In precario equilibrio: Giappone nel Sud-Est asiatico tra Cina e Stati Uniti

L ’equilibrio tra le potenze asiatiche non era così teso dagli anni della Guerra fredda. Nonostante non ci siano stati grandi cambiamenti geopolitici, l’unipolarismo statunitense dell’ultimo ventennio sembra non riuscire più a gestire allo stesso tempo la globalizzazione dei mercati e la diversificazione delle identità socio-politiche nazionali. Ciò ha ulteriormente incoraggiato quel processo di autodeterminazione dei Paesi asiatici che sta a sua volta contribuendo all’estremizzazione di sentimenti nazionalistici in tutta la regione.

La Cina ha appena concluso il 19° Congresso del Partito che, oltre a eleggere la nuova leadership del Politburo (sei nuovi membri, e Xi Jinping di nuovo alla presidenza), ha cristallizzato il potere personale di Xi, inserendolo nelle fila di Mao Zedong e Deng Xiaoping, e di fatto elevandolo a leader indiscusso della superpotenza cinese verso una “nuova era del socialismo con caratteristiche cinesi”.

La Corea del Nord, nella sua corsa agli armamenti nucleari, sembra essere sempre più pronta a un confronto militare per puri motivi ideologici. Perciò, è anche l’unico Paese facilmente collocabile nel discorso geopolitico asiatico, ancora impregnato da logiche di Guerra fredda.

Gli Stati Uniti di Donald Trump, seppure con considerevoli opposizioni interne, stanno ridimensionando la loro politica di non allineamento a favore di un approccio decisamente più aggressivo per difendere gli “interessi statunitensi” in Asia.

In questo complesso contesto, il Giappone si trova circondato da forze centrifughe e centripete, che lo spingono non solo a essere diplomaticamente più assertivo, ma anche a mostrarsi militarmente più deciso di quanto la sua costituzione pacifista attualmente non permetta.

Seppur a grandi linee, l’analisi e l’inquadramento delle interdipendenze geopolitiche asiatiche sono necessari per comprendere come il Giappone, terza economia mondiale, fermo alleato statunitense, e unico caso nella regione di democrazia di stile occidentale, riesca, nonostante la modesta estensione territoriale, un debito pubblico colossale e un’economia piuttosto pigra, a esercitare la sua influenza e a contrastare l’ubiquità cinese nel continente.

Un manifesto della Zona Economica Speciale di Thilawa creata a sud di Yangon nel 2011 grazie agli investimenti giapponesi. Immagine: Giuseppe Gabusi.

Il Giappone è legato agli Stati Uniti sia militarmente sia economicamente. Militarmente, è vincolato da un patto che obbliga gli Stati Uniti a difendere anche preventivamente suolo e acque territoriali giapponesi da attacchi esterni, in cambio del mantenimento dell’articolo 9 della costituzione che gli Stati Uniti vincitori imposero al Giappone sottomesso a fine Seconda Guerra Mondiale (che limita le capacità delle forze armate nipponiche a sole azioni difensive). Economicamente, il Giappone “ripaga” il favore rimanendo nei decenni il primo acquirente di debito pubblico statunitense per possesso di buoni del tesoro.

Allo stesso tempo, il Giappone è il più grande partner economico cinese in Asia, e il secondo al mondo dopo gli Stati Uniti. Ciò unisce i due Paesi da interessi a lungo termine che spesso superano qualsiasi retorica e provocazione diplomatica. E per ora, grazie anche alla minaccia più immediata della Corea del Nord, sembra che perfino il confronto diretto nella disputa delle isole Senkaku/Diaoyu sia stato scongiurato.

Tokyo ha inoltre in atto una cooperazione diplomatica di alto livello con Mosca, con cui dialoga su una piattaforma pionieristica detta two-plus-two che coinvolge i rispettivi Ministeri della Difesa e degli Affari Esteri per ogni trattativa bilaterale, allontanando così potenziali conflitti tra i due Paesi e assicurandosi la neutralità della Russia in caso di scontri regionali che coinvolgano il Giappone (si ricorda che i due Paesi non hanno ancora formalmente firmato un accordo di pace in conclusione della Seconda Guerra Mondiale, e che stanno ancora cercando di risolvere delle dispute territoriali).

