La risposta italiana alla pirateria somala

La presenza di 7.500 Km di coste rendono immediatamente evidente quanto il mare sia importante per la sicurezza e l’economia dell’Italia. Dal mare derivano grandi opportunità, ma anche sfide impegnative. Molta attenzione è oggi giustamente rivolta alla crisi migratoria in Mediterraneo, ma non va dimenticato che in ambiente marittimo vi sono anche altri problemi che colpiscono la sicurezza umana ed economica dei cittadini, anche quando si verificano a distanza dalle coste del nostro paese. Uno di questi è la pirateria. L’ultima grande ondata di pirateria è stata legata al collasso dello stato somalo e si è manifestata prima nelle acque a fronte di quel paese per estendersi poi progressivamente a tutto l’Oceano Indiano occidentale. I primi attacchi condotti da pirati somali risalgono quindi agli anni ’90, ma è nel corso degli anni 2000 che le loro attività hanno iniziato a farsi sentire a livello globale, ampliando il loro raggio di azione e la frequenza dei loro attacchi. La fase di massimo impatto è stata raggiunta negli anni tra il 2009 e il 2011, quando gli attacchi attribuiti ai pirati somali hanno superato la soglia di 200 all’anno, incidendo in termini percentuali per più della metà del totale su scala globale.

Un giovane pirata somalo di fronte a un peschereccio trascinato a riva.
Fonte: Farah Abdi Warsameh, AP.

 

Le acque a oriente dell’Africa non sono l’unico luogo del mondo in cui la pirateria marittima si è espressa o si esprime tuttora, ma certamente l’incremento delle capacità dei pirati somali dimostrato dalla loro capacità di proiezione fino a diverse centinaia di miglia dalle loro coste, il numero eccezionalmente elevato di attacchi, e la preferenza per la formula del sequestro della nave e dell’equipaggio (con annesse conseguenze umane e costi di riscatto), hanno imposto sia all’industria marittima che alla comunità internazionale di reagire in modo fermo e pronto. Questa necessità di reazione risulta tanto più comprensibile quando integrata con il dato economico. Il Canale di Suez è un chokepoint obbligato del commercio marittimo globale, per attraversare il quale è necessario il transito nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano. Si tratta di rotte lungo le quali transita circa il 30% del traffico petrolifero e quasi il 20% del commercio marittimo mondiale.

Riportando questo discorso al caso italiano, è opportuno osservare che la nostra flotta mercantile di bandiera è la quinta tra i paesi UE per tonnellaggio di portata lordo (TPL) e il comparto marittimo nel suo complesso pesa per il 2% del PIL. Per avere un termine di confronto, si tenga presente che la flotta mercantile britannica è per portata lorda analoga alla nostra e lo stesso si può dire per il peso del comparto marittimo sul PIL nel Regno Unito. Inoltre, il trasporto marittimo è essenziale nel garantire i flussi di beni in ingresso e in uscita dall’Italia dato che il 50% di questi viaggia via nave: una dipendenza dal mare che riguarda anche il comparto energetico. Non va infine dimenticato che la possibilità di raggiungere in modo sicuro i porti italiani anche per navi battenti bandiere diverse dalla nostra contribuisce a contenere i prezzi dei beni che ogni giorno si acquistano in Italia. La difficoltà a transitare lungo le rotte consolidate avrebbe reso più difficilmente accessibile i porti e il mercato italiano per le merci straniere, con ovvie conseguenze in termini di perdita di posti di lavoro e di aumento dei prezzi.

