[LA RECENSIONE] Asian Shadows

Durante uno dei suoi numerosi viaggi nello Yunnan per girare i documentari Three Sisters (2012), ‘Till Madness Do Us Part (2013) e Bitter Money (2016), Wang Bing entra in contatto con alcune famiglie di profughi birmani di etnia Ta’ang che dalla natìa regione di Kokang, nella parte settentrionale dello Stato di Shan, hanno attraversato il confine per sfuggire al conflitto tra Tatmadaw (le forze armate nazionali) e gruppi etnici armati locali. Da qui l’idea di girare Ta’ang, concretizzatasi tra il 2014 e il 2015 grazie a fondi provenienti dalla Francia, Paese in cui il cinema di Wang Bing miete successi di pubblico e di critica sin dai primi anni Duemila. Con qualche migliaia di euro, spesi per la maggior parte in trasporto, vitto e alloggio, Wang Bing e una ridottissima troupe di fidati collaboratori trascorrono parte della primavera del 2015 insieme a sfollati di etnia Ta’ang rifugiatisi in Cina, filmando la loro quotidianità fatta di lunghe marce per sentieri impervi al di qua o al di là del confine a seconda dei venti di guerra, pasti frugali, notti di ansiosa veglia, costruzione e smantellamento di campi profughi, lavoro nero nelle piantagioni di canna da zucchero dello Yunnan. Chi si aspetta un documentario d’analisi approfondita sulle cause etnico-politiche del conflitto tra Tatmadaw e ribelli e sulle tensioni tra Cina e Myanmar dovute alla ‘permeabilità’ del confine, rimarrà però deluso. Come Wang Bing ha recentemente dichiarato a Film Comment: “[con Ta’ang] non mi interessava realizzare un film sul contesto storico-politico, ma registrare le storie delle madri e dei bambini sfollati che vagano al confine tra Cina e Myanmar, perduti”. In Ta’ang, come nel resto della sua opera cinematografica, infatti, il  regista cerca di interessare il pubblico non tramite la “Grande Narrazione” della Storia e degli “uomini d’eccezione” che ne tirano le fila, ma, al contrario, attraverso le “microstorie” di gente comune alle prese con problemi-base come la mancanza di denaro, cibo e rifugio – uomini e donne talmente ordinari da diventare simboli della condizione (in)umana degli oppressi tout court, nel Sud-est asiatico come nel resto del pianeta.

Coerentemente, nelle brevi didascalie che aprono il film, si accenna a una “civil war” in atto in Myanmar e questo è tutto il background storico fornito allo spettatore. Per le seguenti due ore abbondanti di film, Wang Bing “pedina” i suoi protagonisti mentre passano le giornate lavorando a cottimo nelle piantagioni o attraversando a piedi i passi montani tra Cina e Myanmar, carichi di effetti personali e sacchi di riso. In queste scene diurne, è la videocamera a mano in perenne movimento a farla da padrone, mentre in colonna sonora dominano gli ordini e i rimproveri urlati dai genitori ai figli piccoli, e gli echi del conflitto armato al cui fuoco incrociato i Ta’ang cercano di sfuggire. Di notte, invece, quando i bambini dormono su giacigli di fortuna e gli adulti – esausti eppure insonni – sono radunati attorno a un piccolo falò, Wang Bing opta per lunghe riprese statiche illuminate solo dal fuoco, durante le quali raccoglie le confidenze, i timori e le speranze dei profughi. “Dobbiamo restare uniti, non dobbiamo separarci!”, afferma una donna durante una straziante conversazione telefonica con il marito lontano, nascosto chissà dove tra le montagne per sottrarsi all’arruolamento coatto tra le file dei ribelli e alle eventuali ritorsioni dell’esercito regolare: il nucleo drammatico del documentario d’osservazione Ta’ang è tutto in questo imperativo, tanto semplice in teoria quanto irrealizzabile nella pratica.

Ex-allievo della Lu Xun Academy of Fine Arts e della Beijing Film Academy, da quasi vent’anni il cineasta indipendente Wang Bing (Xi’an, 1967) percorre la Cina in lungo e in largo, dai distretti industriali di Shenyang ai villaggi montani dello Yunnan, passando per i campi petroliferi del deserto del Gobi e gli sweatshops di Shanghai e dintorni. Il suo obiettivo? Osservare con attenzione la quotidianità lavorativa e familiare della classe lavoratrice cinese, per documentare le poche gioie e i molti dolori di contadini e operai che si spezzano la schiena per guadagnare “l’amaro denaro” (Bitter Money è il titolo dell’ultima fatica di Wang Bing, premiata nella sezione Orizzonti della 73ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia). La sua pratica di filmmaker – inaugurata con il documentario autofinanziato di oltre 9 ore Tie Xi Qu: West of the Tracks (2002) – è basata su pochi, semplici assunti: disinteresse totale verso le “linee di condotta” tematiche e stilistiche stabilite dalla State Administration of Press, Publication, Radio, Film and Television of the People’s Republic of China (SAPPRFT), uso di videocamera digitale a mano e suono in presa diretta, troupe ridotta al minimo (Wang Bing lavora spesso in completa solitudine), immersione totale e per il più lungo tempo possibile nel contesto umano e sociale in cui si svolgono le riprese, fino a diventare un “osservatore invisibile” della realtà profilmica.

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