La risposta al consolidamento autoritario in Cambogia: troppo poco, troppo tardi?

Fotografie del Presidente cinese Xi Jinping e di Sua Maestà Re Norodom Sihamoni in occasione della visita ufficiale del capo di stato cinese a Phnom Penh (Immagine: Bradley J. Murg)

Il Primo Ministro cambogiano Hun Sen negli ultimi sei mesi ha iniziato a consolidare rapidamente il proprio controllo in vista delle elezioni parlamentari del prossimo luglio, mossa prevedibile dal momento che i risultati tanto delle ultime elezioni nazionali quanto di quelle comunali del giugno 2017 hanno mostrato come il partito di governo, sebbene ancora maggioritario, stia perdendo consensi in modo considerevole.

Il Partito per la Salvezza Nazionale della Cambogia (CNRP), la principale voce di opposizione nel Paese, è stato messo fuori legge e molti dei suoi parlamentari sono fuggiti all’estero per evitare l’arresto. Molte Organizzazioni non governative (ONG), tra cui l’Istituto Nazionale Democratico (NDI) supportato dagli Stati Uniti, hanno lasciato la Cambogia o sono state chiuse, e le testate giornalistiche indipendenti, in primis il Cambodia Daily pubblicato in inglese, hanno subito forti pressioni e in alcuni casi cessato le attività.

La Cambogia è stata a lungo considerata dagli osservatori, seguendo la definizione proposta da Levitsky e Way, un autoritarismo competitivo, ovvero uno stato che, contrariamente ai regimi completamente autoritari, ammette un certo grado di contestazione politica in ambito elettorale, legislativo, giudiziario e giornalistico, ma in cui rimane generalmente assicurato il controllo continuo del partito di governo. Questa fase sembra essersi esaurita con la progressiva restrizione di tali spazi di libertà e lo sviluppo graduale di un regime autoritario ibrido personalistico e a partito unico. Come rispondere a questi sviluppi è la domanda che si stanno ponendo i policy maker a Washington e Bruxelles.

Alla luce dei miliardi di dollari riversati in Cambogia da parte dei donors occidentali a partire dagli accordi di pace di Parigi del 1991, la questione risulta tutt’altro che marginale. I governi occidentali sembrerebbero detenere un’influenza economica rilevante grazie a tre fattori principali: a) l’economia cambogiana è ancora fortemente dipendente da un settore tessile orientato alle esportazioni; b) Phnom Penh difficilmente troverebbe mercati di sbocco alternativi e pronti qualora venissero introdotte delle sanzioni; c) lo spettro di opzioni a disposizione del regime del Partito Popolare Cambogiano (CPP) in caso di proteste di massa appare limitato dato che, come sottolineato da un alto funzionario governativo intervistato dall’autore, una repressione sanguinosa in stile Tienanmen contro l’opposizione colpirebbe gravemente un settore, quello turistico, che dipendente dagli arrivi degli occidentali e che pesa per quasi un quinto del PIL cambogiano.

Sulla base di queste percezioni, il Senato statunitense ha vagliato l’introduzione di sanzioni mirate contro i leader del CPP che includerebbero il congelamento dei beni e il divieto di rilascio di visti, mentre il 9 febbraio 2018 un gruppo bipartisan di senatori ha presentato una proposta di legge volta ad esercitare maggiore pressione. Contemporaneamente la Vice Presidente della Sottocommissione per i diritti dell’uomo del Parlamento Europeo ha dichiarato che Bruxelles dovrebbe presto approvare misure sanzionatorie che secondo gli osservatori potrebbero concretizzarsi in: a) sanzioni a tappeto a tutti gli scambi con la Cambogia; b) la revoca del regime di esenzione tariffaria e fiscale; e c) sanzioni mirate come quelle prese in considerazione dagli Stati Uniti.