Le navi battenti bandiera tricolore hanno subito i primi gravi attacchi a partire dal 2005. La Marina Militare italiana ha risposto prontamente, dispiegando per prima una missione navale anti-pirateria (“Mare Sicuro”). Questo precedente, è stato seguito da altri, di carattere più propriamente multilaterale, dato l’impatto internazionale del fenomeno pirateria. Nel dicembre 2008 fu lanciata l’operazione europea EUNAVFOR “Atalanta”, alla quale si affiancarono nel gennaio 2009 la “Combined Task Force 151” (CTF-151), a guida americana, e nell’agosto dello stesso anno la missione NATO “Ocean Shield”. La missione NATO si è chiusa nel dicembre del 2016, ma sia EUNAVFOR “Atalanta” che CTF-151 sono ad oggi ancora attive, mentre la NATO continua a monitorare la situazione, tenendosi pronta a reagire in tempi brevi in caso di necessità. Alle grandi missioni internazionali si sono affiancati gli sforzi di singoli paesi (tra i quali Cine e Russia) che hanno condotto le loro operazioni di contrasto alla pirateria su base unilaterale, ma coordinandosi comunque con le missioni multilaterali già in atto nelle stesse acque.

Un team di EUNAVFOR a bordo di un’imbarcazione sospetta al largo delle coste somale.
Fonte: Flickr/EUNAVFOR.

L’avvio delle tre grandi operazioni navali tra il 2008 e il 2009 ha contribuito in modo sostanziale a rendere il transito dei mercantili più sicuro, ma di per sé non si è rivelata risolutivo, proprio perché i pirati hanno ampliato significativamente il proprio raggio di azione, aumentando dunque i tempi di reazione necessari alle navi militari per raggiungere il luogo di un attacco e debellarlo in tempo utile. Questo sviluppo, ha messo in crisi il modello di protezione classico del naviglio mercantile, fondato cioè sull’impiego di mezzi difensivi e non letali (quali l’applicazione di filo spinato in testa alle murate, l’impiego di cannoni ad acqua per respingere gli assalitori, ecc.).

I mercantili italiani, in particolare, hanno subito numerosi attacchi, e secondo i dati dell’International Maritime Bureau (IMB) tra il 2008 e il 2011 sono stati presi di mira più di frequente rispetto ad altre flotte europee di dimensione simile, come quella britannica o quella norvegese. Nel solo 2011 tre navi italiane sono state sequestrate da pirati somali. In uno soltanto di questi casi la situazione è stata risolta da un intervento militare, mentre negli altri due è stato pagato un riscatto. Il problema della pirateria somala è stato avvertito su scala globale, ma in termini relativi si è dunque fatto sentire più sull’Italia che su altri paesi. Se si considerano complessivamente l’incidenza del fenomeno pirateria sulla flotta mercantile italiana (e dunque anche sui marinai, che ne hanno patito per primi il costo umano), l’impatto economico immediato (riscatti) e quello potenziale (perdita di centralità del Mediterraneo, aumento dei costi di importazione dei beni), non si fatica a comprendere come mai le istituzioni siano state pronte a recepire le richieste provenienti dall’armatoria e ad aprire a opzioni complementari alle missioni navali. In particolare, nel 2011, è stata consentita la possibilità di imbarcare personale armato sulle navi mercantili battenti il tricolore, in analogia con quanto stava venendo autorizzato nello stesso momento anche presso altri paesi europei.

Ciò è avvenuto nel luglio 2011, con un articolo inserito in un decreto legislativo, poi convertito il mese successivo nella celebre Legge 130/2011. In somma sintesi, su una nave italiana è consentita la possibilità di impiego di team armati solo nel caso in cui l’imbarcazione debba transitare in acque definite come rischiose da un decreto del Ministero della Difesa, e solo se sono già state installate adeguate misure di protezione passiva a bordo. Il team armato è dunque soltanto l’ultimo strato di un sistema di protezione ben più complesso e articolato, costituito da sistemi passivi e dalla protezione derivante dalla presenza di missioni navali militari nell’area in cui il mercantile intende transitare. Mettendo il fuoco sui team armati in particolare, la Legge 130 è “ibrida” o “duale”: prevede cioè la possibilità di impiego alternativo sia di team militari (Nuclei Militari di Protezione, NMP) che di team di guardie armate civili. Il sistema però non pone queste due opzioni allo stesso livello, poiché è necessario in prima battuta fare richiesta di un NMP e solo qualora questo non sia disponibile (ma la richiesta di protezione sia comunque fondata), l’armatore ha facoltà di rivolgersi al mercato della sicurezza privata.

