L’indebolimento dell’autorità morale e politica della Lega Nazionale per la Democrazia

Sin dalla vittoria schiacciante ottenuta dalla Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) nel novembre 2015, le discussioni sul futuro politico del Myanmar hanno preso una piega interessante. La NLD, che governa in una coalizione di intesa con militari e interessi politici legati all’etnia Bamar, deve mantenere un delicato equilibrio. Non potendosi permettere di distaccarsi dai milioni di elettori che le hanno mostrato un sostegno così esuberante, certe azioni sono ritenute troppo delicate per una forte azione politica. In cima a questa lista svetta la questione intricata dei Rohingya, uno stallo politico evoluto in crisi umanitaria. La NLD non è pronta a rischiare il supporto degli elettori buddisti che rifiutano ogni idea che i Rohingya, come le altre minoranze musulmane, meritino un trattamento eguale al loro da parte delle autorità statali. Anche i militari sembrano fermi sul punto che ogni cambio di rotta sull’argomento da parte della NLD mini le basi della loro partnership con il governo eletto.

Vista dall’interno dell’esteso complesso legislativo a Naypyidaw (Immagine: Nicholas Farrelly).

Per un lungo periodo di tempo, gli attivisti da ogni parte del globo, oltre che interni al Myanmar, hanno proiettato le loro speranze per l’evoluzione politica del Paese nell’ascesa di un governo della NLD. Aung San Suu Kyi è stata un comodo simbolo di resistenza pacifica al governo militare. Quando ancora era immune dai pragmatismi delle decisioni da prendere giorno per giorno, i suoi sostenitori interni e internazionali esultavano per la sua purezza sprezzante, incarnata dal Nobel per la Pace, dagli anni di incarcerazione, dal suo sacrificio personale e familiare, dalla sua ferrea e dignitosa risolutezza. Il mondo intero si era innamorato dell’idea che lei avrebbe potuto guidare una nazione democratica e inclusiva, dove la giustizia avrebbe prevalso, e il mandato popolare avrebbe risolto le aberrazioni della storia.

Sfortunatamente, in questo schema, le illusioni sono spesso state sostitute all’analisi attenta di tutte le sfide che si sarebbero poste di fronte a ogni governo del Myanmar, oltre che alle specifiche limitazioni che la NLD avrebbe potuto incontrare. La coalizione con i militari è il motore del compromesso evolutivo della distribuzione di potere nel Paese, alla cui base vi è la Costituzione del 2008 che pone i termini della continua dominazione dell’esercito in quelle aree dove esso ritiene siano messi in pericolo i propri interessi vitali. Nessuno in una effettiva posizione di potere, tanto meno Aung San Suu Kyi, ha messo in discussione seriamente le basi di questo accordo. Se la NLD prima proponeva emendamenti costituzionali, il focus ora è rimasto sulla rimozione degli ostacoli frapposti alle ambizioni personali di Aung San Suu Kyi anziché sulla cancellazione delle quote di controllo dei militari. Gli equilibrismi politici per ottenere il ruolo di Consigliere di Stato mostrano che i militari hanno davvero poche preoccupazioni riguardo alla capacità di Aung San Suu Kyi di sfidare il loro mandato, avendola proprio nella posizione da essi desiderata.

Per gli attivisti dei diritti umani, lo stato di diritto e la democrazia partecipativa raggiunti sono lontani dai risultati auspicabili. Non stupisce che, durante la visita in Europa nel maggio 2017, Aung San Suu Kyi si sia scontrata con i manifestanti che gridavano “vergogna”. Sotto il governo NLD non è diminuita affatto l’impunità delle forze armate, né si è verificato un accrescimento significativo dei diritti civili. Per alcuni versi, il Myanmar era un Paese più libero durante gli ultimi anni sotto l’Union Solidarity and Development Party (UDSP). I militari erano infatti sicuri delle loro capacità di governo e relativamente tranquilli nel lasciare alla popolazione la possibilità di formarsi la propria opinione. Il risultato più evidente di questa situazione è stata la vittoria della NLD nelle elezioni del 2015. Ciò non sarebbe stato possibile, se i successori del vecchio regime militare avessero ritenuto che ciò andasse oltre il limite accettabile.

