il controllo del territorio, si rivela un terreno fertile per lo smercio illecito di rifiuti. Non sorprende che tutti i Paesi della regione figurino tra i primi venti nella graduatoria dei Paesi con il più alto tasso di cattiva gestione dei rifiuti, con l’Indonesia al secondo e le Filippine al terzo posto.
Il sistema di gestione dei rifiuti nettamente prevalente è quello della discarica a cielo aperto, attrattivo per i suoi bassi costi operativi e la semplicità di realizzazione. Come suggerisce il nome, si tratta semplicemente di aree non coperte scavate direttamente nel terreno. Bantar Gebang, la principale discarica di Jakarta, si estende su 120 ettari e riceve circa 7.000 tonnellate di rifiuti al giorno[4]. È evidente che il ricorso alle discariche non rappresenta una soluzione sostenibile a lungo termine, poiché la loro continua espansione finisce per saturare completamente il territorio circostante, precludendone qualsiasi altro utilizzo a causa dell’accumulo indiscriminato di diverse tipologie di rifiuti, molti dei quali tossici.
A causa delle difficoltà tecnologiche, logistiche e infrastrutturali che affliggono i Paesi del Sud-Est asiatico, il tasso di riciclaggio nella regione non supera il 50%[5]. Il trattamento dei rifiuti è prevalentemente affidato a ditte private, guidate primariamente dalla logica del profitto e dagli incentivi statali. Tuttavia, le infrastrutture per il riciclaggio sono concentrate nelle aree urbane e gestite da un’oligarchia di imprenditori. Le piccole imprese, anche in contesti urbani, non dispongono dei mezzi per operare con profitto, e la maggior parte della popolazione rurale non ha alternative alle discariche. Come abbiamo visto, non tutte le plastiche sono riciclabili, e la raccolta dei rifiuti è spesso svolta dalle fasce più povere della popolazione che, in mancanza di migliori opportunità di impiego, setacciano le strade raccogliendo ciò che trovano. Appare irrealistico ipotizzare la creazione in queste zone di un sistema di raccolta unificato e omogeneo, in grado di massimizzare i profitti derivanti dal processo di riciclaggio. Di conseguenza, per le aziende diventa antieconomico processare la plastica raccolta localmente, perché troppo sporca, mista e difficile da lavorare. Per massimizzare i profitti scelgono quindi di importare rifiuti plastici dall’estero: questo materiale, essendo di qualità migliore e già preselezionato, è più conveniente da trasformare in un prodotto finito, nonostante i rischi legati a contratti di acquisto poco trasparenti o talvolta fraudolenti.
Nell’impossibilità di riciclare, un’altra strategia adottata nel Sud-Est asiatico per trarre profitto da qualsiasi tipo di rifiuto, comprese le plastiche importate, è la produzione di energia attraverso l’incenerimento. Grazie alle sue proprietà molecolari, la plastica si rivela un ottimo combustibile. Il problema risiede nel fatto che i Paesi del Sud-Est asiatico non hanno ancora intrapreso la strada della Cina e spesso finiscono per incenerire diverse tipologie di plastica e altri materiali insieme. L’assenza di trattamenti post-incenerimento, motivata anche dall’aumento significativo dei costi, comporta la produzione di gas altamente tossici e la ricaduta di fumi e ceneri contaminate a decine di chilometri dagli impianti.
L’assenza di normative nazionali efficaci e della loro attuazione vanifica qualsiasi politica regionale. Ad esempio, l’incenerimento è sconsigliato a livello regionale, ma in Paesi come Myanmar, Singapore, Thailandia, Vietnam e Indonesia è una pratica diffusa sia nelle città, secondo regole ben precise, sia nelle zone rurali, in assenza di controlli. Il blocco dell’importazione di plastica da parte della Cina ha determinato un raddoppio delle importazioni in Paesi come Filippine, Malaysia e Indonesia. Alcuni di questi, come Filippine e Malaysia, hanno iniziato a rispedire o a bloccare temporaneamente i carichi provenienti principalmente da Paesi europei, mentre Thailandia e Vietnam stanno cominciando a limitarne l’importazione.
La maggior parte delle discariche terrestri si trova in zone rurali, scarsamente controllate e, di conseguenza, ben al di sotto degli standard di sicurezza. I rischi più comuni includono inondazioni, incendi e smottamenti di rifiuti e, nonostante l’oggettiva difficoltà di raccogliere dati statistici, le numerose osservazioni sul campo registrano un elevato numero di vittime. Dal 1993, Hong Kong, Stati Uniti d’America, Giappone, Germania e Regno Unito sono stati i principali esportatori di rifiuti plastici verso Paesi in via di sviluppo. Alti livelli di corruzione hanno però fatto sì che la maggior parte di questi carichi non rispettasse le leggi che ne regolano il commercio, includendo spesso carichi misti con una qualità di plastica troppo bassa per essere riciclata con i metodi più comuni.
Valorizzare il riciclaggio della plastica, ad esempio producendo carburanti derivati con un potere calorifico superiore a quello delle benzine, è un’opzione che, grazie alle nuove tecnologie disponibili, dovrebbe ricevere maggiore attenzione. Mentre troppi governi si concentrano sull’incenerimento per recuperare terreni altrimenti destinati alle discariche, questo metodo si rivela poco efficace sia in termini di rischi ambientali sia di coefficiente di ritorno economico.
