La frontiera urbana della sicurezza

Human Security n. 6 (Marzo 2018)

Più della metà della popolazione mondiale vive oggi in contesti urbani. Entro il 2030 due persone su tre vivranno in centri metropolitani, mentre entro il 2050 questo rapporto salirà a tre persone su quattro. Sotto la spinta di un’urbanizzazione senza precedenti, le città stanno emergendo come crocevia politici, economici e culturali, e ridefinendo le agende internazionali di sviluppo e sicurezza.

Nonostante le molte opportunità offerte dalle città, alcune zone urbane sembrano oggi riecheggiare le criticità associate ai cosiddetti stati fragili o falliti. In queste “città fragili” le autorità statali faticano infatti a fornire servizi di base e ad assicurarsi il monopolio sull’uso legittimo della forza, lasciando spazio a vecchi e nuovi attori non-statali. Nel frattempo la vita quotidiana sembra per molti versi sempre più paragonabile alla vita in zone di guerra.

In altre parole, le città rappresentano nuove arene di complessi conflitti politici, sociali ed economici e, per questa ragione, negli anni a venire saranno al centro di un maggiore impegno da parte di accademici, policy-makers e practitioners. Su questa linea, i testi e le immagini di questo numero di Human Security richiamano l’attenzione sulla dimensione urbana della violenza e della sicurezza umana nel tentativo di evidenziarne le diverse sfaccettature e le criticità che ne derivano, tanto per chi studia questi fenomeni quanto per chi in questi contesti fornisce aiuti umanitari o lavora per ridurre e prevenire la violenza.

Kieran Mitton, autore del primo articolo di questo numero e docente di Relazioni Internazionali al King’s College di Londra, analizza i fattori che contribuiscono alla crescente centralità della violenza urbana nelle dinamiche globali di conflitto, sicurezza e sviluppo. Mitton afferma che con tutta probabilità sarà infatti questo fenomeno a caratterizzare il XXI secolo, richiedendo quindi un maggiore sforzo collettivo da parte degli attori coinvolti nella formulazione di risposte adeguate. Segue un articolo di Tommaso Messina, ricercatore e analista presso la Institutional Shareholder Services, che, partendo dal riconoscimento della maggiore sistematicità con cui diverse organizzazioni internazionali affrontano oggi il tema della violenza urbana, esplora i presupposti su cui si basa questa nuova traiettoria di interventi umanitari e riflette sui limiti derivanti da come la violenza urbana viene rappresentata e compresa dalle organizzazioni umanitarie.

Una delle manifestazioni più note della violenza urbana è sicuramente il fenomeno delle street gang. Nonostante esse non rappresentino una novità in assoluto e siano diffuse in tutto il mondo, gli aspetti identitari, organizzativi e culturali che contraddistinguono le gang sono spesso trascurati. A fronte di questa mancanza, Fabio Armao, docente di Urban Security e di Politica e Processi di Globalizzazione presso l’Università degli Studi di Torino, descrive come le gang siano in grado di accrescere la coesione intragruppo attraverso la creazione di subculture e di ideologie, capaci di fornire ai loro membri un sistema di regole e norme comuni che, a loro volta, contribuiscono ad alimentare un senso di appartenenza e identità collettiva che il contesto istituzionale non riesce a garantire loro. Continua la riflessione sulle gang, Donna De Cesare, ricercatrice, fotografa e documentarista, che attraverso le sue parole e i suoi scatti racconta l’impatto che la violenza urbana, le gang e le politiche repressive per contrastarle, possono avere sulla vita delle persone, anche a migliaia di chilometri di distanza.

Concludono il focus sulle gang giovanili David C. Brotherton e Rafael Gude che insieme hanno condotto una ricerca etnografica e d’archivio sui fattori strutturali e culturali che hanno portato l’Ecuador a optare per una politica di inclusione sociale, legalizzando le gang. Nell’analizzare il successo di questa iniziativa politica e le ricadute positive che questa scelta ha avuto sulla società ecuadoregna a dieci anni di distanza, l’articolo di Brotherton e Gude sposta anche l’attenzione del lettore dall’analisi del fenomeno alla ricerca di risposte concrete che vadano al di là delle politiche repressive o del mero dispiegamento di forze di sicurezza, per adottare un approccio più trasformativo, facendo degli attori violenti e criminali i protagonisti di un più ampio processo di cambiamento sociale. Chiude questo numero di Human Security, Omar Degan, giovane architetto che ha deciso di mettere la sua passione al servizio del suo paese di origine, la Somalia, sottolineando come il ruolo degli spazi pubblici rappresenti un’opportunità che architetti ed esperti di pianificazione urbana dovrebbero sfruttare meglio per ridurre la disuguaglianza, mitigare la violenza e contribuire alla ricostruzione non solo degli spazi fisici, ma anche – e soprattutto – di quelli sociali in contesti delicati e complessi come quelli post-conflittuali.

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