Non vi è purezza in ciò che è seguito, e la NLD si è rivelata un alleato vacillante per gli attivisti che ne hanno reso possibile la vittoria nel 2015. Al contrario, la NLD ha necessariamente dovuto trovare il compromesso con i propri sostenitori in uniforme. Il risultato è che Aung San Suu Kyi non ha ancora fatto nessuna mossa seria per attaccare le vestigia del potere militare e gli indizi indicano che resterà riluttante a farlo. Se questo è il quadro, in che posizione pone gli attivisti, interni e stranieri, che hanno combattuto duramente e a lungo per un sistema genuinamente più democratico? Molte grandi organizzazioni internazionali non governative (ONG), come Human Rights Watch e Global Witness, hanno finito per protestare contro Aung San Suu Kyi e il governo guidato dalla NLD. Pensano che sia impossibile conciliare i valori e l’etica della resistenza contro il regime militare con la sua brutta copia, che vedono ora appoggiata dai leader della NLD. Altri attivisti stranieri, indicano le politiche etniche, l’inclusione di genere, i conflitti religiosi e le disparità economiche come altre aree in cui la NLD non abbia fatto abbastanza oppure abbia, addirittura, inasprito i problemi già presenti.

Perdere il supporto di sostenitori di orientamento liberal fuori dal Myanmar non è ancora un problema per la NLD. Al momento è sì esposta alle molte critiche di accademici e ONG, ma questo è vero anche per i leader di tutti gli altri Stati del Sud-est asiatico, anche per quelli davvero democratici. Certamente, un più grande livello di democrazia e apertura (pensando all’Indonesia, alle Filippine o alla Thailandia prima del colpo di Stato del 2014) ha aumentato l’attenzione verso difficili questioni sociali e politiche. Laos e Vietnam, tra le società più autoritarie del Sud-est asiatico, tendono a ricevere solo occasionalmente delle critiche; il Brunei, una monarchia assoluta, probabilmente ancor meno sovente: in quei casi, non ci si attende una pluralità di idee. E anche in sistemi moderatamente autoritari, come Cambogia, Singapore e Malaysia, sembra essere stato raggiunto un equilibrio tra le attese internazionali e i loro valori illiberali.

Al contrario, c’è ancora un’aspettativa generale che il Myanmar debba essere migliore e che l’elezione della NLD nel 2015 aiuterà a creare uno slancio verso un futuro più democratico. Quando l’attuale governo agisce diversamente dalle aspettative, l’opinione pubblica scatena facilmente la propria delusione e addirittura la propria rabbia contro le opportunità mancate. Attualmente, la questione dei Rohingya è magnete per costanti condanne internazionali. I conflitti etnici stanno al secondo posto nella lista dei grandi problemi che ci si aspettava che il governo della NLD avrebbe affrontato in modo migliore.

I pragmatici in Myanmar sottolineano ancora le potenzialità di un ulteriore miglioramento e della creazione di una cultura democratica robusta che vada oltre i limiti della NLD. Gli elementi più senior del partito sembrano riluttanti a prendere seri rischi, situazione che prima o poi incoraggerà le nuove leve che si sentono alla mercé di una gestione gerarchica e conservatrice. Quando la campagna per le elezioni del 2020 si farà seria, questi gruppi cominceranno a considerare come rimodellare la politica del Myanmar in modo da tener conto completamente delle aspirazioni della lotta democratica. Non sono a corto d’idee, ma al momento è per loro difficile essere ascoltati all’interno della struttura della NLD, dove Aung San Suu Kyi è una presenza torreggiante e dominante. Uscire dalla sua ombra sarà l’obiettivo della partita per gli attivisti locali, ma anche dei loro sostenitori stranieri. Il fatto che Aung San Suu Kyi sia riluttante a rispondere alle domande dei media o a interagire con il pubblico in maniera spontanea fa sì che il suo messaggio venga diluito rapidamente. Ma non sembra curarsene. Il rischio è che mentre il suo messaggio svanisce, lo stesso faccia la sua autorità morale e politica.

Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini.

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