Le sanzioni, tuttavia, hanno avuto storicamente livelli di efficacia diversi. Sanzioni eccessivamente estese possono ridurre il livello di democraticità poiché i regimi utilizzano le avversità economiche derivanti dalle sanzioni per indebolire ulteriormente le opposizioni e ottenere un rinnovato supporto popolare. Appare improbabile che questo tipo di sanzioni possa essere applicato alla Cambogia. Per contro, sanzioni mirate che non provocano gravi danni all’economia, se delineate in modo da colpire gruppi di interesse chiave potrebbero indurre, a livello teorico, il CPP a fornire le risposte politiche auspicate, quantomeno il rilascio di alcuni leader dell’opposizione. Al momento questa sembra l’opzione più verosimile.

Un’analisi focalizzata esclusivamente su queste opzioni trascurerebbe però la nuova realtà politica ed economica della Cambogia contemporanea, che nell’ultimo decennio si è smarcata dalla dipendenza dagli aiuti e dagli investimenti occidentali. La Cina, assente dalla scena cambogiana dalla fine della Guerra fredda e dalla decimazione del regime dei Khmer Rossi sostenuto da Pechino, vi ha fatto ritorno portando con sé enormi quantità di aiuti e investimenti. Per Phnom Penh la Cina è ora la principale fonte di investimenti diretti esteri (IDE) e anche se stando ai dati ufficiali del Consiglio per lo sviluppo della Cambogia (CDC) la Cina si posiziona nettamente dietro al Giappone per quanto riguarda l’assistenza ufficiale allo sviluppo (ODA) la realtà sul campo mostra la preponderanza della Cina con centinaia di interventi a livello nazionale, provinciale e comunale. È raro che trascorra una settimana senza che giunga in Cambogia una delegazione dal possente vicino a settentrione; dalla costruzione di dighe, all’espansione del porto di Sihanoukville, al settore turistico, la Cina progressivamente ha assunto la posizione di maggior forza economica nel Paese, superando di gran lunga quella dei governi occidentali.

Del resto, l’investimento in questa specifica relazione bilaterale è valso ben oltre il suo prezzo. Come membro dell’Associazione delle Nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN) la Cambogia ha appoggiato la posizione di Pechino nel Mar Cinese Meridionale costantemente e attivamente, ed è sempre più considerata negli ambienti diplomatici del Sud-est asiatico alla stregua del portaborse della Cina su varie questioni. Parallelamente, viene regolarmente sottolineato il ruolo centrale della Cambogia nell’Iniziativa “Belt and Road” (BRI) del Presidente cinese Xi Jinping in continua espansione. Grazie al fatto che la Cina ha ormai rimpiazzato investitori e donors tradizionali, il Primo Ministro Hun Sen non è più vincolato dalla necessità di placare le preoccupazioni occidentali in materia di diritti umani e democratizzazione, un dato a cui nel corso dell’ultimo anno ha fatto allusione pubblicamente in svariate occasioni. La Cina può facilmente colmare qualsiasi lacuna al fine di proteggere il proprio “stato cliente di più recente acquisizione”, pertanto nonostante l’approvazione di sanzioni mirate sia probabile, la loro efficacia sarà fortemente compromessa da una Cina resuscitata che cerca di proteggere i propri interessi nella regione.

Nel corso dell’ultimo decennio, l’azione politica statunitense ed europea nei confronti della Cambogia è stata attiva in molte aree, ma quest’ultima non è mai stata ritenuta un interesse fondamentale. La formula “benevolo disinteresse” riassume meglio di ogni altra come Washington e Bruxelles abbiano reagito alla costante crescita dell’influenza cinese nel Paese negli ultimi anni. Invece che chiedersi che cosa si debba fare, dopo decenni di aiuti, anni di programmazione di piani per la democratizzazione e miliardi di dollari spesi la domanda più appropriata oggi è: “chi ha perso la Cambogia?”

Traduzione dall’inglese a cura di Gabriele Giovannini. Leggi (e condividi) questo articolo anche in inglese sul sito di T.wai  

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