Tale interdipendenza, e la sussistenza di una pluralità di centri di potere, hanno dimostrato di essere il deterrente più adatto contro conflitti diretti di superpotenze in Asia (a eccezione della Corea del Nord). Si tratta però di un precario equilibrio che tuttavia permette al Giappone come alla Cina di indirizzare la propria attenzione verso, per esempio, il Sud-est asiatico. E mentre a Nord-est le due potenze si sfidano a colpi di deterrenza e diplomazia, è nel Sud-est che si raccolgono i frutti materiali di una cooperazione multi-settoriale. In questo contesto, Tokyo considera la sua presenza nel Sud-est asiatico fondamentale per la sua stessa sopravvivenza in Asia e per il rafforzamento di alleanze economico-politiche che gli permettano di mantenere una solida base consensuale non solo in Asia, ma di riflesso anche negli Stati Uniti. Se infatti Washington si fa carico degli interessi giapponesi mandando la sua marina in acque territoriali contese e attraccando in porti amici, Tokyo estende gli interessi commerciali statunitensi comportandosi da vero e proprio proxy.

Sia per Washington sia per Tokyo, questa sarebbe la strategia vincente per contrastare le politiche espansionistiche cinesi nel Sud-est. L’ammontare medio annuo di investimenti diretti esteri (IDE) giapponesi verso i Paesi dell’ASEAN è infatti secondo solo a quello dell’Unione Europea e in media tra il doppio e il triplo degli investimenti cinesi. E se si analizzano le tendenze statistiche degli ultimi decenni, si capisce anche come eventuali fluttuazioni di IDE giapponesi siano facilmente collegabili ad analoghi aggiustamenti di investimenti statunitensi verso il Giappone. Inoltre, gli IDE giapponesi verso i Paesi dell’ASEAN ormai superano di gran lunga quelli verso la Cina.

Fonte: JETRO

Anche nelle esportazioni giapponesi verso l’ASEAN si possono notare comportamenti di mercato simili. L’unico indicatore nettamente a favore della Cina restano le importazioni cinesi in ASEAN, ufficialmente doppie rispetto a Giappone, UE, e USA (gli altri maggiori esportatori), ma se si considera anche il mercato nero si stimano somme quattro volte superiori.

Un’analisi di quanto appena descritto ci aiuta a capire le motivazioni e l’astuta strategia del Giappone nella regione. La Cina è ugualmente avvantaggiata ed estremamente ostacolata dalla sua posizione geografica sovrastante il Sudest asiatico. Se da una parte infatti il commercio formale e informale ne trae immensi benefici in termini economici, le sue mire espansionistiche, le immancabili dispute marittime e territoriali, le inevitabili implicazioni transfrontaliere, la presenza all’interno dei Paesi di ampie comunità cinesi (la cui lealtà nazionale è spesso stata considerata dubbia) e la bassa qualità delle maggior parte delle esportazioni hanno alimentato negli anni un malcontento che si estende dalle autorità fino alla gente comune dei Paesi dell’ASEAN.

Il Giappone, al contrario, pur non condividendo confini geografici con la regione, assicura la sua presenza militare in aiuto ad attuali e future dispute (anche tramite gli Stati Uniti, come accennato), immette regolarmente nei sistemi economici un’ingente quantità di IDE, e attua, in misura crescente grazie alla spinta della “Indo-Pacific Policy”, grandi progetti di infrastrutture (soprattutto in opere che riguardano la connettività della regione, quindi porti, aeroporti, reti ferroviarie e metropolitane, e zone economiche preferenziali).

Infine, il Giappone ha dimostrato di essere molto lungimirante nella sua strategia. Mentre anche la Cina ha da sempre finanziato grandi opere, l’ha spesso fatto per trarne vantaggi commerciali, e per questo non pretende adeguati livelli di trasparenza o effetti positivi per le nazioni riceventi.

Il Giappone invece esige altissimi livelli di trasparenza e spesso affianca ai suoi investimenti dei programmi di assistenza tecnica e strutturale per i governi delle nazioni riceventi. Se ciò nei primi anni scoraggiava le ancora deboli economie asiatiche, adesso che i governi ne hanno sperimentato gli intrinsechi vantaggi non riescono più a farne a meno, e la sete economica sta pian piano facendo spazio a un’aspirazione a una sostenibilità socio-politica più degna, che permetterebbe a tutti i Paesi del Sud-est asiatico di ottenere un livello di sviluppo superiore a quello attuale, più equilibrato. Questa, almeno, appare la sfida che il Giappone lancia indirettamente alla Cina nel Sud-est asiatico.

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