Un altro approccio molto promettente è il riciclaggio chimico, attraverso il quale la plastica può essere processata tramite gassificazione e pirolisi per essere convertita in prodotti ad alto valore aggiunto. La pirolisi comporta la degradazione termica di molecole complesse in molecole più piccole ad alte temperature (300°C–800°C), producendo oli liquidi, carbone e gas. Presso la Nanyang Tecnological University (NTU) di Singapore è in fase di sperimentazione la trasformazione di rifiuti plastici in idrogeno attraverso un processo chimico ad alte temperature. La produzione massiva di idrogeno potrebbe rappresentare una delle soluzioni alla continua ricerca di combustibili alternativi e sostenibili.
Ad esempio, presso Petronas Chemical Group e Plastic Energy Ltd in Malaysia sono riusciti a sviluppare una nuova tecnologia per convertire rifiuti plastici di bassa qualità e non riciclabili in nafta, che a sua volta può produrre polimeri di qualità vergine. Nonostante lo stato ancora embrionale di queste tecnologie, opzioni simili potrebbero costituire alternative non solo sostenibili ma anche molto proficue, fornendo un valido supporto alle economie e alle politiche ambientali dei Paesi della regione.
In misura ancora difficilmente quantificabile, queste opzioni potrebbero certamente alleviare anche il peso che questi Paesi sopportano a causa dello sfruttamento illegale fin qui descritto, che sta trasformando il commercio di plastica in uno dei crimini transfrontalieri più complessi della regione. La Commissione Europea stima che tra il 15 e il 30% dei carichi di rifiuti in partenza dall’Europa verso il Sud-Est asiatico sia illegale, generando profitti illeciti annui di miliardi di euro.
Secondo un rapporto dell’ONU, i Paesi dell’ASEAN hanno importato collettivamente 100 milioni di tonnellate di metallo, carta e plastica, per un valore di circa 50 milioni di euro, in un arco temporale di circa tre anni (2018-2021)[6]. A questi numeri si aggiungono i profitti derivanti dalla successiva vendita di rifiuti considerati non riciclabili. Come osservato in molteplici occasioni, esiste in tutta la regione una pratica illecita ma molto consolidata per cui gli scarti del processo di riciclaggio delle grandi aziende vengono venduti o addirittura donati a comunità rurali, che poi cercano di trarne profitto con le modalità precedentemente descritte. Inoltre, a causa dei fumi tossici o dei residui di rifiuti che riescono ormai a infiltrarsi nella catena alimentare, si registra un forte aumento dei casi di malattie respiratorie e dell’apparato digerente sviluppate dalle popolazioni rurali. Purtroppo, finché le norme, e quindi gli abusi, non rientreranno nel codice penale dei Paesi riceventi, ma rimarranno confinati nella sfera dei regolamenti civili e amministrativi, le pene saranno sempre inadeguate, i profitti sempre maggiori e la corruzione sempre troppo allettante.
I Paesi esportatori, tuttavia, hanno i mezzi e il dovere morale di esercitare un controllo. Non solo una maggiore volontà politica nella catena di responsabilità dei governi esportatori, ma anche l’utilizzo di nuove tecnologie ormai accessibili a tutti. Un esempio sono i droni, che potrebbero fornire un aiuto considerevole anche ai Paesi importatori per vigilare più efficacemente sul proliferare di attività illegali legate alla raccolta, al trattamento e alla gestione di rifiuti potenzialmente pericolosi, o per quantificare con maggiore precisione i danni ambientali causati dalle discariche terrestri e marine.
[1] UN Environment Programme (2021). “Drowning in Plastics – Marine Litter and Plastic Waste Vital Graphics”, 21 ottobre, disponibile online al sito: https://www.unep.org/resources/report/drowning-plastics-marine-litter-and-plastic-waste-vital-graphics
[2] Wen, Z., Xie, Y., Chen, M., & Dinga, C. D. (2021). “China’s plastic import ban increases prospects of environmental impact mitigation of plastic waste trade flow worldwide”. Nature Communications, 12(1), 425.
[3] Ng, C. H., Mistoh, M. A., Teo, S. H., Galassi, A., Ibrahim, A., Sipaut, C. S., Foo, J., Seay, J., Taufiq-Yap, Y. H., & Janaun, J. (2023). “Plastic waste and microplastic issues in Southeast Asia”. Frontiers in Environmental Science, 11.
[4] Sasaki, S. (2023). “A Walk Through Bantar Gebang Landfill: Informal Waste Workers in the Spotlight”. Regional Knowledge Centre for Marine Plastic Debris, 20 ottobre, disponibile online al sito: https://rkcmpd-eria.org/zero-in-on-plastic/a-walk-through-bantar-gebang-landfill-a-closer-look-at-the-informal-waste-workers-2
[5] Loh, P. Y. (2020). “Why is Southeast Asia so bad at managing its waste?”. Kontinentalist, 13 aprile, disponibile online al sito: https://kontinentalist.com/stories/southeast-asia-ocean-plastics-pollution-waste-management
[6] Pope, H. (2024). “UN Cites Southeast Asia as Destination for the World’s Illegal Waste”. Organized Crime and Corruption Reporting Project, 3 aprile, disponibile online al sito: https://www.occrp.org/en/news/un-cites-southeast-asia-as-destination-for-the-worlds-illegal-waste
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