Pur non essendo stata emendata, dal 2011 a oggi la Legge 130 ha avuto tre fasi. Nella prima, durata dall’entrata in vigore della legge fino all’ottobre 2013, era di fatto possibile ricorrere esclusivamente a NMP, poiché l’apparato regolatorio relativo all’opzione privata era ancora assente e ha richiesto del tempo per essere messo a punto. La sfortunata vicenda dell’Enrica Lexie, avvenuta nel febbraio 2012, è stata certamente uno dei fattori che ha contribuito a rendere evidente la necessità di completare il sistema di norme e di rendere la Legge 130 operante al 100%. La pietra angolare di questo sviluppo è il Decreto Interministeriale 266/2012 che regolamenta l’impiego di guardie giurate sui mercantili di bandiera italiana. A partire dall’ottobre 2013, quando i processi di autorizzazione sono diventati operativi, la Legge 130 ha dunque funzionato al pieno delle sue potenzialità. Ciò è durato fino al marzo 2015, quando il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato la sospensione degli NMP. Non essendo nel frattempo cambiata la legge, ancora oggi per l’armatore è necessario richiedere un NMP e vedersi declinare la richiesta, data la non disponibilità di questi ultimi, prima di poter ingaggiare il proprio team di protezione privato.

È incontestabile che il sistema combinato dato dalla compresenza di missioni navali più team armati (indipendentemente dalla natura di questi ultimi) abbia funzionato, e ciò è vero sia per l’Italia che per gli altri paesi che hanno applicato un sistema analogo. Dal 2011, anno in cui l’impiego di team armati a bordo dei mercantili in transito in acque rischiose è diventato la norma, il numero di attacchi attribuito a pirati somali è crollato drasticamente, fino a raggiungere un simbolico zero nel 2015. Anche se la formula ha funzionato, le ragioni per tenere alta l’allerta non mancano. In primo luogo, perché le attività condotte al largo delle coste somale hanno contenuto i sintomi (la pirateria) ma non curato il male (l’instabilità somala) e a fronte di una riduzione delle misure di protezione il problema può riproporsi. Il 2017, purtroppo, è stato testimone di un rilancio della pirateria somala, anche se il numero degli attacchi è, almeno per ora, ben distante dai valori degli anni 2009-11. In seconda battuta va tenuto presente che la pirateria non si manifesta solo al largo della Somalia, ma anche nelle acque di altre aree come l’Africa occidentale (e in particolare presso il Golfo di Guinea) e il Sud-est asiatico, dove però si presenta con specificità diverse (ad esempio collocandosi in acque territoriali anziché internazionali) il che richiede dunque l’elaborazione di una risposta che vada oltre l’esperienza già maturata nella lotta alla pirateria somala.

Per saperne di più:

Adnkronos (2017) “Somalia, nave italiana ferma gruppo di pirati”, Adnkronos, 20 novembre 2017. Disponibile su: http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2017/11/20/somalia-nave-italiana-ferma-gruppo-pirati_puy5UZ1NTG7kcfZ3QEIuiL.html

Carboni, T. (2017) “Fame, pesca illegale e meno controlli: in Somalia tornano i pirati”, La Stampa, 22 maggio 2017. Disponibile su: http://www.lastampa.it/2017/05/22/esteri/fame-pesca-illegale-e-meno-controlli-in-somalia-tornano-i-pirati-b9dUCILMTmXi86YdmfDAnO/pagina.html

Cusumano, E. e Ruzza, S. (2015) “Contractors as a Second Best Option: The Italian Hybrid Approach to Maritime Security”, Ocean Development & International Law, vol. 46 n. 2, 2015, pp. 111-122. Disponibile su: http://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/00908320.2015.1024063

Cusumano, E. e Ruzza, S. (2017) “Security privatization at sea: Piracy and the commercialisation of vessel protection”, International Relations, 20 settembre 2017. Disponibile su: http://journals.sagepub.com/doi/10.1177/0047117817731804

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