[IT] Per cercare di delineare i contorni del peacebuilding italiano non si può che partire da una riflessione più ampia su cosa si intenda con il termine “peacebuilding”. A livello internazionale esso è stato spesso definito come una sorta di terza fase della “catena della sicurezza” che va dalla prevenzione del conflitto, alla gestione del conflitto per poi giungere a una situazione post-conflittuale dove, teoricamente, troverebbero spazio tutta una serie di attività volte alla (ri)costruzione della pace che vanno sotto il nome di “peacebuilding”.
[IT] L’Italia è tradizionalmente tra i principali sostenitori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), impegno che ha ricevuto conferma e nuovo impulso nell’anno della Presidenza italiana dell’Organizzazione, estesasi lungo tutto il 2018. È utile ricordare che, in un’organizzazione priva di personalità giuridica e di strutture sovranazionali con funzioni esecutive o normative, la Presidenza rappresenta l’unico organo di indirizzo politico e di rappresentanza.
[IT] Il peacebuilding nasce in ambito ONU dalla constatazione dell’insufficienza di un approccio concentrato sulla sola gestione dei conflitti, in scenari di crisi resi sempre più complessi dalla natura differenziata e interconnessa dei fattori di instabilità: fragilità delle istituzioni, intervento di attori non statuali, criminalità organizzata e traffici illeciti, terrorismo ed estremismo violento, povertà e disuguaglianze, impatto del cambiamento climatico, flussi migratori.
[IT] Esiste un’immagine, nella storia recentissima del nostro attivismo in Italia, che ben rappresenta cosa significa, per Amnesty, agire per il rafforzamento dell’Italia come attore positivo nel panorama mondiale delle strategie di peacebuilding: la nostra bandiera che sventola insieme ai cartelli dei portuali genovesi per impedire la partenza di una nave carica di armi per l’Arabia Saudita. Quelle armi sono dirette in Yemen, teatro di uno tra i più violenti conflitti armati attualmente in corso nel mondo.