Tra le righe del dibattito sull’influenza cinese in Australia

Se avete sfogliato un quotidiano australiano negli ultimi due mesi vi sarete molto probabilmente imbattuti in un editoriale o in un commento sull’“influenza cinese” in Australia, due parole usate ormai abitualmente per riferirsi a varie questioni scottanti che stanno iniziando a determinare la percezione australiana del potere della Cina. Tra queste vi sono le accuse nei confronti di enti collegati al Partito Comunista Cinese di interferire con la libertà di espressione nelle università australiane e il disagio di fronte alle donazioni cinesi a favore di partiti politici australiani. Questa narrazione è emersa in un contesto delineato da una relazione bilaterale eccezionalmente ampia e dinamica dove oltre 1,2 milioni di australiani hanno origini cinesi e i membri della comunità sino-australiana hanno giocato un ruolo importante nella storia moderna dell’Australia. Per vari anni la Cina è stata il primo partner commerciale dell’Australia, e i legami economici si stanno intensificando. La percezione in Australia della Cina è migliore rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti, nel Regno Unito o in Canada, e, stando ai dati di uno dei più autorevoli sondaggi sulla politica estera in Australia, se si domanda a un australiano quale tra Cina e Stati Uniti sia il partner più importante si otterrà una risposta equamente ripartita. La discussione sull’influenza cinese in Australia è solitamente basata sulla questione più generale di come la crescita cinese possa influenzare la politica estera australiana e in particolare la relazione con Washington. Il fatto che l’Australia sia più vicina alla Cina è oggi più evidente, e forse più dibattuto, che mai dall’inizio del XXI secolo. Che ciò stia accadendo durante la presidenza statunitense più isolazionista da prima della Seconda guerra mondiale non rappresenta certamente una coincidenza.

Il Parlamento australiano a Canberra. Immagine: www.aph.gov.au

Le università hanno dominato la copertura mediatica recente sull’influenza cinese e sono un esempio istruttivo da cui iniziare per comprendere il dibattito. Con il 37% degli studenti internazionali, nel 2016 la Cina è stata la fonte principale di studenti stranieri giunti nel Paese. Da qualche tempo i giornalisti investigativi si concentrano sul ruolo delle “reti informative” cinesi all’interno delle università, mettendo in luce la risposta del controspionaggio. Lo scorso ottobre sembra che ufficiali del governo abbiano dichiarato ad ABC News che Pechino utilizza i gruppi studenteschi cinesi per “spiare gli studenti cinesi in Australia e per sfidare gli accademici il cui punto di vista si scontra” con quello del Partito. Il dibattito ha raggiunto i massimi livelli: il Ministro degli Esteri Julie Bishop ha commentato che l’Australia non “vuole vedere la libertà di espressione limitata in alcun modo che coinvolga studenti o accademici stranieri”.

Voci autorevoli si sono levate dal mondo imprenditoriale e universitario per chiedere una risposta che tenesse in considerazione l’importanza di non compromettere la costruzione di relazioni positive con gli studenti cinesi in quanto futuri ambasciatori culturali ed economici dell’Australia. Come ha osservato il Presidente dell’Australian National University (ANU) Brian Schmidt, “non ci sono vantaggi nel lasciare che preoccupazioni in materia di sicurezza relative a una piccola parte di studenti internazionali pregiudichino la nostra attitudine nei confronti di tutti gli studenti internazionali”.

Negli scorsi mesi si sono similmente intensificate le preoccupazioni legate alle donazioni a favore di forze politiche da parte di donors con origini cinesi, per lo più cittadini australiani. L’agenzia australiana per la sicurezza nazionale, Australia Security Intelligence Organisation (ASIO), avrebbe fornito istruzioni a politici su come le donazioni possano essere un “veicolo per l’influenza del Partito Comunista Cinese”. A differenza di Paesi come Stati Uniti, Regno Unito e Canada, l’Australia non vieta donazioni straniere verso soggetti politici e se l’Australia dovesse inasprire le regole, come molti credono debba fare, lo farà nei confronti di tutti i Paesi. Attualmente è in corso un’indagine multipartitica sulle donazioni straniere.

Lo sfondo del dibattito politico è rappresentato dalla colossale relazione economica: l’anno scorso la Cina ha pesato per oltre un quarto dell’interscambio australiano e gli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi sono in continua crescita. I legami economici sembrano prosperare nonostante il clima politico: negli ultimi due anni l’Australia ha infatti bloccato le offerte cinesi per due grandi progetti di investimento, inclusa una per il fornitore pubblico di energia Ausgrid, sulla base di motivazioni non meglio specificate di sicurezza nazionale. Gli economisti hanno criticato il veto e messo in guardia di fronte alle implicazioni che potrebbe avere per un Paese come l’Australia la cui crescita tradizionalmente poggia sugli IDE.

Questi sviluppi hanno implicazioni per la relazione sinoaustraliana e per la regione. Come l’Australia li affronterà dipenderà da come definirà i propri interessi nazionali e la propria posizione nell’ordine regionale. Ciononostante, ad eccezione di commenti a margine di contesti quali i dialoghi regionali sulla sicurezza, il governo australiano, che è cosa diversa da alcuni funzionari loquaci, è rimasto virtualmente in silenzio sul tema. Allan Gyngell, ex direttore della principale agenzia di valutazione dell’intelligence australiana, ha osservato che “la Cina sta diventando un rappresentante degli Stati Uniti nel dibattito sulla sicurezza nazionale australiano”, aggiungendo che “una posizione di risoluta opposizione alla Cina sta diventando un metro per valutare la fedeltà all’alleanza”. La sfida di gestire le relazioni con gli Stati Uniti di Trump, e le incertezze rappresentate dalla sua amministrazione, colmano gli spazi tra le righe del dibattito australiano sull’influenza cinese. Tutti i giorni l’Australia deve affrontare interrogativi che riguardano allo stesso tempo la Cina e gli Stati Uniti: come bisogna gestire il coinvolgimento nell’Iniziativa “Belt and Road” (BRI)? Conviene partecipare in operazioni congiunte con gli Stati Uniti per la “libertà di navigazione” nel Mar Cinese Meridionale? L’élite diplomatica australiana ha visioni diverse circa la traiettoria regionale della Cina in relazione agli Stati Uniti: John Lee, attualmente consigliere senior del Ministro degli Esteri, nel 2015 ha scritto che il trend è “quasi sicuramente in direzione di una maggiore competizione in Asia, ma fortemente orientata a favore degli Stati Uniti”. Altri, incluso Gyngell, sostengono che “gli Stati Uniti non saranno in grado di mantenere il primato militare in Asia orientale” e che l’Australia si deve preparare a questa realtà. Come evidenziato dalle critiche avanzate a maggio dal Ministro degli Esteri ombra, Penny Wong, contro “l’inspiegabile ambiguità” della coalizione di governo rispetto alla BRI e “le opportunità che essa offre”, i due principali partiti politici, al posto del tradizionale compromesso, stanno sviluppando aree di divergenza rispetto alla Cina.

Il dibattito sull’influenza cinese, con tutta la sua opacità e la sua gestione nel sottobosco della burocrazia, chiarisce in parte due obiettivi dell’Australia. Il primo consiste nella priorità di accrescere la comprensione istituzionale della politica, dell’economia e della cultura cinesi. Con il prosieguo delle riforme in Cina, riuscire a individuare aree di cooperazione e interessi comuni sarà vitale per l’Australia. A tal fine, una proposta che sta prendendo piede è la costituzione di una commissione binazionale indipendente Australia-Cina per favorire la gestione degli scambi bilaterali. Il secondo obiettivo consiste nel mantenere cornici istituzionali forti e chiare per gestire i casi di interferenza esterna. Come suggerito da un esperto di sicurezza, l’Australia deve definire in modo più preciso “quali siano le attività penalmente rilevanti dell’interferenza straniera, quali attività vadano classificate come pratiche diplomatiche inaccettabili e quali invece siano semplicemente effetti collaterali dei numerosi benefici derivanti dalla connettività regionale e globale”. Tutte le relazioni bilaterali implicano dei rischi, alcuni dei quali derivano da differenze nel sistema politico, e per gestire tali rischi l’Australia necessita di una leadership politica misurata e forti istituzioni bilaterali e regionali. Nonostante il recente clamore attorno all’influenza cinese, il successo dell’Australia poggia sul multiculturalismo e su una partecipazione diversificata alla vita sociale e politica del Paese. Porsi un obiettivo inferiore sarebbe un errore tanto di politica interna quanto per le relazioni internazionali dell’Australia.

 

Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini.

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